Fanfic su artisti musicali > Avenged Sevenfold
Segui la storia  |       
Autore: VaVa_95    27/01/2015    1 recensioni
Le persone sono complicate. E tutti, ad un certo punto della loro vita, riescono a creare dei demoni che non riescono a domare, neanche per sbaglio.
Questo Matt lo sa bene.
E lo sa bene anche Liz.
---------------------------------------------
"- Sai, si dice che le storie portino demoni. -
Non aveva ben capito perché aveva detto proprio quella parola. Lui in fondo non la usava. Pensava che essi fossero semplicemente dei brutti pensieri, che prendevano forma solo quando la propria mente lo permetteva. Come diceva sempre a Matt, ogni persona aveva i propri demoni con cui fare i conti".
Genere: Generale, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Matthew Shadows, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Nota: i fatti riportati a seguire sono completamente immaginari. Scrivo per semplice diletto personale, e i personaggi di cui parlo non mi appartengono.

 

CAP. 2

 
“Living is a wicked dream, when things turned out all wrong
We are all so weak, no matter how strong”
Avenged Sevenfold – Demons
 
 
 


Settembre 1999
Huntington Beach, California


 
Matt poteva dire di essere nato in un contesto quasi agiato. Non stavano bene, ma non stavano nemmeno male, e rispetto a molte persone quella dei Sanders era una fortuna.
Era stato il primo figlio di una giovane coppia di sposini che avevano appena comprato una piccola villetta sul mare. Insomma, una benedizione, tutto ciò che una normale persona avrebbe mai potuto desiderare.
Ma lui era diverso, lo era sempre stato. Fin da bambino.
Era sempre stato piuttosto ribelle. Non ascoltava mai i consigli (figurarsi quindi gli ordini) dei genitori, faceva tutto di testa sua. Forse perché aveva avuto, fin da subito, troppe restrizioni e, di conseguenza, appena aveva un minuto di respiro faceva di tutto e di più. Perché i coniugi Sanders volevano il bambino perfetto, e per quel motivo avevano già deciso, prima della sua nascita, ciò che avrebbe o non avrebbe dovuto fare. In breve, si riassumeva tutto con poche parole: Matt doveva diventare un giocatore di basket professionista. Quella del basket era una passione che accompagnava la sua famiglia da generazioni. I suoi genitori erano giocatori al college, ed era proprio lì, sul campo, che si erano conosciuti e innamorati. Come ad alimentare quella loro non tanto segreta speranza che il figlio potesse fare successo, Matt era un vero talento. Non lo faceva neanche apposta. Era bravo, molto, tanto che giocava nelle squadre con i componenti più grandi, perché era troppo forte, troppo tutto per giocare e allenarsi con i bambini della sua età. Lo faceva praticamente tutti i giorni, perché quando non era agli allenamenti ci pensava il padre a fargli da coach, o personal trainer.
Lui era stato entusiasta della cosa per un po’.
“Sei speciale, Matt”, gli dicevano, fieri, se non di più. Anche la sorella minore, non appena fu in grado di reggersi su due gambe e tenere una palla in mano, cominciò a giocare a basket, e anche lei sembrava essere un talento naturale.
Ma non come lui.
Non come Matt.
Perché lui sarebbe diventato una stella.
Non si era reso conto subito che nella vita esistevano cose più importanti del basket, forse perché nella sua famiglia ne si respirava persino l’essenza. O forse perché era stato cresciuto con l’idea che il basket doveva essere la sua vita. Ma non era così, e lui lo sapeva. Sapeva di essere destinato ad altro, forse persino a rimanere rinchiuso in ufficio. A lui non importava più, ad un certo punto: gli sarebbe andato bene tutto, tranne il basket.
