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Autore: _asja    26/01/2015    1 recensioni
Zayn era l’amore in cui Agatha non credeva più.
Zayn era quel tweet mandato alle tre di notte con Cime Tempestose lasciato aperto sul comodino e il trucco colato e quel pigiama di flanella e coi capelli che stavano stingendo dalla tinta verde.
@zaynmalik mi sa che mi sto innamorando di te.
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3190 parole.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Zayn Malik
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bad habit.
 



Agatha ha sempre avuto talmente tante di quelle brutte abitudini da poterci riempire tranquillamente un libro di proporzioni epiche. Lei e le brutte abitudini sembravano andare a braccetto come sorelle nate da madri diverse ma nate cresciute e morte insieme, come fiori nati dallo stesso albero ma su due rami diversi e troppo lontani per essersi mai visti davvero.
Agatha beveva caffè, il caffè più forte e amaro e bollente che riuscisse a trovare. Senza zucchero, senza latte, solo polvere di caffè e acqua fumante, bevuto tanto di corsa da scottarsi puntualmente le labbra e la lingua e prendere ad imprecare anche in lingue che probabilmente nemmeno esistevano. Senza zucchero e senza latte perché in caso contrario non si sarebbe svegliata, non si sarebbe scottata e non avrebbe imprecato come uno scaricatore di porto, cosa che ormai era parte delle sue cattive abitudini, o forse lo era sempre stata.
Odiava il tè, sia l’odore che il sapore. Odiava il fatto che la maggior parte degli inglesi andasse avanti a tè, o forse lei si ostinava a prendere il caffè bollente proprio per essere diversa, per non fare – e non bere – quello che faceva praticamente tutto il resto della popolazione. Odiava il cappuccino, e odiava la cioccolata – a meno che non fosse ustionante, ma solo senza zucchero e solo nelle sere d’inverno nelle quali nemmeno quattro coperte e tre maglioni di lana riuscivano a scaldarla.
E il caffè la rendeva intrattabile e iperattiva, ma era proprio quella la cattiva abitudine.
Agatha fumava le sigarette più forti che ci fossero in commercio. Chiedeva le più forti, se ne fregava delle diverse marche. E le fumava di fretta, come a risucchiare dentro di sé più nicotina possibile, come volesse respirare veleno, tenerlo dentro per un po’ – abbastanza da sentirlo bruciare i polmoni – e lasciarlo andare, soddisfatta dal dolore ma mai abbastanza. Fumava apposta per stare male, in effetti, mai per il piacere e la calma che le avrebbe dato una sigaretta se fumata nel modo “giusto”.
Fumava solo sigarette, quelle nei pacchetti da venti, confezionate e già pronte per essere portate alle labbra ed essere accese anche con le dita che tremavano per il nervosismo dato dal non aver fumato per un certo periodo di tempo e per tutta un’altra lunghissima serie di motivi che potevano includere qualsiasi altro inutile aspetto della sua vita.
Aveva provato uno spinello, una volta, ma non ci aveva trovato nulla di eccezionale da farla diventare una tossico dipendente. Più che altro si era ritrovata a ridere come una stupida a battute squallide alle quali in genere non avrebbe riso nemmeno sotto tortura, e aveva rischiato di finire nel letto di uno sconosciuto che la mattina successiva non avrebbe ricordato il suo nome nemmeno se l’avesse avuto tatuato in fronte.
Agatha aveva la cattiva abitudine di svegliarsi sempre troppo tardi dopo aver dormito troppo poco per aver letto chissà quale romanzo scritto troppi secoli fa da qualche autore decisamente troppo morto. Aveva la pessima abitudine di stropicciarsi gli occhi ancora truccati pur di non addormentarsi leggendo e quella di non struccarsi prima di addormentarsi, per il semplicemente fatto che la maggior parte delle volte finiva per farlo nella più scomoda delle posizioni, col libro lasciato aperto sullo stomaco i cui angoli delle pagine finivano per arricciarsi e piegarsi mentre dormiva – quel poco che riusciva a dormire.
