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Autore: Dust Fingers    24/01/2015    0 recensioni
Trascorse ancora del tempo, era sempre chiuso nella gabbia e ancora non era stato fatto uscire nemmeno una volta, non si sentiva più le gambe, gli dolevano troppo tutte le ossa.
Genere: Dark, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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015. Explosion
 
  Jeff si trovava su quella nave ormai da un mese e non era successo ancora mezza volta che lo liberassero dalla gabbia in cui l’avevano rinchiuso. Dal giorno in cui si erano imbattuti, lui ed Imeughe, non si erano più rivisti, l’aveva vista precipitare tra le nuvole nere di pioggia lanciando stridii di dolore verso di lui che invece era stato preso dai pirati e trascinato via fino alla loro nave dove poi l’avevano rinchiuso in quella gabbia che gli impediva anche solo di stendere appena le gambe. Le ginocchia non le sentiva più e scricchiolavano ad ogni minimo movimento: sospettava che se si fosse riuscito ad alzare una volta uscito sarebbe rimasto piegato in due dal dolore e che le gambe gli si sarebbero staccate.
  Un uomo fece il suo ingresso nell’ampia stiva della nave volante avvicinandosi a grandi passi alla gabbia.
  «La cena, tesoro» disse con un lascivo ghigno. Jeff aveva capito fin da quando quello gli aveva messo le mani addosso per legarlo, toccandolo un po’ troppo per i suoi gusti, che se mai fosse finito di nuovo alla sua mercé non ne sarebbe uscito bene. Lo scrutava con uno sguardo troppo lascivo perché fosse davvero interessato solo al suo sangue.
Jeff gli lanciò un’occhiataccia, ma prese comunque la scodella che gli aveva sbattuto davanti alle sbarre. Attese che se ne fosse andato per cercare di ingoiare quella brodaglia informe e dal sapore sgradevole; l’ultima volta che aveva osato mangiare in presenza di quel pirata lo aveva visto fissarlo in maniera ossessiva se nonché quando gli aveva ripreso la ciotola gli aveva preso un braccio attraverso le sbarre e lo aveva morso a sangue leccandosi poi avidamente il sangue dalle labbra. Ricordava i conati di vomito che gli erano saliti e di aver rivisto il pasto completo sul pavimento e, per quello, che non era riuscito a tamponarsi la ferita alla vista del sangue.
Si strinse le ginocchia al petto. Temeva che cosa avrebbero potuto fargli o cosa avrebbe potuto succedergli una volta attraccati in qualche città, avrebbero potuto venderlo a qualche schiavista e a quel punto scappare e ritornare sa Imeughe e Dron sarebbe stato un grosso problema.
 
  Trascorse ancora del tempo, era sempre chiuso nella gabbia e ancora non era stato fatto uscire nemmeno una volta, non si sentiva più le gambe, gli dolevano troppo tutte le ossa. A questo punto non riuscirò nemmeno più a cambiare posizione una volta uscito di qui, pensò.
 