Ciò che Matt aveva dimostrato di essere era, in generale, un talento unico. Oltre al basket, quando lo avevano messo per puro caso dietro un pianoforte aveva praticamente dimostrato di essere un piccolo portento. A lui piaceva la musica, tantissimo. E, con una velocità impressionante, era stata proprio la musica a diventare il centro della sua esistenza. Inizialmente, i genitori lo assecondavano, tanto che avevano trasformato il garage di casa in una specie di studio. In fondo, nonostante facessero numerosi sacrifici, a lui non facevano mancare nulla. Tantomeno alla sorella Amy.
Ma Matt tutto quello non lo voleva. Non voleva essere un uccellino in gabbia. Voleva vivere la vita a modo suo e soprattutto avere la possibilità di scegliere che cosa fare.
Non sembravano dargliela.
Per questo, lui si ribellava.
Aveva cominciato presto, forse alla fine della quinta elementare, quando si era fatto cacciare dalla squadra di basket della scuola (lui giocava con i ragazzi della scuola media in realtà, i tredicenni, alti minimo venti centimetri in più di lui, ma era comunque uno dei più bravi) per il fatto di essere irrispettoso nei confronti dei compagni. Lui lo sapeva che il basket significava anche gioco di squadra. E se questo non veniva fatto, allora… il padre non si era dato per vinto e, in poco tempo, era riuscito a farlo riammettere. Alla scuola intermedia giocava già con i liceali, e anche lì faceva di tutto per farsi buttare fuori, ma l’allenatore resisteva, un po’ perché era un vero talento e un po’ perché gli era stato chiesto di farlo, dato che lo faceva visibilmente apposta, pur di non stare nella squadra. Non mancava un allenamento, ma essi venivano resi un inferno in terra.
Ne aveva combinate di tutte anche fuori dall’ambito sportivo, come l’incendio del campus. “Il ragazzino che ha ucciso il preside”, lo chiamavano. Lui pensava semplicemente che l’uomo soffrisse già di cuore. E poi ancora, le scorribande con alcuni ragazzetti appartenenti a delle gang di zona, i coinvolgimenti in numerose risse e tutto il resto. Tutti sapevano la storia della sua cicatrice sulla spalla.
La sua brutta reputazione lo precedeva addirittura di chilometri. In molti avevano paura di lui. Persino sua sorella, che un giorno, con la voce tremante, gli aveva detto “Matt, se continui così, un giorno ammazzi qualcuno”.
Forse era per quello che aveva deciso di fermarsi. O forse no. Non lo sapeva. Era come se non volesse essere più umano, tutto per liberarsi da ciò che gli altri si aspettavano da lui.
Forse perché non voleva deludere le aspettative di nessuno.
Chi lo teneva ancorato saldamente a terra erano solo i suoi amici. Quattro persone, fondamentali per la vita del ragazzo. Se Matt era ancora vivo, lo doveva al duro lavoro di Jimmy, Johnny, Brian e Zacky. Era grazie a loro che aveva provato a rimettere la testa a posto, nonostante non fossero certo dei bravi ragazzi.
Lì per lì quindi, in generale, era nella norma. Era tornato ad essere un ragazzo che poteva essere definito “normale”. Certo, commetteva ancora bravate, ma non era più il ragazzino terribile destinato a finire in galera. Era semplicemente uno degli “scapestrati”, che facevano tanto baccano ma che alla fine non facevano mai male a nessuno.
 