Agatha faceva sempre tutto di fretta, una volta sveglia. E non era esattamente una cattiva abitudine, ma una necessità; non fosse per il fatto che praticamente ogni mattina, vestendosi, finiva per strappare irrimediabilmente un paio di collant. Che li smagliasse, li bucasse o le si impigliassero nella ringhiera delle scale del vecchio palazzo in cui abitava, non faceva differenza.
La brutta abitudine di non cambiarle le rimaneva. La pessima abitudine di non buttare le calze rotte poi… capitava che - un po’ per la fretta e un po’ perché le calze smagliate in fondo la facevano irrimediabilmente sexy - recuperasse lo stesso paio di collant che si era ripromessa di buttare, gettate apparentemente a caso nel cassetto della biancheria intima, col solito vistoso buco in genere sulla coscia destra e la smagliatura evidente sul retro della sinistra, sotto la natica.
Eppure le metteva. Si ostinava a metterle sotto le gonne o sotto i pantaloncini di jeans. Anche in inverno con parecchi gradi sotto lo zero, sembrava che nonostante i buchi e i fili di nylon tirati il freddo non lo sentisse, forse troppo occupata con un’altra delle abitudini della lista, quella di ascoltare qualche brano rock della propria playlist ad un volume improponibile per il normale orecchio umano.
Agatha aveva sempre le cuffie addosso. Sempre, tranne che per dormire. Le infilava prima di uscire di casa, tenendo la musica spenta apposta per poter sentire tutto ma facendo credere a tutti che non stesse ascoltando nulla di quel che la circondava. Faceva partire la riproduzione casuale una volta nella metropolitana, col volume al massimo e qualche riff di chitarra elettrica che rischiava di rovinarle l’udito e con tutta probabilità renderla sorda; passava alle canzoni più tranquille per le ore di lezione in università, ma sempre con le cuffie addosso e sempre con la musica accesa; poi ripartiva col rock nudo e crudo per il pomeriggio nel vecchio bar fatiscente nel quale lavorava come cameriera, lasciando le stesse canzoni per la metro del ritorno e rispegnendo tutto nel percorso sul lungofiume dalla stazione all’appartamento.
Una specie di routine musicale, interrotta dalla sua voce.
Dall’immagine delle sue labbra che si muovevano.
Dalla visione solo nella sua mente delle sue iridi cioccolato che la scrutavano.
Una brutta abitudine interrotta dall’abitudine più brutta di tutte, lui. Ma la lista non è ancora finita, c’è ancora tempo, ancora bruttissime abitudini prima di arrivare a lui, alla causa di tutto, alla conseguenza di ogni cosa, alla ragione di un sorriso, di un paio di occhi lucidi e della mancanza di sonno.
Agatha è solita scappare dalle persone che in qualche modo le hanno fatto male. Scappa dagli ex ragazzi, dalle amiche che le parlano alle spalle. Scappa dalla musica che le fa male riascoltare dopo tanto tempo e al lavoro scappa evitando di servire certi tavoli. Scappa dalle lezioni quando è troppo nervosa per poter ascoltare e corre a fumarsi una delle sue sigarette aspirate di fretta. Scappa dalle persone, evita di guardarle negli occhi. Scappa dalle mani di chi la toccava, le ha fatto male e vorrebbe toccarla ancora e ancora. Scappa da tutto, Agatha, come un cerbiatto indifeso scappa dal cacciatore.
Si nasconde dietro i propri capelli colorati, al piercing alla lingua e alle calze smagliate e scappa. Poi però qualcuno la raggiunge e la ferma per un polso. E Agatha forse ha qualcosa che non va, o forse è solo l’ennesima cattiva abitudine, fatto sta che finisce per fidarsi. Si fida di chiunque le faccia un sorriso e passi oltre la sua facciata da cattiva ragazza – messa in piedi proprio per difendersi e smettere di fidarsi, magari. È più forte di lei.
Agatha scappa. Poi si fida. Poi si fa male. E ricomincia a scappare.
