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Autore: Francine    22/01/2015    2 recensioni
E poi ci sono loro. Le infiltrate. Quelle che necessitano di più spazio di quello garantito da cento parole secche. Quelle che non hanno un posto dove andare, come i coralli aggrappati allo scoglio. Quelle che non hanno legami, non hanno radici, non hanno una genesi. Quelle che ho scritto quando avrei dovuto concentrarmi su qualcos’altro. Quelle che sono un tappeto di nuvole. Un’accozzaglia di cause perse, insomma. Le ho raccolte tutte qui, nella speranza che possa farvi piacere.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Caleidoscopio'
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#49 See the stars, they're shining bright 
Prompt: Mare – Notte - Stelle
Fandom: Saint Seiya
Personaggi: Julian Solo – Siren Sorrento
 
 
I'm taking a ride 
With my best friend 
I hope he never lets me down again 
He knows where he's taking me 
Taking me where I want to be 
I'm taking a ride 
With my best friend 
(Depeche Mode, Never let me down again, 1987)



L’automobile sfila veloce lungo la litoranea, andando incontro all’abbraccio del sole che si sta inabissando nel mare. Vorresti superare con un salto il guard-rail, come fosse una staccionata in un prato di girasoli, e se ci fossi tu alla guida il pedale affonderebbe e sì, la piccola Fiat 500 bianca finirebbe per volare nella scarpata, e tuffarsi in acqua.
Sorrento lo sa. Ed è per questo che guida lui.

Hai troppo vento nei capelli, ma non importa. Hai troppi e tanti pensieri da sbrogliare, come un gomitolo sfatto che un gatto dispettoso ha dapprima ingarbugliato e poi lasciato lì, in un angolo della tua mente, stufo di quel baloccamento innocuo. Sorrento lo sa. Ed è per questo che se ne resta in silenzio. Sperando – pregando – che un po’ d’aria sul viso ti aiuti a fare chiarezza dentro di te. E che plachi il languore che ti accompagna da un paio di giorni.
Ci sono sere in cui la malinconia viene avanti, come la marea. Sere in cui il pizzicato del violino di Sorrento non basta a placare le tue ansie. Sere in cui è impossibile distogliere l’attenzione da quella massa nera all’orizzonte che ripete incessante il tuo nome. Come la sirena fa col marinaio. E mai come in quelle sere tu, Julian Solo, hai bisogno di un amico. Sorrento lo sa. Ed è per questo che è apparso alle tue spalle, mentre il sole raccontava segreti alle tegole del cielo, facendole arrossire e tu scrutavi il mare all’orizzonte, le tende della stanza strette tra le mani come fossero un ancora e tu una nave alla deriva. O un marinaio che sente il disperato bisogno di avere il beccheggiare della barca sotto di sé. Per ritrovare l’equilibrio instabile che sulla terraferma gli piomba il cuore ed i piedi.
Sorrento queste cose le sa. Ed è per questo che ti ha porto la giacca. E ti ha detto:«Andiamo».
Perché il mare ti sta chiamando. Nel suo battere e levare contro la spiaggia. Nello sciabordio ritmico delle onde. Nel suono della risacca che torna verso il mare aperto, delusa per non essere riuscita a lambirti le caviglie ed averti portato indietro. Con sé.

Durante il giorno Julian Solo, l’erede di un impero che ha abbracciato una causa umanitaria e adesso se ne va in giro per il mondo, riesce a distrarsi. Parla con le persone. Gioca con i bambini meno fortunati. Firma assegni. Telefona a casa per rassicurare sua madre, suo padre e suo nonno che sì, è ancora vivo. E che tornerà a casa, prima o poi. Ma quando cala la notte la faccenda si complica. Perché il mare chiama. Canta la sua canzone, quella che tanto ti affascina, Julian, e che ti muove l’animo. E tu non senti più nulla se non quel richiamo. Tutto svanisce. L’antifurto disperato in strada, i gatti in amore nel vicolo, la televisione troppo alta nell’appartamento accanto, la musica che pompa dalle casse di un’automobile di passaggio, bucando il silenzio della notte e proseguendo oltre. Senza sentire quello che il mare ha da raccontare. Senza accorgersi di quella ninna nanna liquida che atterrisce il tuo cuore.
Sorrento lo sa. E tu sai cosa si sta chiedendo, adesso, mentre accompagna l’andamento della curva con un movimento deciso del polso.
Sorrento si sta chiedendo per quanto tempo ancora potrai andare avanti. Se mai riuscirà a tornare a casa, il rampollo dei Solo, o se non scivolerà piuttosto nel mare. Cadendo da un traghetto. Oppure tuffandosi tra i flutti. Cercando di tornare a casa, quella vera. La sua reggia di coralli e calcedonio sul fondo del Mediterraneo. Quella che fino ad oggi pomeriggio credevi fosse solo un sogno. Il delirio di un folle o il desiderio di un innamorato, chi lo sa? Chi può saperlo?