Tuttavia, aveva sviluppato una personalità quasi cupa.
Spesso, si sentiva l’ombra di sé stesso. Era stato cresciuto in un determinato modo, e lui aveva rifiutato gli ideali che gli erano stati impressi nella mente. Per quello spesso gli sembrava di non avere nulla, nessun esempio da seguire, niente di niente.
La sua mente era popolata da demoni. Quei piccoli mostriciattoli che formavano un’ombra scura che lo seguiva ovunque, del quale non riusciva certo a liberarsi, perché era attaccata a lui… era lui. Faceva parte della sua persona.
Uno di quei demonietti in particolare attirava la sua attenzione. Non sapeva in quale circostanza aveva visto quegli occhi di un verde magnetico, quasi innaturale. Ma essi avevano cominciato a perseguitarlo. Era come se li vedesse ovunque, come se si trattasse di una strana presenza.
Un paio di occhi verdi.
Era quello il suo demone peggiore.
I suoi amici, i suoi fratelli, gli davano del paranoico. E allora aveva pensato che lo fosse davvero, che non era possibile vedere un demone.
“È tutto frutto della tua immaginazione”, gli diceva sempre Zacky, battendosi l’indice della mano sinistra sulla tempia, come a rendere meglio il concetto.
Jimmy invece era dell’opinione che tutti quei cattivi pensieri dovessero essere scacciati. Che poteva ripulirsi completamente la mente ed essere sereno. Johnny era della stessa opinione, ma del resto sapeva che non era possibile prendere un paio di pinze, aprirgli la testa e tirare fuori tutti quei mostriciattoli neri. Era una cosa che solo Matt poteva fare, perché in fondo nella sua testa c’era lui, e lui soltanto.
Brian aveva i suoi demoni con cui fare i conti. Per quel motivo, forse, lo capiva di più di tutti. Gli aveva detto che spesso il modo migliore per scacciare via le proprie preoccupazioni e insicurezze era ignorarle. Si doveva semplicemente far finta che non esistevano e in quel modo se ne sarebbero andate da sole. Per le cose evidenti, invece, si doveva essere pazienti. Forse non sarebbero diventate poi così pesanti. Ma, per non correre rischi, era meglio affrontarle subito. Era quello che provava a fare lui, in fondo.
Per quel motivo era stato proprio lui ad essere il più felice quando Jimmy aveva annunciato di aver invitato a pranzo “il demone degli occhi verdi”. L’aveva chiamato così, senza pensarci troppo.
“Si chiama Liz”, aveva aggiunto poi, “non è proprio un nome adatto ad un demone, no?”.
Sì, perché a differenza degli altri, quello esisteva.
E Matt non riusciva proprio a capire da dove quella ragazza fosse spuntata.
L’aveva vista entrare in classe, una volta, quando lui era arrivato in anticipo e si era seduto in uno dei banchi in ultima fila, convinto di passare la lezione a dormire. In fondo era il terzo giorno di scuola e, lui lo sapeva, non si sarebbe fatto molto. Ripetere l’ultimo anno non era poi così male, in fondo: si conoscevano già le dinamiche di lavoro. Avrebbe fatto bene a diplomarsi, quell’anno.
La campanella era suonata e aveva visto un mare di studenti entrare in classe. Eppure, lei l’aveva notata subito. Quegli occhi li aveva notati subito. Erano lì, nella realtà, non nei suoi incubi. Ed appartenevano ad una persona concreta, non a un demonietto che lo tormentava.
Ne era rimasto sconvolto, tanto che non era riuscito a spiccicare parola per un’intera giornata con i ragazzi, cosa che li aveva fatti preoccupare a morte. Poi aveva spiegato loro la situazione e il giorno successivo i quattro avevano assunto i panni di agenti segreti perfettamente addestrati. Anche se, di fatto, non erano proprio riusciti a scoprire un bel niente.
Sembrava quasi che non esistesse.
E Matt non sapeva niente di lei, se non il cognome.
Dixon, aveva detto il professore, facendo l’appello.
Un cognome che non gli diceva niente. Non era particolare, non era popolare, non era nemmeno sconosciuto. Era… normale. Come del resto sembrava esserlo la ragazza. Perfettamente nella norma.
All’inizio avevano tutti provato ad azzardare delle ipotesi, specialmente le ragazze, perché Eleanor e Phoebe in fondo erano le razionali del gruppo e non volevano che il ragazzo sprofondasse di nuovo in una specie di abisso nero che la sua stessa mente creava. Avevano dedotto che, in realtà, l’aveva già vista da qualche parte e forse il colore degli occhi così innaturale l’aveva colpito e in qualche modo il loro ricordo era rimasto scolpito nella sua memoria.
Non ne era poi così sicuro, ma in effetti non avevano tutti i torti: tutti i demoni di Matt erano… erano solo fantasmi del suo passato. Perché quello avrebbe dovuto essere diverso?
Sicuramente, senza rendersene conto, l’aveva già incrociata da qualche parte. E lei non si era fatta notare, esattamente come i fantasmi.
 