  Finalmente, qualche giorno dopo attraccarono al porto di una grande città. Si trovava ai confini nord del regno, Jeff lo capì dall’improvviso cambio di temperatura che percepì in quei giorni.
Quando lo tirarono fuori dal buio della stiva, legandogli polsi e caviglia con spessi catenacci, la forte luce lo lo ferì terribilmente agli occhi costringendolo a tenerli chiusi e farsi trascinare di peso per le banchine. Sotto le piante dei piedi sentiva un fastidioso strado si granellini di sabbia.
  È proprio vero, sono finito al nord, e sto per essere venduto a qualche mercante di schiavi, realizzò Jeff, terrorizzato all’idea di finire ancor peggio di com’era stato fino a quel momento.
  «Avanti feccia, portatelo da Shaaken, lo sta aspettando» disse uno dei pirati, aveva ancora gli occhi chiusi e non poté dire chi stesse parlando ma si disse che doveva aprirli se voleva vedere il luogo e cogliere l’occasione per fuggire appena gli si fosse parata davanti, e non poteva farlo da ceco.
Raggiunsero una tenda più grossa della altre che ingombravano il porto, appostata come un predatore di un acceso blu.
  «Shaaken, abbiamo la tua merce» urlò uno dei due pirati che lo aveva trascinato fin lì, sorreggendolo a causa della debolezza delle sue ginocchia, provate dalla lunga permanenza in gabbia. Un uomo, alto e robusto dalla pelle color bronzo solcata da tatuaggi della sua tribù d’origine e capelli neri e crespi, divisi in spesse ciocche, si voltò dal fondo della tenda con un largo sorriso verso i due pirati. «Amici, finalmente!» esclamò allegro. Il suo accento era molto diverso da quello del centro della regione, fatto di suoni stretti e gutturali, risuonava più secco e con suoni chiari e larghi. Shaaken si avvicinò a Jeff, squadrandolo da quasi quattro spanne più in alto di lui; gli prese il mento girandogli il capo a destra e a sinistra, poi gli esaminò i denti, gli tastò i muscoli delle spalle, della schiena e delle gambe per capire se fosse giovane quanto appariva, ma quando gli toccò le ginocchia Jeff non riuscì a trattenere un gemito di dolore tra i denti. Shaaken si allarmò e fissò serio i due pirati. «Non compro se è rovinato» disse, alterato.
  «È solo un po’ indolenzito dal viaggio, tutto qua» protestò l’altro pirata. Lo sguardo del mercante cadde poi invece sul morso che spiccava ancora violaceo sul braccio di Jeff e indicandolo aggiunse, perentorio, «non compro se è rovinato» ripeté.
  «Questo ragazzo è rovinato, la ferita reso lui debole. Guarda!» protestò ancora scuotendolo per il braccio. Jeff si sentiva troppo debole per divincolarsi o ribellarsi. All’inizio della trattativa aveva sperato di riuscire a salvarsi cadendo nelle mani di quel robusto mercante, ma evidentemente stava per tornare nella stiva della nave.
Si ritrovò a pensare che, se fosse diventato un pirata avrebbe anche lui potuto vendere qualche schiavo a questo Shaaken, e magari vedendoselo arrivare davanti si sarebbe pentito di non averlo comprato.
  «Tu lo hai rovinato come tutti gli altri?» chiese ancora, rivolto al pirata che lo aveva morso e toccato Jeff per tutta la strada, ma questi scosse la testa, divertito. Shaaken rivolse nuovamente la sua attenzione al ragazzo dall’aria stanca e provata.
  «Qual è il tuo nome?» gli chiese Shaaken, ma Jeff quasi gli svenne tra le braccia mentre gli esaminava gli occhi gonfi e spenti: lo sbalzo termico lo aveva risucchiato le poche energie che le zuppe dei pirati gli davano. Il mercante lo raccolse come un sacco di patate e lo mollò su una delle brande della sua tenda, vicino ad altri schiavi che avevano assistito silenti all’intera scena, in un angolo.
Poi tornò dai due pirati, che guardavano con un misto di odio e stupore la cura con cui il mercante trattava quel ragazzetto pelle e ossa, e diede loro un misero sacchetto di monete.«Dov’è il resto?» protestarono, ma Shaaken li fulminò, orripilato dalla loro vista.
 «Prezzo pieno per schiavi sani. Lui non sta bene» disse e con quella frase si voltò: la discussione era terminata.
 
  Jeff trascorse una decamana a rimettersi in forze, le sue membra ancora protestavano all’attività fisica che Shaaken gli imponeva di fare, ma alle cure del mercante lui decise di sottoporsi nonostante il timore che quell’uomo imponente gli incuteva.
  Tempo dopo, Jeff si era completamente ripreso e si era abituato al caldo, Shaaken gli aveva dato degli abiti adatti alla temperatura del nord perché non apparisse malconcio come quando era arrivato, con sua vecchia camicia logora, sporca e strappata. E aveva anche scoperto di aver acquistato per un prezzo stracciato uno schiavo istruito che sapeva leggere e scrivere e far di conto per cui gli affidò la contabilità del suo lavoro di mercante di schiavi.
  Un pomeriggio particolarmente afoso, un mese dopo essere arrivato lì, Jeff si stava riprendendo da un calcolo particolarmente impegnativo, aveva armeggiato con pile di monete e numeri da far girare la testa dovendo anche rifare spesso tutti i calcoli da capo. Si deterse il sudore dalla fronte e ripensò ad Imeughe: aveva pensato spesso di fuggire e andarsene per tornare a casa, nascosto nel carico di qualche nave, ma le catene alle caviglie le aveva sempre e Shaaken, per quanto si fidasse di lui, lo aveva lo stesso marchiato a fuoco con il suo simbolo di proprietà imponendovi sopra un vincolo per il quale Jeff non poteva allontanarsi dal suo padrone per più di una certa distanza. Shaaken gli aveva anche imposto altre regole da rispettare, tra cui il farsi fare presto un tatuaggio, come tutti i suoi schiavi – era una sorta di libertà che dava loro poiché i tatuaggi erano simbolo di una certa indipendenza dell’individuo – di lasciarsi crescere i capelli, come tradizione nordica, tutti gli schiavi doveva avere i capelli lunghi, pronti ad essere tagliati quando avessero cambiato padrone che glieli avrebbe lasciati ricrescere di nuovo; ed infine gli aveva fatto un dono: un bracciale, per coprire la cicatrice del morso del pirata, in elthaan, un metallo molto resistente utilizzato prevalentemente per fabbricare armi, lo stesso delle sciabole che portava Shaaken ai fianchi.
La sua mente, però, nonostante le comodità inaspettate che aveva trovato presso quel mercante, non poteva far altro che correre ad Imeughe ogni momento libero della sua giornata.
 
