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Autore: AnnaPi    20/01/2015    0 recensioni
I rimpianti e i ricordi sensoriali di una vita strappata alla gioventù.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fiori. Di tutti i colori. Non ricordo altro di quel giorno. Mi carezzavano la pelle e io carezzavo i loro petali coi polpastrelli delle dita. Non dimenticherò mai la sensazione che si prova ad accarezzare un fiore: ogni singola cellula si protende alla meraviglia della natura, la incontra in una danza dei sensi che inebria e completa, si protrae per i nervi del corpo e arriva al cervello ad una velocità indescrivibile e segna la memoria occupandone un posto privilegiato. Io parlavo coi fiori e loro parlavano a me; mi rivelavano i più appetibili segreti del genere umano, narrando di chi prima di me li aveva accarezzati, aveva rivolto loro uno sguardo o una parola, oppure respirato il loro profumo eterno. Li avrei ascoltati all’infinito, quei fiori: sapevano dirmi molto più di quanto una persona avrebbe potuto dire. Questo è l’ultimo ricordo che ho, prima del viaggio. Il mio corpo tra un mare di fiori, il mio vestito arlecchino la cui ampia gonna imitava i movimenti del vento, il sacro e terreno completarsi con la natura: l’ultimo ricordo della mia carne.
Avevo ventun’ anni. Ventuno come la giovinezza, ventuno come la bellezza al suo fiorire. Non avevo visto tutto quello che avrei voluto vedere, o conosciuto tutto ciò che la mia mente curiosa bramava di conoscere, non avevo assaporato, amato, combattuto, costruito: vissuto. Avevo appena cominciato a crearmi una vita fatta di tasselli di un puzzle che non avrei mai ultimato, ed è per questo che non riesco a staccarmi da loro. Loro sono tutto ciò che io avrei desiderato essere; nulla più, nulla meno.
Oggi Carla prepara una torta di mele: la migliore del mondo, dicono gli amici. Io questo non lo posso sapere, non lo posso provare. Non più. Ricordo ancora la torta che preparava Maria, la mia vicina di casa: dolce, friabile, leggera e intensa, per il palato un interminabile viaggio dei sensi. Giurerei di poterla ancora sentire sulla lingua. Vedo Carla che si muove tra i banchi della cucina; odio che mi passi a fianco indifferente. Si destreggia tra uova, farina, lievito e mele tagliate a fette sottili: sono fresche, pallide ma intrise di vita, figlie della natura. Non mangiavo molte mele, quando ne avevo la possibilità; ora non so cosa darei per assaporarne una fetta. Il gusto è, o meglio era, uno dei miei sensi preferiti: questo perché il cibo ha la straordinaria capacità di rievocare emozioni, sensazioni, ricordi, e così un determinato sapore è in grado di stimolare mente e cuore. La torta che prepara Carla, giovane donna che inconsapevolmente mi ospita in casa, sa di allegria e gentilezza. Allegria, come quella che scoppiava sul mio volto quando Maria mi portava una delle sue torte; gentilezza, come quella che Maria curava nell’animo come un bene prezioso da condividere con gli altri. Sono felice di aver potuto sapere cos’è la gentilezza, sono sollevata di averla potuta provare sulla mia pelle prima che il tempo che avevo scadesse, prima che la sabbia nella clessidra della mia vita smettesse di scorrere coi suoi granelli dorati. Adoravo anche l’olfatto. Ricordo di averlo avuto acuto, tanto che ogni anno andavo annusando l’aria in cerca della primavera, che riuscivo a sentire ancor prima che arrivasse. Ora non sono in grado nemmeno di inebriarmi della dolce fragranza delle mele. L’udito, insieme alla vista, è l’unico senso che mi rimane e sono grata di non averlo perso, anche se a volte mi chiedo se i suoni che sento siano reali e concreti oppure esclusivi pensieri dell’anima delle cose, infrasuoni dell’essenza. Ed ecco che Andrea entra in cucina. È bello, giovane, pieno di vita. Quando lo guardo ho la certezza che non perderò mai il senso della bellezza. Giurerei di amarlo, anche se lui ora si dirige verso Carla per chiuderla in un dolce abbraccio. Ecco un altro senso che mi manca terribilmente: il tatto. Il tatto è il senso che mette in comunione l’anima col mondo terreno, che permette tramite il corpo la comunicazione tra la materia e lo spirito. È maestro di parole mute, precettore del non detto, amante dell’espressione, esploratore attento. Vede ciò a cui la vista non arriva, trasmettendo immagini non alla retina, ma al cuore. E adesso Andrea le dà un bacio. L’amore, giuro, è ciò che più mi manca… anche se non posso non chiedermi come si fa a sentire la mancanza di qualcosa che non si è mai conosciuto. Sono morta senza aver amato, senza aver mai potuto sapere cosa si prova nel ricevere un bacio. Per quanto la mia vita fosse stata piena di affetto, amicizia, sentimenti buoni, lacrime, sorrisi, momenti bui e poi sereni, non avevo ancora provato tutto quello che valeva la pena di provare. Ora questo lo vedo in Carla e Andrea, in loro ritrovo il senso della vita; un senso che ogni essere umano cerca non appena la sua mente si apre alla ragione e alla curiosità, un senso che non tutti riescono a trovare e che io ho sempre creduto essere uno solo: vivere. E quando dico “vivere” intendo amare, gioire, soffrire, cadere, rialzarsi, crescere, scoprire, comunicare, creare. Intendo alzarsi la mattina e ringraziare il sole dei suoi raggi; addormentarsi la sera salutando la luna; sorridere agli altri per infonder loro gioia; essere felici, insieme, ma mantenendo l’arguta capacità di condividere anche il dolore. Questo perché in tutto quello che concerne la vita, andando dalle cose naturali a tutto ciò che ci circonda, ai borghi fioriti, ai deserti sconfinati, al profumo caldo del pane fatto in casa dalla nonna che ancora usa il forno a legna, le metropoli coi loro grattacieli che solleticano il cielo con le loro punte che gareggiano per altezza, le ingiustizie, le vittorie, le scoperte e le sconfitte, dietro tutto ciò, dentro tutto ciò, c’è la vita che parla, che sente, che ama. E allora vivete, prima che sia troppo tardi.
  
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