Con il passare dei giorni però, la curiosità di Matt cresceva. E anche la convinzione di Jimmy che i demoni dovessero essere scacciati. Vedendo l’interesse dell’amico crescere si era praticamente buttato addosso alla giovane, in modo da avere una scusa per interagire con lei. Avevano notato che, oltre a qualche saluto e a qualche parola scambiata qua e là, la ragazza non frequentava nessuno. Dovevano trovare un modo. E la soluzione dell’amico era stata la più veloce e la più semplice.
In mensa, Jimmy aveva detto che la giovane si chiamava Liz. Un diminutivo. Ma di cosa? Elizabeth? Elize? Lisa? Lynn? Non gli bastava. Lui voleva di più, sempre di più. E non riusciva nemmeno a capire perché. Era come se avesse sviluppato un senso di… di… non sapeva nemmeno cosa.
Quando però era lì, a pochi metri da lui, Matt non riusciva a spiccicare parola. Era come se qualcosa lo bloccasse. Si limitava a studiarla, come a cercare di capire che cosa ci fosse di sbagliato in lei, o che cosa ci fosse di giusto, d’altra parte. Non riusciva a capirci nulla.
Zacky gli aveva detto di provare a farsi avanti, di provare a conoscerla, per vedere come andavano le cose. Era una paranoia, la sua. La ragazza non aveva niente di strano, né di sbagliato. “E poi”, diceva sempre lui, “giusto per usare la parola che ti piace tanto: di demoni ne abbiamo tutti. Dobbiamo solo trovare la persona cui demoni si sposano bene con i nostri”.
Senza dubbio aveva ragione.
E poi, era paranoico. Terribilmente paranoico, su quella cosa. In genere non era così, lui era felice, spensierato. Era ciò che voleva essere da anni ormai e la cosa gli piaceva. Perché avere cominciato ad avere cattivi pensieri?
Forse, gli diceva Johnny con fare filosofico, la ragazza era la risposta.
Brian alzava gli occhi al cielo ad ogni parola incoraggiante detta dagli altri. Lui aveva agito in modo diverso: lo aveva preso per le spalle, lo aveva guardato negli occhi e gli aveva detto: “Matt, chi se ne importa. È una paranoia. Quella ragazza l’hai già incontrata in altre circostanze. È una persona normale. Smettila di comportarti come un ebete e impara a conoscerla meglio come stiamo facendo noi”.
Perché lui non voleva ammetterlo, ma la ragazza gli andava a genio. Non avrebbe avuto problemi ad aggiungerla al loro piccolo gruppo, così come era successo tempo addietro con Eleanor e Phoebe.
E avevano ragione.
Doveva smetterla. Smetterla di essere paranoico.
- Ciao – salutò Liz, battendogli una mano sul banco come ad interrompere il flusso dei suoi pensieri.
Certo. Era lì perché avevano in comune il corso scienze. Lui non sapeva nemmeno perché l’aveva scelta, quella materia.
- Ehi – la salutò, di rimando, per poi togliere lo zaino dalla sedia vuota vicino alla sua, come ad invitarla a sedersi.
Nonostante in quella settimana si fosse sempre seduta con loro a pranzo, in classe era diverso. Lei era una studentessa diligente ed era dannatamente brava, con una media altissima. Durante le lezioni voleva mantenere costante il livello di concentrazione, per quel motivo era sempre in prima fila. Le ricordava Eleanor, quell’attitudine. Forse era anche per quello che le due si erano trovate subito così bene.
Proprio per quel motivo, fu sorpreso di vedere la giovane accettare quella specie di invito e sedersi accanto a lui.
- Volevo augurarti buona fortuna per questa sera – disse, come a giustificare il suo comportamento. In fondo, i due erano praticamente estranei. Avevano spiccicato sì e no due parole nel corso dell’intera settimana.
- Oh. Grazie. Potevi dirmelo anche prima dell’esibizione – esclamò il ragazzo – a meno che… tu stia pensando di non venire. -
- L’idea mi è balenata in testa parecchie volte, ma mi pare di capire che per Jimmy non esista la parola “no” – mimò le virgolette con le dita, cosa che lo fece ridere.
- Invece per lui esiste, eccome. Ma la usa a modo suo. -
- Capisco. -
- Bene, tutti ai posti, iniziamo la lezion… Dixon! Che ci fai lì dietro? Sanders, che cosa le stai facendo? Non vorrai mica darle fastidio! Non te le passa le risposte del compito di settimana prossima, devi imparare a stare attento. Dixon, torna immediatamente qui. -
La ragazza rise appena alle parole del professor Dorian, che era appena entrato in classe, per poi alzarsi e prendere il libro di scienze che aveva appoggiato sul banco.
- Beh… allora, a questa sera. -
- Sì, a questa sera. -