Agatha si mangia le unghie quando è nervosa, e lei è sempre nervosa. La si può vedere aspettare il treno con una mano a giocherellare coi capelli – sempre tinti dei colori più impensabili – attorcigliandone una ciocca sulle dita per poi lasciarla andare e ricominciare da capo, mentre l’altra mano viene portata alle labbra, per pizzicare la punta di un’unghia coi denti, finendo per torturarla a tal punto da romperla, da farsi male, da sanguinare. Si mangia le unghie pensando a lui, Agatha; se le mangia pensando di essere costantemente in ritardo, dopo aver finito una sigaretta o parlando col ragazzo che le piace (ma che purtroppo non è lui).
Forse mangia le unghie per noia, ma lo fa anche quando si incanta a guardare le nuvole bianche che le scorrono sopra la testa, o quando vede i bambini giocare nel prato e vorrebbe solo avere un briciolo di coraggio in più e ridere con loro. Ma Agatha non ride spesso, e quando le viene da ridere finisce per mangiarsi le unghie, o per giocare coi capelli, o per mordersi il labbro inferiore a sangue o per giocare con la pallina di metallo del piercing che porta incastonato sulla lingua.
Fa di tutto pur di non farsi beccare a ridere, Agatha.
Parla a vanvera pur di non scoppiare a ridere.
E viene da ridere al vederla, perché magari ha i capelli blu e solo l’unghia del mignolo della mano destra ancora smaltata di rosso, e gesticola trattenendo a stento un sorriso imbarazzato, perché in realtà non sa che dire o non ha niente da dire, ma continua a parlare come se ciò che sta dicendo avesse davvero importanza. Gesticola come per darsi un senso, muove le mani per far capire che lei crede davvero a tutto quello che dice, anche se finisce sempre col balbettare e coll’arrossire o coi discorsi lasciati a metà per mancanza di parole che non siano sempre le stesse.
E si passa freneticamente la lingua sul labbro inferiore, quando non è impegnata a morderlo o a giocare col piercing. In quelle rare occasioni ha le labbra tinte di rosso sempre umide e lucide, screpolate ma che brillano di saliva, perché quella brutta abitudine di sfiorarsi le labbra con la lingua quando parla ce l’ha da sempre, forse anche prima che nascesse. Inumidisce le labbra come a prendersi un attimo di pausa per trovare un senso a ciò che la circonda, anche se puntualmente è costretta a fare quel gesto diverse volte, prima di trovare davvero un senso a qualcosa.
Piove. Piove anche ora, mentre Agatha cammina non troppo spedita verso casa, coi piedi negli anfibi che forse è ora di buttarli ma non lo fa. Ha sempre le cuffie nelle orecchie e niente che ci suona dentro, e come sempre ha scordato di prendere l’ombrello dall’ingresso, perché l’ultima volta che l’ha preso le stava per volare via con una folata di vento e perché in fondo – ma non troppo in fondo – le piace bagnarsi.
Agatha adora la sensazione della pioggia che le sfiora la pelle, in qualsiasi stagione. Anche se i capelli le si bagnano e le si aggrovigliano e le diventano ricci e poi non hanno più una forma. Anche se la giacca di pelle le si crepa alla fine dell’autunno, per tutta quella pioggia che le è caduta sopra. Ama la pioggia anche quando diluvia ed è freddo, anche quando i vestiti le si attaccano alla pelle e il trucco le si scioglie sotto gli occhi, anche quando piove a tal punto da non riuscire a vedere niente, e quando il cielo si riempie di tuoni e di lampi, perché è la scusa buona per raggomitolarsi sul divano a pensare, con la tv lasciata spenta solo per poter contemplare il silenzio.
E piove anche in quelle sere nelle quali Agatha prende un libro a caso dalla libreria della madre e legge. Legge fino a sentire gli occhi bruciare e un nodo in gola che si scioglie puntualmente in lacrime quando il libro finisce, la copertina viene richiusa con delicatezza  e l’odore di carta vecchia abbandona affranto le sue narici. Lei piange, quando i libri finiscono. Piange quando le storie alle quali si è affezionata terminano, sia che finiscano bene sia che finiscano nel peggiore dei modi.