  Accadde tre mesi dopo. Si trovava nel laboratorio di Shaaken e stava riordinando i documenti di acquisto e la cassa. Nel laboratorio regnava un gran disordine di libri e pergamene sparse ovunque e tra queste numerose boccette, fiale e ampolle in cristallo di pietra contenenti una vasta quantità di liquidi di diversa densità e polveri. Si chiese cosa combinasse lì dentro un mercante di schiavi e mentre si poneva quell’interrogativo l’uomo gli arrivò alle spalle, prendendolo di soprassalto.
  «Padrone» esordì Jeff, come aveva imparato a fare, a costo di qualche frustata che ancora gli segnavano la schiena perché restio all’obbedienza. «Siete un mago?».
Shaaken gli concesse un lieve sorriso che gli inclinò gli angoli della bocca. «Vuoi imparare?» gli chiese, poggiandogli una mano enorme sulla spalla ora non più troppo esile come quando lo aveva comprato dai pirati.
  Trascorsero le decamane seguenti tra esperimenti ed annotazioni, e fiale che esplodevano loro in faccia.
  Una notte, in quella tenda, accadde purtroppo l’irreparabile: degli uomini vi s’intrufolarono, alla ricerca di un preciso bersaglio, coltelli alla mano. Ed eccolo lì, era profondamente addormentato nella sua piccola branda, ammucchiato insieme ad altri sei schiavi, di cui due donne. Appariva molto più in forze di quando lo avevano catturato ed in salute, sulla spalla spiccava il marchio di Shaaken.
Quegli uomini sapevano del vincolo che l’uomo poneva sui suoi schiavi, perché non scappassero, per cui erano preparati e sparsero così una polvere sul marchio che emise una debole luce verdastra e poi si spense.
 
  Jeff si risvegliò legato in una gabbia che aveva sognato numerose volte da quando ne era uscito, ma non immaginava che ci sarebbe tornato prima o poi. Cercò di mettersi a sedere ma non ci riuscì, rimanendo così con la faccia schiacciata contro le sbarre.
Più tardi il capo dei pirati, accompagnato da quello che lo aveva guardato sempre con occhietti porcini e che di nuovo ricominciava a farlo, fece il suo ingresso nell’ampia stiva, completamente vuota, forse presto avrebbero attraccato a qualche porto per fare rifornimento di viveri e lui sarebbe riuscito a scappare. Probabilmente volevano rivenderlo, adesso che era più in forze.
  «Sei più prezioso di quel che pensassi» aveva esordito il capitano, un attimo prima che la nave venisse completamente ribaltata da un violento urto: un altro vascello pirata li aveva speronati.
  Un arrembaggio, pensò Jeff, ora terrorizzato all’idea di finire in mani ancora peggiori di quelle in cui era ricaduto. Poi iniziarono i cannoneggiamenti, erano un’invenzione di pirati del cielo dell’Oltre nord: usavano una sorta di polvere che reagiva col fuoco ed esplodeva. Sul ponte della nave cominciò a diffondersi un gran fracasso e cozzare di spade e urla concitate tra i ruggiti dei cannoni nemici.
Forti colpi presero a scuotere senza tregua la nave e la gabbia in cui Jeff si trovava, piegato su se stesso, si ribaltò più volte facendogli perdere infine i sensi.
 
  Si risvegliò più tardi, si sentiva indolenzito e tremante, nonché esausto. Non ricordava come fosse finito, ora, in quel letto e in quella stanza, ma non riuscì a sforzarsi di ricordare, sentiva il cranio perforato come da un buco in cui poteva passare un braccio e non riusciva a sentirsi una gamba.
  «Si è svegliato» disse una voce femminile alla sua destra, ma non riuscì a scorgerla, la benda che gli fasciava il capo gli creava un enorme angolo buio su tutto quel lato.
  «Quanto ho dormito?» chiese, cercando di alzarsi.
  «No fermo, le ferite erano molto gravi!» lo fermò la ragazza, entrando nel suo campo visivo. «Più tardi ti porterò qualcosa da mangiare, adesso riposati» aggiunse spingendolo delicatamente a sdraiarsi di nuovo sul letto.
  Quando fu lasciato solo cercò ancora di capire cosa gli fosse successo, ma quando si alzò a sedere sentì immediatamente qualcosa di strano per cui tirò via le lenzuola e si bloccò: un misero moncherino gli era rimasto al posto della gamba destra; un timore profondo e terribile lo fulminò in quell’istante. Si portò una mano alla benda e delicatamente tastò alla ricerca di qualcosa al di sotto dello strato di lino: non trovò il suo occhi destro, sotto le dita sentì solamente un’orbita vuota.
  
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