 
--


 
C’era una frase latina dal significato profondo, per quanto piccola essa fosse: carpe diem.
Letteralmente, “cogli l’attimo”.
I latini erano saggi, dicevano sempre tutti. Dannatamente saggi. E, probabilmente, si capiva molto di più dalla vita duemila anni prima che lì, in quel momento, nei tempi moderni.
“Come fa l’uomo a vivere senza rendersi conto che ogni giorno muore?”, diceva Seneca, in una delle sue più importanti lettere indirizzate all’amico e discepolo Lucilio. Di fatto, il filosofo durante il suo esilio in Corsica aveva capito molte, molte cose. Quella, per loro, era la più importante.
Non c’era giorno che passasse che non avvicinasse la morte. Ogni giorno si era un po’ più vecchi, un po’ più esperti, un po’ più questo e un po’ più quello, dipendeva dalle esperienze che si erano vissute. Ogni giorno si era un passo più vicino alla fine.
Così era. E probabilmente così doveva essere.
Proprio per quella ragione si doveva vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo. Per non parlare del fatto di vivere nel modo più consono alla propria persona, rimanendo sempre coerenti con sé stessi, ogni minuto i ogni giorno.
Era quello che avevano deciso di fare loro. Una mattina si erano svegliati e avevano detto basta. Avevano deciso di fare quello che volevano loro, avevano deciso di seguire i propri sogni. Di fatto, era anche quello un aspetto fondamentale della vita: inseguirli, continuamente, fino ad acciuffarli e realizzarli. Si cadeva nove volte, ma si doveva avere il coraggio di rialzarsi una volta in più.
Non sapevano bene come erano diventati una band. Si erano alzati una mattina, tutti e cinque, erano arrivati a casa di Matt in uno stato quasi comatoso, si erano riuniti nel garage. Nessuno voleva parlare, ma la verità era che stavano pensando tutti alla stessa cosa. Fu Jimmy il primo a dire “ehi, fondiamo una band”. L’aveva detto quasi in tono scherzoso, ma tutti sapevano che era dannatamente serio. Avevano dato una scrollata di spalle, poi avevano annuito. Come se fosse una cosa da poco. In realtà, lo sapevano tutti che non lo era per niente.
Avevano cominciato ad esibirsi alle feste della scuola, ma sapevano che il loro genere, così graffiante, così arrabbiato, non piaceva quasi a nessuno, lì dentro. Così erano passati ai locali, ad ottenere ingaggi e ad avere il permesso per fare serate anche nei locali dove erano ammessi solo maggiorenni. Avevano anche cominciato a farsi pagare, anche se si trattava di qualcosa come venti dollari a testa ad esibizione, che ovviamente venivano spesi tutti in alcolici. Poi avevano deciso di dire basta anche a quello, perché la vita era una sola, era dannatamente breve e, per l’appunto, come diceva Seneca, ogni giorno si moriva un po’. Avevano deciso di puntare in alto, di rendere il loro sogno ancora più grande. Anzi, di renderlo un progetto concreto. E lì era partita la caccia al contratto discografico. Dovevano solo ricavare i soldi necessari per registrare delle demo. Poi tutto il resto sarebbe venuto da sé. Avevano rifiutato i soldi dai loro genitori, alcuni li avevano già aiutati fin troppo e non volevano gravare ulteriormente sulle loro spalle (tra l’altro, ad alcuni non piaceva nemmeno l’idea della band). Ascoltavano da quando erano appena ragazzini delle band cui componenti erano partiti con solo degli strumenti mezzi rotti in mano e tanti, tantissimi sogni. Loro non volevano essere da meno. Volevano partire da zero, perché da lì si poteva solo salire.
Carpe diem. La loro filosofia prima di ogni esibizione. Perché ognuna di esse era diversa dall’altra e non sarebbe tornata più. Dovevano cogliere l’attimo e assaporarlo fino in fondo.
- Ragazzi, cinque minuti – annunciò il proprietario del locale, battendo a tutti una pacca sulla spalla e indicare loro il palco.
Non c’era tanta gente, ma non ce n’era neanche poca. Erano pronti, anche quella volta.
- Su, venite qui, abbracciamoci – esclamò Jimmy, allargando le braccia e stringendo i compagni di band e di vita in un forte abbraccio.
Non avevano mai dubitato delle loro capacità. Non c’era un piano B: o quello, o niente. Non si accontentavano.
- Vi amo – si lasciò sfuggire Brian, facendo ridere gli amici.
- Perché quando dice queste cose nessuno ci sta filmando? – domandò Johnny, ridacchiando e prendendosi uno scapaccione dal diretto interessato.
Anche quel momento non sarebbe tornato. Ma loro l’avevano vissuto fino in fondo.
Perché ogni giorno si moriva un po’ di più.
Ma loro avrebbero colto ogni attimo che ogni giorno nuovo presentava.