Perché Agatha ha la strana capacità di immedesimarsi in qualsiasi cosa legga, come ha la strana abitudine di mettersi a piangere per qualsiasi libro legga, col mascara che le cola lungo le guance in due rigagnoli scuri, perché lei il mascara lo porta sempre, sempre e comunque.
Aveva il mascara anche quando lo vide la prima volta. E pianse.
Se lo ricorda, quel momento.
Aveva addosso un orecchino solo, nascosto dai capelli che forse erano rosa, viola o qualcosa del genere, perché quella mattina anche se si era svegliata in orario ed era riuscita a bere il caffè senza scottarsi la lingua ne aveva trovato solo uno. Il suo gemello doveva essersi disperso nella tasca di qualche paio di jeans o nella borsa di una qualunque delle sue amiche, ma in fondo lo ricordava solo perché ce l’aveva come abitudine, di perdere le cose e non ricordare dove esse fossero – soprattutto gli orecchini.
Se lo ricorda perché è stato il giorno in cui indossò di proposito il reggiseno di pizzo rosso con la canottiera bianca che lasciava vedere tutto, con quell’orrendo paio di slip verde fluo che onestamente faceva a pugni con qualsiasi altra cosa avesse addosso. Non poteva farci nulla, però. Perché lo faceva sempre, prendeva a caso le mutandine e il reggiseno puliti dal cassetto… che senso aveva abbinarli se non doveva vederla nessuno? E, anche avesse dovuto vederla qualcuno, che senso aveva?
Se lo ricorda perché aveva appena iniziato un tubetto nuovo di dentifricio al mentolo. Spremendolo dal centro e non dalla fine. Facendo le boccacce davanti allo specchio immaginando che con lei potesse esserci qualcuno al quale avrebbe potuto donare il proprio cuore senza ricevere nulla in cambio. Anche se Agatha nell’amore non ci credeva. Non più.
Non fino a quel giorno.
Ed era il giorno degli orecchini spaiati, della biancheria intima messa a caso e del tubetto di dentifricio nuovo. Era il giorno in cui si era ripromessa di bere meno caffè, di ascoltare la musica ad un volume più accettabile e di comprare una nuova tinta per capelli che come tutte la altre avrebbe fatto a pugni col resto del mondo, facendola essere un puntino colorato nel grigiore che più grigio non si sarebbe potuto della città. Era il giorno in cui non aveva alzato gli occhi al cielo per osservare le nuvole riempirsi di pioggia.
Quel giorno Agatha aveva sentito la sua voce la prima volta.
Cantava una canzone che normalmente lei non si sarebbe soffermata ad ascoltare, una di quelle canzoni che a lei non piacevano perché non esisteva la chitarra elettrica, e forse nemmeno la batteria – o se c’era era suonata troppo mediocremente perché le rimanesse impressa. Quel giorno aveva canticchiato a bassa voce un ritornello che normalmente avrebbe evitato come la lebbra. Perché le costava ammetterlo, ma quella voce le piaceva, le faceva venire i brividi quando prendeva quella nota più alta e le faceva spuntare un sorriso che non sarebbe riuscita a nascondere nemmeno mangiandosi le unghie.
Cantava quella canzone che era la prima di una lunga serie di canzonette d’amore che sarebbero finite nella sua playlist. Erano brani pieni di cliché, tra cui un imbarazzante “sei la mia criptonite” per il quale Agatha si sarebbe volentieri messa due dita in gola. Però c’era quella voce, che era roca e con quell’accento straniero per il quale avrebbe riempito un libro di frasi fatte. C’era quell’inflessione strana che la mandava fuori di testa, e quegli acuti che le strozzavano il respiro in gola.
Quel giorno Agatha aveva sentito Zayn Malik cantare, prima di vederselo comparire praticamente ovunque. Distoglieva lo sguardo se per caso qualcuno lo nominava, ma le brillavano gli occhi e non riusciva a nasconderlo; cambiava canale quando lo annunciavano alla televisione, e non ne capiva il motivo. Forse perché aveva un debole per la sua voce, forse perché aveva paura di scottarsi ancora, il che sarebbe stato anche peggio, razionalmente. Forse era l’insieme delle due cose.
