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Autore: Alina Alboran    24/01/2015    1 recensioni
«Promettimi che tornerai da me, soldato».
I bambini giocano alla guerra.
È raro che giochino alla pace
perché gli adulti
da sempre fanno la guerra,
tu fai “pum” e ridi;
il soldato spara
e un altro uomo
non ride più.
da “I bambini giocano” B. Brecht
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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If we don’t end war
war will end us


Una madre sta piangendo sulla tomba del figlio, abbracciando la fredda lapide di marmo bianco: la prova tangibile di come la vita sia effimera e il destino crudele.          
Poco lontano –non le separano nemmeno cinquanta passi– una ragazza di circa vent’anni lievemente e delicatamente sfiora le lettere incise su una lastra identica alla prima: due storie diverse, un’unica fine. 
Quando il peso del dolore la stravolge si abbandona ad esso e, inginocchiata sull’erba, si tocca il ventre gonfio e sorride tra le lacrime quando un calcio, dall’interno, le toglie il fiato.        


Un momento. 
Un grido.       
L’esitazione.
Avevo avuto paura e le mie mani –vigliacche– non avevano avuto il coraggio di fare ciò per cui erano state addestrate.                 
Sleale.
Avevo giurato che avrei combattuto per la mia patria.        
Silenzio
Non avevo sentito le urla dei miei compagni che mi intimavano con veemenza di mettermi al sicuro.
Buio.
Non avevo visto la prima pallottola che mi aveva colpito ad una spalla.    
Paura.
La seconda mi colpì allo stomaco e caddi a terra, stremato.
Codardo.
Volevo morire…       
E sarei morto senza neppure sapere che sarei diventato padre.


Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità

da “Fratelli”, G.Ungaretti

 


Sentii i lamenti di mia madre, il tocco della sua mano che mi accarezzava la fronte, e le lacrime che cadevano sul mio corpo immobile, senza vita.              
Accanto alla porta, in silenzio e con gli occhi lucidi e rossi, Sarah si accarezzava il ventre con una mano e guardava, sperduta, i numeri sul monitor alla mia destra che si abbassavano sempre di più.
I capelli neri erano raccolti distrattamente in una coda alta, lasciando il collo scoperto e rendendo visibile la lunga catenina che aveva come unico ciondolo un anello. 
«Promettimi che tornerai da me, soldato».  
Con quelle parole nella mente e nel cuore, partii pronto a servire il mio paese per poi ritornare e sposare la donna che amavo.                                   
Ben presto un rumore assordante prese il posto del fastidioso “tic” che segnava i miei battiti cardiaci, e la stanza si riempì di persone.      
Medici e infermiere circondavano il mio letto nel tentativo di rianimarmi, ma dopo una lunga serie di compressioni cardiache non rimase loro altra scelta che dichiarare la mia morte. 
Un urlo disumano riempì la stanza e mia madre si buttò sopra il mio corpo, mi prese la testa tra le mani e cominciò a baciare quella pelle che diventava ogni minuto più fredda.            
«No…», disperata si mise le mani nei capelli e, con i gomiti poggianti sulle ginocchia, si abbandonò al suo dolore.           
«Bambino mio, svegliati», mi sussurrò dopo qualche minuto.        
La voce con cui lo disse era così vuota e priva di sentimento che non la riconobbi come sua.
Dov’era quella donna forte ed intraprendente che, dopo anni di sofferenza accanto a un uomo che non la meritava, aveva avuto il coraggio di rifarsi una nuova vita anche quando nessuno credeva in lei, quando le dicevano che avrebbe fatto meglio a rimanere dove stava?           
Dov’era quella donna che mi aveva insegnato a non arrendermi, ad andare avanti sempre e comunque?
Quando la vista di mia madre divenne insopportabile, posai gli occhi su Sarah che, ancora nella stessa posizione di prima, continuava ad osservare il vuoto.                  
Non piangeva, gli occhi erano asciutti e le spalle non compivano più il naturale e impercettibile movimento: aveva smesso di respirare.   
“Sarah! Amore mio!”, urlai ma non mi sentì.           
Finalmente un’infermiera sembrò accorgersi del suo stato e le chiese se stesse bene.        
«Che ne dici se andiamo fuori? Magari riuscirai a calmarti».          
Sarah non rispose ma si lasciò trascinare fuori dalla stanza come se fosse un automa, incapace di fare altro se non assecondare la donna.           
La fece sedere, sciolse un calmante in un bicchiere d’acqua ma Sarah si rifiutò di prenderlo.
«Sono incinta».                     
Felicità.
Saremo diventati genitori.     
Rimorso.
Se solo non avessi deciso di partire. 
Rabbia.
Mio figlio non avrebbe avuto un padre.       
Paura.
Come farà a prendersi cura di entrambi?