 

 
--

 
 
Matt aveva ricevuto complimenti su complimenti, provenienti da tutte le persone presenti al locale. Chi era venuto ad assistere all’esibizione era principalmente un amico, o un conoscente, ma c’era anche chi si trovava lì per caso e aveva avuto modo di apprezzare la loro musica.
Tutto quello al cantante faceva sorridere, ma al contempo riflettere. Se chi non li conosceva per niente veniva lì a stringere loro la mano e a complimentarsi dicendo che avrebbero dovuto davvero calcare le scene, significava che potevano farlo davvero. Che tutto quello in cui si ritrovavano spesso a sperare, quasi sognando ad occhi aperti nel garage di casa sua, o in quello di casa Sullivan, non era poi così improbabile. Che poteva succedere.
Anzi, che sarebbe successo.
Osservò Liz in lontananza, l’unica della sua cerchia di conoscenze con cui non aveva ancora parlato per ringraziarla di aver partecipato a quella serata. Stava parlando animatamente con un ragazzo che doveva avere circa venticinque anni, che stava servendo alcolici a più non posso. Sembravano in confidenza, come se si conoscessero da una vita.
Si avvicinò, salutando con un cenno della testa. Il volto del giovane si illuminò, gli fece i complimenti e gli batté anche il cinque, per poi tornare a lavorare come se niente fosse.
- Il mio vicino di casa, abita sopra di me – spiegò la ragazza – gran lavoratore. Durante l’esibizione mi ha detto che siete la band locale migliore in circolazione. -
Matt sorrise, cosa che le fece perdere un battito. La giovane non voleva darlo poi così a vedere.
- E tu, che ne pensi? – domandò, sedendosi accanto a lei – a proposito, grazie per essere venuta. Significa molto per tutti noi. -
Liz diede una scrollata di spalle, come a dire che non l’avevano certo disturbata chiedendole di assistere ad una loro esibizione.
- Siete bravi. Davvero. Se voleste, avreste tutte le carte in regola per sfondare. -
Matt sorrise di nuovo, un sorriso sincero, che in automatico fece sorridere anche la ragazza.
- Grazie. Significa molto, perché di fatto è proprio ciò che vogliamo fare. -
- Davvero? -
Non che la cosa la stupisse. Quando Zacky era passato a prenderla sotto casa aveva cominciato a parlare della band, di quanto la musica fosse importante per loro, del fatto che avevano cominciato in un garage ma che erano di grandi vedute. Sognavano di arrivare alla vetta del mondo, di sentirsi più che realizzati. Matt però l’aveva detto con una strana luce negli occhi. Come se quella band fosse il suo bambino e lui un padre che gonfiava il petto d’orgoglio. A quel complimento, il suo viso si era totalmente illuminato, come se la giovane gli avesse detto la cosa più bella del mondo.
- Abbiamo un contatto o due per un possibile contratto. Ma dobbiamo fare qualcosa a proposito dei fondi. Non ne abbiamo. Stiamo lavorando il più possibile ed esibendoci ogni volta che abbiamo una serata libera, ma… -
- Ma non sembra mai abbastanza. Lo capisco. Se vuoi posso chiedere i giro, qualcuno che cerca aiuto c’è sempre. -
Era vero. Nel suo quartiere c’era sempre gente che chiedeva aiuto, per un motivo o per l’altro. Chi per aiutare a spostare dei mobili, chi per la spesa, chi per aiutare a dare una mano di pittura ai muri rovinati… le persone che aiutavano venivano sempre ricompensate. Con poco, certo, ma era pur sempre qualcosa.
- Non devi. Davvero. -
- Lo faccio con piacere, invece. -
Il ragazzo scosse energicamente la testa. Liz era stata gentilissima, ma lui aveva altro per la testa. Aiutava il più possibile in ristoranti, dove quando avevano bisogno faceva l’aiuto-cameriere, aiutava gente del suo quartiere per poi ricevere una paga, scaricava scatoloni nei magazzini dei negozi della città in modo da ricevere un compenso… di cose ne faceva già tante. E andare lì, in quel quartiere, e avere anche il coraggio di chiedere soldi a quella gente… ma, anche lì, forse non sapeva com’era davvero la situazione.
Non ne aveva idea, non era di zona, del resto.
- Non voglio che i ragazzi, tantomeno io, si sentano in debito anche con te. E poi, hai già le tue cose a cui pensare. -
- Anche? State chiedendo soldi a mezza città? -
Il ragazzo rise, una risata che le arrivò dritta al cuore. Non sapeva nemmeno perché si sentiva così tanto in sintonia con lui. avevano attaccato bottone solo quella mattina, e per pochi minuti anche. Era… assurdo. Inizialmente, era andata lì per dirgli che quella sera non sarebbe venuta. Che aveva degli impegni importanti che non poteva proprio rimandare, oppure che si era sbagliata e no, non aveva la serata libera ma doveva lavorare… una scusa qualsiasi, perché per lei tutte erano sensate. Ma, una volta lì, quando gli aveva augurato buona fortuna, il ragazzo le aveva sorriso, mostrando uno dei sorrisi più belli che avesse mai visto, che andavano anche a formare due fossette sulle guance. E lì non sapeva bene che cosa era successo. Sapeva solo che, improvvisamente, tutto quello che voleva era assistere all’esibizione degli Avenged Sevenfold.