Finché non aveva fatto in tempo a cambiare canale. Era andato tutto bene e lei aveva continuato a giocare coi capelli, a mordersi il labbro e ad indossare le collant rotte. Era tutto a posto e c’era sempre la sua musica sparata nelle orecchie o l’ombrello dimenticato sempre a casa anche quando diluviava. Ma era distratta per qualcosa, forse per il caffè nero che le aveva appena scottato la lingua mentre cercava di mettersi a studiare… non aveva cambiato canale in tempo per non vederlo, per non farselo imprimere a fuoco nella mente.
E quel giorno aveva trovato una nuova cattiva abitudine.
La peggiore di tutte.
Un’abitudine che portava i capelli tirati su in un ciuffo stratosferico e quegli occhi pieni di cliché che lei proprio non sopportava. Avrebbe potuto dire che i suoi occhi erano castani, o di mille tonalità che comunque non sarebbe mai riuscita a capire appieno; sarebbe stato un inutile modo di dire che non avrebbe mai descritto a dovere il colore di quegli occhi. Quell’abitudine faceva magie solo col suono della propria voce, sorrideva tanto da far impallidire qualsiasi altro sorriso Agatha avesse mai visto e aveva tutti quei tatuaggi che aumentavano un giorno dopo l’altro… lei non era in grado di resistere a tutto quell’inchiostro, come non era stata capace di resistere al suono limpido ma graffiante della sua voce.
Un’abitudine che portava camicie colorate e canottiere con il logo dei Nirvana. Un’abitudine coi jeans strettissimi, di quelli che si fanno fatica a togliere prima di fare l’amore e si finisce per ridere. Un’abitudine che correva più veloce di quanto sarebbe mai potuta andare lei.
Agatha non avrebbe mai potuto raggiungerlo, e ne era consapevole.
Il suo sarebbe diventando il classico amore a senso unico, ed era consapevole anche di quello. Perché Zayn era peggio del caffè bollente, del suo odio per il tè e del suo bisogno spasmodico di cioccolata calda quando faceva freddo; lui era peggio delle sigarette – che poi erano le stesse che fumava lui, anche se forse lui le fumava per vivere e non per morire – ed era peggio di quello spinello che tanto l’aveva fatta ridere e quasi l’aveva spinta nel baratro; lui era peggio della sveglia che non suonava, dei libri letti tutta la notte e del trucco sciolto con le dita pur di restare sveglia.
Zayn era peggio della fretta, peggio dei buchi sui collant e più forte del volume del riff alla chitarra che tutte le mattine le fracassava i timpani; era peggio che scappare, perché con lui non riusciva a muoversi ed era peggio che fidarsi, forse, perché davvero ci si poteva fidare di qualcuno che non si conosceva di persona?
E quel ragazzo era dolore, nascosto nel corpo di un modello con gli occhi del colore della corteccia degli alberi.
Era peggio che mangiarsi le unghie per noia o per il nervoso, peggio che gesticolare senza sapere che dire, peggio del mordersi il labbro a sangue, del giocare col piercing o dell’arrotolare una ciocca di capelli sulle dita.
Più di qualsiasi altra abitudine, Zayn era peggio del dimenticare l’ombrello a casa facendolo apposta ma convincendosi del contrario, peggio dell’amore di Agatha per la pioggia che le si attaccava addosso. Era peggio che piangere alla fine di un libro, col mascara che cola con le lacrime senza riuscire a fermarlo. Zayn era il gemello dell’orecchino spaiato, forse. Era peggio della sua dubbia capacità di abbinare la biancheria intima e peggio di ognuna delle tinte che i suoi capelli ormai sfibrati avevano dovuto sorbire.
Zayn era l’amore in cui Agatha non credeva più.
Zayn era quel tweet mandato alle tre di notte con Cime Tempestose lasciato aperto sul comodino e il trucco colato e quel pigiama di flanella e coi capelli che stavano stingendo dalla tinta verde.
@zaynmalik mi sa che mi sto innamorando di te.



 
   
 
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