«Congratulazioni», asserì guardando con tenerezza il lieve gonfiore del ventre di Sarah.
«L’hai detto al padre?», chiese inconsapevole della sofferenza che le sue parole causavano alla sventurata madre.           
«No», sussurrò con la voce rotta e il cuore sempre più macerato dalle insistenti domande dell’infermiera.
«Non avere paura a dirglielo».          
Assistevo a quella straziante scena incapace di farmi sentire e affievolire il dolore della mia Sarah.
«Lui come si chiama?», continuò.    
“Zitta! Non torturarla più in questa maniera”.         
Ma ancora una volta venni ignorato.
«Pablo».
«Ah».
Ah… Cosa rispondere a chi ti dice che il padre di suo figlio ancora non nato è morto? Come consolare una ragazza che ha perso il marito ancora prima di sposarsi?

 

Non passava giorno senza che mia madre non piangesse.   
Non passava notte senza che Sarah, accarezzandosi la pancia, non pronunciasse il mio nome.
Non passava ora senza che io maledicessi me stesso per quel momento di esitazione che mi aveva costato tanto.           
Ero morto da eroe?    
La mia patria dice di sì.         
Avevo agito da soldato?       
Per niente.      
Avrei agito diversamente?    
Non lo so.      
Sarei stato capace di uccidere un uomo?                 

Ero un soldato, addestrato per oltre un anno per combattere, sparare, sopravvivere…     
Sono stato debole, nel momento meno opportuno i sensi di colpa si erano insediati nel mio cervello, impedendomi di pensare lucidamente. 

I bambini giocano alla guerra.
È raro che giochino alla pace
perché gli adulti
da sempre fanno la guerra,
tu fai “pum” e ridi;
il soldato spara
e un altro uomo
non ride più.

da “I bambini giocano” B. Brecht


Avevo voluto giocare a fare la guerra, senza pensare che –se avessi perduto –non sarebbe bastato premere replay per ricominciare.  
Un solo secondo aveva avuto il potere di cambiare il destino non solo mio ma anche di mia madre che si sarebbe svegliata ogni mattina con la consapevolezza di essere sola al mondo, di Sarah che avrebbe dovuto crescere un figlio senza di me, e di Jacob che avrebbe dovuto convivere con lo straziante ricordo di quelle buie ore che non avrebbe mai dimenticato.        
In guerra non c’è spazio per il dolore, le lacrime o il lutto.  
Mi abbandonai alla morte ignorato dai più ma pianto da Jacob, l’unico che potessi definire amico in quel campo di distruzione.    
I ricordi non sono chiari, annebbiati dal mio cervello che –per puro istinto di sopravvivenza –li stava dissolvendo pian piano, deciso a farli svanire del tutto.   
Nonostante tutti gli sforzi, però, un’immagine è ancora impressa a fuoco nella mia memoria; un’immagine che mi ha sconvolto; un’immagine che è sopravvissuta alla morte: Jacob, spinto alla follia dai miei continui lamenti, ha il fucile puntato contro di me, proprio all’altezza del cuore.
“Uccidimi”, gli chiesi implorante.     
Il tempo sembrò fermarsi.     
Vidi una lacrima solitaria solcare il volto del soldato e l’indice che sfiorava il grilletto; sarebbe bastata una leggera pressione e finalmente la mia agonia avrebbe trovato la pace.


Un attimo.     
Il ripensamento.         
La decisione. 
Chiusi gli occhi. Ero pronto a morire. Volevo morire.         
Un rumore sordo spaccò la quiete di quella fredda notte di novembre, attutito dal fango che aveva arrestato la traiettoria del proiettile.        
“Smettila!”, urlò Jacob lasciando cadere l’arma a terra.      
Fu in quel momento che la sua mente cominciò a crollare.  
Si conficcò le unghie nel braccio destro, lacerando la pelle fino a quando i polsi non gli si           sporcarono di sangue.           
Il colore rosso del sangue mi provocò un conato di vomito, causandomi un dolore ancora maggiore.
In un momento di follia si abbassò velocemente alla mia altezza, riprendendo il fucile e puntandolo questa volta verso se stesso.          
“No”, mormorai con le ultime forze che mi rimanevano.     