Il cantante le indicò una ragazza, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Era alta circa un metro e sessantacinque, dal fisico snello e atletico. Doveva fare parecchia attività fisica per mantenere una forma del genere. Aveva la carnagione chiara, i capelli di un biondo platino rigorosamente tinti e due grandi occhi color nocciola che risaltavano sul viso ovale. Indossava un paio di jeans stracciati e una semplice maglia nera a mezze maniche. Nonostante gli abiti, però, la giovane l’aveva riconosciuta: Valary DiBenedetto, vice-capitano delle cheerleader. Non sapeva molto di lei, a parte il fatto che non era una persona che in genere piantava grane, tantomeno la sorella gemella. Erano cheerleader e si comportavano come tali, certo, ma non erano cattive. O almeno era quello che aveva dedotto. Stava parlando con Johnny e Brian, che la stavano ascoltando attentamente.
La domanda a Liz sorgeva spontanea: perché dei ragazzi come loro frequentavano una cheerleader?
- La mia ragazza – spiegò, come a giustificare il suo gesto – cerca di aiutare come può. Sembrerà strano, ma ci capisce molto di queste cose. Non mi sento così in debito con lei. L’ha fatto con piacere. Ma i ragazzi sì e la loro priorità è quella di restituirle i soldi il prima possibile. -
Aveva una ragazza, quindi. Anzi, non una semplice ragazza, ma Valary DiBenedetto. Che dire, il giovane si trattava più che bene.
Quell’annuncio le aveva dato quasi fastidio, non sapeva bene perché.
“Accidenti a te”, le aveva detto con velocità la sua coscienza, “ricomponiti immediatamente”.
Non aveva molta voglia di ascoltarla, anzi per niente.
- Capisco. -
- Già. -
- Beh… sarà meglio che vada ora. Il padre di Eleanor ha detto che è disposto ad accompagnarmi a casa. -
Il signor Rigby era la classica persona a cui tutti avrebbero potuto fare una statua, un po’ per la sua spontaneità, un po’ per il suo sostegno ma, soprattutto, per la sua pazienza nei loro confronti, constatò Matt. L’aveva conosciuto circa due anni prima, ad un barbecue in casa Sullivan. Si era fatto spiegare il progetto che all’epoca era solo una fantasia dei cinque, e ne era stato entusiasta. Quando alla fine la band era stata formata lui aveva garantito il suo supporto. Erano tutti sicuri che, se fossero mai riusciti ad ottenere un contratto e a rilasciare un album, lui sarebbe stato il primo a comprarlo. Matt ne era più che felice: era bello vedere che c’era sempre qualcuno disposto a sostenerli. Si trattava di poche persone, di genitori, membri della famiglia, amici, ma era già tanto, per lui.
L’aveva visto di sfuggita quella sera, anche perché aveva lavorato fino a tardi e non era potuto venire alla loro esibizione. Ma, probabilmente, voleva comunque venire a prendere le figlie. Non era un bel quartiere e sì, si fidava dei ragazzi, ma… non al punto da affidare a loro l’incolumità delle figlie. Li conosceva bene, fin troppo, constatò il cantante.
- Oh. Allora… ci vediamo lunedì. -
- Sì. A lunedì. -
Liz fece per andarsene, ma il ragazzo la prese per un braccio, cosa che le provocò un brivido che le percorse la schiena. Era quasi sicura che l’aveva sentito anche lui, in quanto aveva esitato per un momento.
- Aspetta – disse poi – non mi hai detto il tuo nome. -
La ragazza lo guardò con aria interrogativa.
- Lo sai, il mio nome. -
- Non puoi chiamarti solo Liz. Non ci credo. È troppo anonimo, e tu invece non lo sei per niente. -
La giovane scosse energicamente la testa.
- Il mio nome lo è. -
- Non credo nemmeno a questo. -
Alzò gli occhi al cielo, per poi prendere la giacca di pelle e fare un cenno ad Eleanor e Phoebe sulla porta del locale, come a dire loro che le avrebbe raggiunte in pochi secondi.
Era vero, lei aveva un nome. Un nome che non le piaceva, per quel motivo non si presentava mai in quel modo. Le persone del suo quartiere la chiamavano “Liz”, le persone che in generale conosceva la chiamavano in quel modo. Al lavoro, sul suo cartellino c’erano semplicemente scritte quelle tre lettere. Un nome corto, semplice da ricordare… niente era meglio di Liz.
Era anche vero che non era il suo nome. Lei ne aveva un altro. Uno più lungo e più complicato. Che non voleva che si sapesse, perché la persona che c’era dietro di esso non esisteva più da molto tempo.
Ma, forse, per lui poteva fare un’eccezione.
- Elizabeth – disse poi, togliendosi i capelli dal colletto della giacca.
- Come? – domandò Matt. Lo aveva colto alla sprovvista.
Come se si fosse perso ad osservarla.
- Il mio nome. Elizabeth. -
Il ragazzo sorrise. Per lui era un bel nome. E per lui valeva mille volte più di Liz.
- Allora ci vediamo lunedì… Elizabeth. -