L’ultimo ricordo nitido che hai della tua vita è quella sera sulla terrazza della villa a Glyphada. Indossi il tuo sorriso migliore, un completo di sartoria italiana, un calice in mano e la luna alle tue spalle, affacciata alla terrazza della notte. Con te c’è una ragazza. Ha lunghissimi capelli di seta ed un vestito bianco, stretto in vita. Quando i tuoi occhi hanno incontrato i suoi, qualcosa è scattato in te. E l’hai trascinata sulla terrazza. E le hai chiesto di sposarti. E lei ha detto di no, e tu ti sei sentito un perfetto imbecille. E una rabbia impetuosa squassarti il cuore. Come se il tuo sangue si fosse tramutato nel mare in tempesta. E hai pensato che fosse colpa sua. Sua. Solo sua. Della sua pelle bianchissima. Dei suoi occhi neri. Del suo sorriso soave. Sua. Che nemmeno stavolta sarebbe stata tua.
E poi è apparsa un’altra ragazza.
Bionda. Appariscente. Occhi verdi, di mare al mattino. Che ti ha chiamato Poseidone. Che ti ha abbracciato. E che ti ha portato con sé. Sotto le onde del mare.
E sotto al mare c’era un Regno. E sotto al mare hai rivisto lei. La Fanciulla. Quella che volevi con tutto te stesso. Quella che mai sarebbe stata tua.
C’è stata una guerra, nel sogno. Una battaglia. Combattuta per lei. Testarda e cocciuta e bellissima. Una battaglia sanguinosa. Perché i paladini della Fanciulla, della bella principessa dagli occhi di stelle, sono venuti a riprendersela. A portartela via. Ad issare la ragazza sulla groppa candida di un cavallo alato.
E quando ti sei svegliato eri da solo, sulla spiaggia, a pochi metri da casa tua.

Ragazzi, che sbronza!, hai pensato, guardandoti intorno e osservando la realtà attorno a te con occhi diversi. Sì, una sbronza. Perché l’ultima cosa che ricordavi era il rifiuto di quella ragazza. Che ti faceva male, lì in mezzo al petto. E ti sei detto che sì, tutta la nebbia che avevi nella mente altro non era che il ricordo di una sbornia. Una di quelle colossali. Quando, alzando lo sguardo al cielo, non sai più se sei tu che guardi la luna, o se è lei che ti osserva, come fossi una formica sotto al microscopio.
E poi hai visto quel pesciolino. Arenato a riva, oltre la linea della marea, le scaglie verde e argento che brillavano iridescenti sotto i raggi del sole del mattino e fra le lacrime che facevano capolino tra le tue ciglia.
Sorrento è apparso allora. Mentre il vento ti accarezzava il viso – per consolarmi, hai pensato – e la salsedine ti si voleva cucire addosso, come fosse il tuo odore, come a volersi incollare alla tua pelle. Per non lasciarti più da solo.

L’automobile sfila veloce lungo la litoranea, mentre il sole è quasi sparito dietro la linea dell’orizzonte. I tuoi occhi sono persi a rincorrere la forma delle nuvole, lì dove il rosso ed il blu si tendono la mano. In segno di pace. Quella che credevi di aver trovato. Quella che la Fanciulla – che si chiama Saori Kido, adesso lo ricordi bene – ha sconquassato con un paio di righe. Scritte di suo pugno. Su un biglietto di pregiata filigrana verde acqua. Il colore del mare al mattino. Che anche qui in Australia è di una sfumatura quasi trasparente quando il giorno si sveglia, piano piano, e la vita ricomincia il suo giro di valzer.
Vuole vederti. Vuole incontrarti. Ti ha lasciato scritto dove e quando, ma non ti ha detto perché.
Ed è stato allora, ed è stato leggendo il suo biglietto – osservando la sua grafia ondulata – che le tue memorie sono tornate a galla. Come i relitti rigettati a riva dalla marea capricciosa. Che è così simile ai gatti, quando giocano con le loro prede. Con la differenza che il gatto si balocca con il topo prima di mangiarlo, l’onda con i relitti dopo averli sbriciolati a più riprese contro gli scogli. Ed aver visto che da quelle schegge di legno non si può cavare altra disperazione. Altro divertimento.