Un'intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel silenzio
ho scritto
lettere piene d'amore

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita

Veglia, G. Ungaretti

 

Pensai che non sarei più ritornato in quell’ospedale che mi aveva visto morire, ma quando per Sarah arrivò il momento di dare alla luce, quella volta non tentennai: nessuna paura mi avrebbe impedito di assistere alla nascita di mia figlia.

Mia madre, invece, ancora profondamente scossa e addolorata, era rimasta per ore in un parcheggio poco lontano, incapace di avvicinarsi all’edificio da lei tanto odiato.        
In questi mesi non avevo mai capito a fondo il suo dolore, e solo quando sentii per la prima volta il pianto di mia figlia –mia figlia –mi resi conto che al mondo non c’è amore più forte.     
Sarah pianse di felicità quando le diedero la bambina tra le braccia e, una volta portata in un salone e rimasta sola con la neonata, disse:       
«Guarda, Pablo, questa è tua figlia».
“È bellissima”.           
Per un momento pensai che mi avesse visto.
Sperai che fino ad ora avessi vissuto in un brutto incubo e che questo fosse il mio dolce risveglio.
Desiderai tornare indietro nel tempo per non partire più.    
«Avevi promesso di ritornare, soldato. Perché non l’hai fatto?».   
“Sono qui. Sono sempre stato qui”.  
«Ti amo. E non smetterò mai». La voce le si incrinò sul finale e, messa Sophia profondamente    addormentata nella culla, Sarah cominciò a piangere disperatamente.    
Non aveva mai versato una lacrima da quando ero morto.  
Il giorno del mio funerale era rimasta in disparte con suo fratello, e solo quando tutti se ne andarono si avvicinò alla tomba in cui il mio corpo era appena stata sepolto e, dopo aver letto a voce alta la mia data di nascita e di morte, mi disse che avremo avuto una figlia.    
«Ti odio», disse tra le lacrime, inconsapevole che io la sentissi, ma speranzosa che potessi farlo.

 

I mesi passavano veloci e la mia piccola Sophia aveva già cominciato a gattonare e ad articolare qualche suono.           


A quattordici mesi disse la sua prima parola; a diciotto aveva già fatto il suo primo passo.
A tre anni andò al nido; a quattro anni chiamò papà il compagno si Sarah.           
A sette anni fu damigella al matrimonio della madre.         

Ancora seduta sull’erba osserva la foto, incisa sulla lapide e consumata dagli anni trascorsi, di cui conosce ogni più piccolo particolare; e con le dite grassocce sfiora l’immagine di quel ragazzo sorridente che la guarda con amore.           
«Quanto vorrei che tu fossi qui», comincia in un sussurro, «quanto vorrei che tu lo conoscessi».
«Sono innamorata. E sono anche incinta», continua.          
Un soffio di vento caldo, improvviso e piacevole, le asciuga le lacrime che le bagnano il volto pallido, illuminato dai deboli raggi del sole di quel pomeriggio di metà novembre.           
Una goccia di pioggia, poi una seconda e una terza, cade sul grembo della ragazza ma lei non se ne accorge nemmeno, troppo concentrata a fissare l’immagine del ragazzo che, con un’uniforme da soldato e un sorriso amorevole, la saluta in lontananza.   
Si alza non senza poche difficoltà, essendo appena entrata nell’ottavo mese di gravidanza, e corre verso quella figura che diventa poco a poco sempre meno chiara.         
Tende una mano verso quella del giovane che, allungandola a sua volta, tenta in un disperato gesto di afferrare quella di lei.  
Si toccano per un secondo, si guardano intensamente in quegli occhi tanto simili –quasi identici –e poi lui svanisce per sempre.    
Un urlo squarcia il silenzio mentre la pioggia diventa sempre più fitta, ma ora, finalmente, entrambi hanno trovato quella pace a cui tanto anelavano.    
Due mani forti –da dietro –le si poggiano sulla pancia proprio nel punto in cui la pelle si modella prendendo la forma di un piccolo piedino.
«Sophia, amore mio, andiamo a casa».         
Incurante della pioggia, la ragazza si ferma ancora davanti alla lapide, lo saluta per un’ultima volta e poi, mano nella mano con suo marito, si incammina verso l’uscita del cimitero.
«Ti amo, papà»

 

If we don’t end war
war will end us.
H.G. Wells

   
 
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