Note dell'autrice:
Ed eccomi la settimana dopo con un nuovo capitolo. Ammetto che avere la storia già completa rende molto più facili gli aggiornamenti. Non ti fai troppi problemi e non pensi "devo scrivere o non riesco ad aggiornare aiuto che faccio".
Bando alle ciance però, veniamo al capitolo. Come vi ho già detto, questa storia è un esperimento. Non smetterò mai di ripeterlo però, alla fine non si sa mai, non escludo che qualche lettore (?) possa perdere il filo... soprattutto quando una storia gira intorno ad una metafora. Quindi insomma, sostanzialmente in questo capitolo la vediamo in atto: c'è la storia di Matt. C'è il rapporto con ciò che è (o meglio, era) destinato a fare e ciò che effettivamente vuole fare - e che si nota nel pezzo dell'esibizione della band e con il dialogo successivo. C'è Liz, che cerca di integrarsi in questa nuova e stramba compagnia. 
Secondo i miei standard questo capitolo è cortino, ma alla fine sono i contenuti che contano. Mi piace poi giocare con quella che sembrerebbe essere un'altra parte di Liz, ovvero Elizabeth: quella che nasconde le debolezze... i demoni, per l'appunto.
Per quanto riguarda Valary: ammetto che, inizialmente, non volevo inserirla. Volevo prendere una ragazza con un nome a caso, ma... alla fine, con lei presente, si può "giocare" un po' di più con la cronologia degli eventi e tutto il resto. In più, Matt dichiara di aver avuto solo lei, come ragazza (facciamo finta di crederci), quindi inserire personaggi qua e là in un momento dove essi sono costanti, cioè le solite otto/nove persone, non mi sembrava opportuno. Per quanto riguarda invece la parte dell'esibizione, mi sono rifatta ad una mia vecchia fanfiction, pubblicata qualcosa come tre anni fa. Mi era piaciuto come in qualche modo avevo reso l'introduzione all'esibizione... quindi mi sono detta: "perché no?" e ho deciso di riprendere, ovviamente modificando tutto il resto, i punti fondamentali.

Detto ciò, mi ritiro nel mio angolino buio.
Grazie di cuore a chi ha recensito e messo la storia fra le seguite e le preferite. Siete davvero dei tesori.
Se il capitolo vi è piaciuto, o se non vi è piaciuto, o se vi ha fatto schifo (*porge catino per il vomito*), lo lasciate un commentino per farmi sapere? Sì? *occhi da cucciolo*.

Okay, me ne vado davvero.
Al prossimo capitolo!
Kisses,
Vava_95

P.S. in caso, potete trovarmi su twitter: @SayaEchelon95
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Avenged Sevenfold / Vai alla pagina dell'autore: VaVa_95