È tutto vero, pensi. Mentre l’automobile a noleggio sfila lungo la costa, sotto un cielo così ampio e smarginato da fare quasi paura. È tutto vero. Ma non lo dici a Sorrento. Seduto accanto a te. Silenzioso. Perché lui lo sa che è tutto vero. Che è sempre stato tutto vero. E vorresti chiedergli perché non te l’ha mai detto. Perché, quando tu gli raccontavi dei tuoi sogni, delle tue visioni di un mondo sotterraneo, lui rispondeva con un sorriso, un motto di spirito, una battuta. Una citazione colta.
«Chissà, magari quella città esiste davvero. E magari quando le stelle saranno propizie, riaffiorerà in superficie…», ti ha detto una sera, osservando distratto la fettina di limone all’interno delle bottiglie che vi aspettavano sul tavolo. Come se in quelle cellette ripiene di succo vi fossero chissà quali sogni, chissà quali altre visioni. Come a chiedere a quello spicchio giallo se fosse il caso di rivelarti un simile segreto.
È tutto vero, pensi. Sono un dio, ti dici. Anzi, no. Ero un dio, sospiri. Con te stesso. Perché Saori – perché Athena – ha lasciato una piccola parte di Poseidone dentro di te. Una piccola scaglia verde argento. Come il luccichio del mare al mattino. Un souvenir. Che ti rammentasse chi sei. Cosa sei stato. E perché sei caduto. Perché lei non voleva spezzare il legame che Julian ha col mare. Perché tu potessi sentire la sua canzone soffiare nella brezza mattutina, sulle ali del Libeccio, assieme ad uno volo basso di gabbiani e al profumo pungente della salsedine.

E ti coglie un senso di vertigine. E rabbia. E vergogna e paura e sconforto e languore, mentre l’auto continua la sua corsa senza meta. Hai ancora troppo vento tra i capelli. E le stelle, sopra la vostra testa, non sono ancora del tutto allineate, pensi. Gettando uno sguardo al cielo. Rammentando quanto fossero belle e lontane le stelle, sotto la volta delle acque. Quanta nostalgia tu provassi –  quanta nostalgia Poseidone provasse – nel cercare in quelle luci lontane lo sguardo splendente della Fanciulla. Che mai avrebbe sacrificato quel bel cavallo bianco dalle ali maestose di cui le avevi raccontato quando il mondo era ancora giovane e lei era appena uscita dalla testa di suo padre. E che tanto le era piaciuto da spingerti – da spingerlo – ad escogitare un sistema per crearlo. E a raccontarlo a lei. Buttandolo nel discorso quasi per caso. Una chiacchiera. Una confidenza. Un «davvero?» di lei a cui lui aveva risposto con un «Perché no?», tra coppe d’ambrosia passate di mano in mano, nel cuore la segreta speranza di uno sguardo diverso, da parte di lei. Un gesto di benevolenza, che ricompensasse l’ardore fedele del mare. Il suo battere e levare. La sua ostinazione. Peccato che anche lei fosse testarda. Forse persino più di lui.

Lascia stare, ragazzo. La Fanciulla sa essere un osso duro.

La voce di Poseidone ti raggiunge come uno schizzo d’acqua oltre lo scoglio che ti bagna l'orlo dei pantaloni. Un discorso tra sodali. Tra compagni di sventura che si raccontano le proprie disavventure passandosi da bere, le gambe a penzolare nel vuoto, sopra l’andare e venire costante del mare. Cercando, tra le parole, l'accesso a quel mondo del possibile. Quello in cui i sogni non si sono spezzati come bottiglie di vetro contro le rocce.
 
Sorrento lo sa. Ed è per questo che continua a guidare. Senza chiedere. Se tu sia stanco. O affamato. O se tu voglia scendere a sgranchirti un po’ le gambe. No, questo non te lo chiederà mai. Potresti scivolare tra i flutti e sparire. Questo, Sorrento lo sa. Mentre il vento di primavera vi gonfia le giacche e sbaraglia il cuore. E gioca coi vostri capelli. Ingarbugliandovi i pensieri ancora di più.
«Cosa dovrei fare?», gli chiedi. Bucando il silenzio ovattato che vi ha protetto sinora. «Tu che faresti al posto mio?»
Sorrento tace. Tace e guarda la strada e scala in terza. «Non lo so», risponde. «Davvero, dico. Dipende.»
«Da cosa?»
«Da quanta curiosità provo.» La spia del carburante lampeggia. «Stiamo per fermarci. Spero di avere una tanica vuota, da qualche parte.»
E l’automobile annaspa. E Sorrento scala le marce. E il motore singhiozza, come qualcuno che sta spuntando acqua di mare fuori dai polmoni, e la vettura sobbalza una, due, tre volte. Fino a quando non si ferma. Lasciandovi sotto la luce delle stelle, nel bel mezzo del nulla.
«E adesso?», chiedi. Sentendoti un perfetto cretino. «Non avevi fatto il pieno?»
«All’inizio della settimana. Oggi siamo a giovedì. E sono due ore che guido.»
Sorrento non si scompone. Apre lo sportello e scende. Cerca qualcosa dietro il suo sedile, rovistando tra alcune cartine abbandonate sul fondo della vettura e tenute insieme con degli elastici.
«Eccola. Sapevo di averla», dice. Estraendo una tanica di plastica opaca.
«E adesso?», ripeti. Come un ambino petulante. Che forse è quello che sei, alla fine. E che forse un giorno di questi Sorrento manderà al diavolo, una volta per tutte. Poseidone o non Poseidone.
«Raggiungiamo la prima stazione di servizio. Ne troveremo una aperta, prima o poi», risponde. Ruotando la manovella che solleva il vetro del proprio finestrino. Chiudendo il tettuccio. Indicandoti di fare lo stesso. Staccando le chiavi e portandosele in tasca. «Così per strada potremo parlare. Sarebbe un peccato restarsene in silenzio sotto un cielo così bello, no?»
E Sorrento fa scattare la chiave nella serratura e si porta il mazzo in tasca, la tanica sottobraccio come fosse un pallone e lui un monello che chiama il compagno per scendere a giocare in cortile.
«Andrà tutto bene, Jude», ti dice. Dandoti del tu. Sorridendoti. E iniziando a camminare, ché la pompa di benzina non arriverà mai a voi con le sue gambe.
E tu ti accodi a lui, nelle orecchie il suono del rassicurante del mare. Che ti chiama. Ti vezzeggia. Ti saluta. Loda il suo Signore. Quella parte di Lui che è rimasta dentro di te. E che sonnecchia, un occhio aperto come i mostri marini, in attesa di vedere se tu riuscirai dove lui ha fallito. Se e quando le stelle saranno propizie.


Note:
Stavolta sono una marea - tanto per restare in tema!
Nel mio headcanon il tempo è un po' più dilatato di quello che ha previsto Kurumada-sensei. Julian vaga con Sorrento da qualche anno, cercando una redenzione inconsapevole, beatamente ignaro di essere stato Poseidone. Fino a quando Saori non gli fa arrivare un bigliettino con una richiesta. Il seguito di questa vicenda è un racconto che si intitola Tra le fronde dei limoni e lo potete trovare qui, qualora vi andasse di leggerlo. Senza impegno.

Glyphada è un quartiere sciccosissimo che si trova a sud di Atene. La Beverly Hills greca, in pratica. La villa dei Solo non poteva che trovarsi qui e non a Capo Sounion. Fattene una ragione, Kurumà.

Mi rendo conto che lo strumento di Sorrento è il flauto e non il violino, ma mi sono concessa una libertà. Mi serviva il pizzicato, così simile all'arpeggio, e voi capite che col flauto... sì... insomma! Spero Sorrento non se la prenda.

Per il resto, qui dentro c'è un po' di tutto. Never Let Me Down Again dei Depeche Mode. Hey Jude dei Beatles. Guido Piano di Concato e pure parte di Sexy Tango e tutto l'amore che questo cantautore milanese prova per il mare. E Banana Yoshimoto col suo Sonno profondo. E, in ultimo, quel Call of Cthulhu che fa capo a H.P. Lovecraft. Hai visto mai che Atlantide e R'lyeh fossero la stessa cosa?

In ultimo, forse avrei fatto meglio a tenere questa storia indipendente e a darle maggiore fiducia, permettendole di camminare sulle proprie gambe. Forse. Chissà... Ai lettori, l'ardua sentenza.

 

   
 
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