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Autore: fearlessrainbow    27/01/2015    0 recensioni
Shannon, una diciassettenne ordinaria, coltiva la sua passione per la danza fin da quando era bambina. Tra specchi e pece, pianoforte e chignon, la sua vita a un certo punto sembra scorrerle a fianco, escludendola, proprio a causa della sua passione, dalle esperienze che i suoi coetanei vivono quotidianamente. Cosa sceglierà fra la danza e la vita reale?
Genere: Generale, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“E uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto."

Alzo il mento, allungo il collo e la schiena, contraggo i glutei e gli addominali, stendo le ginocchia e i piedi, ed eseguo il mio grand battement, mordendomi istintivamente il labbro, consapevole che la mia gamba non arriva nemmeno a novanta gradi. E questo non è sfuggito all’insegnante, che alza quasi impercettibilmente il sopracciglio guardando nella mia direzione e poi facendo scorrere lo sguardo sulle altre ragazze.
“Va bene, meglio di prima, però attente a non fare smorfie! Non bisogna mostrare la fatica né il dolore, credo che ormai siate abbastanza grandi da capirlo e metterlo in pratica!”
Ovviamente la frecciatina era rivolta a me. Come sempre.
Ricordo che fu proprio questa cosa ad avvicinarmi alla danza, il fatto che sul palcoscenico tutto sembrasse facile. La prima volta che vidi una ballerina danzare, rimasi colpita dalla grazia e dalla compostezza, dal suo sorriso che sembrava così spontaneo, mentre volteggiava sulle punte. Ricordo che mia madre dovette letteralmente trascinarmi via dal teatro a suon di minacce, e che io puntai i piedi per rimanere lì ancora un po’, nonostante il saggio di mia cugina fosse ormai finito.
Da quella sera, iniziai ad amare la danza sempre più, con tutta me stessa. All’età di quattro anni, mia madre mi iscrisse a gioco danza proprio nella scuola dove mia cugina si allenava da tempo. Eravamo sette bambine, tenere e impacciate nei nostri golfini rosa, intente a battere le mani e i piedi, correre in cerchio, giocare sulle note della musica classica. La maestra ogni tanto ci regalava una caramella alla fine della lezione, salutandoci con un gran sorriso. La mamma veniva a prendermi e puntualmente mi rimproverava perché il mio chignon era ormai una coda di cavallo, e io ridevo con le mie amichette. Ricordo ancora quei momenti, come se fosse ieri.
Un giorno, la maestra posizionò al centro della sala una grande sbarra di legno, e ci disse che da quel momento avremmo iniziato a fare delle vere lezioni di danza. “Come le ragazze grandi?” chiese una bambina. “Certo: un giorno anche voi sarete come loro!”.
Restammo a bocca aperta, per poi sorridere. Un giorno saremmo diventate anche noi delle brave ballerine, avremmo indossato le scarpette da punta e quei meravigliosi tutù, avremmo ballato su un palco con un vero pubblico davanti. Pregustavo già quel momento.
Tutto andò bene fino a quando, un martedì, entrai a scuola e trovai la mia maestra che, a bassa voce e con delle profonde rughe sulla fronte, parlava con un uomo in giacca e cravatta. Non mi ero mai accorta, fino a quel momento, di quanto la maestra fosse invecchiata. L’avevo sempre vista come una figura fondamentale nella mia vita, un’eterna adulta, dimenticandomi quasi che il tempo passava anche per lei e che non era destinata a rimanere per sempre quella donna giovane e piena di iniziativa che avevo conosciuto a quattro anni.
Mi chiesi di cosa stessero discutendo i due – sarà stato un commercialista, come quelli che vengono ogni tanto per questioni burocratiche come le ricevute e le schede di iscrizione – sperando che l’espressione cupa sul volto della maestra non portasse brutte notizie.
Ovviamente non fu così. Più tardi, quel giorno, prima della fine della lezione, ci mise in cerchio e si sedette per terra con noi. Mordendosi il labbro per la tensione, ci disse semplicemente che gli affari non stavano andando per nulla bene. Suo marito, spiegò, aveva perso il lavoro ed ora era in cassa integrazione (nessuna di noi, scommetto, capì cosa significasse, ma sembrava una cosa grave), e le rette della scuola non bastavano per garantire sicurezza economica alla sua famiglia. Durante il discorso dovette fermarsi per asciugare una lacrima. Era davvero una situazione spiacevole.
Ricordo le espressioni sui volti delle mie amiche: eravamo abbastanza grandi per capire di cosa si trattasse, ma ancora troppo piccole per salutare la nostra insegnante.
In un modo o nell’altro, dovemmo farlo, qualche settimana più tardi. Ci abbracciò tutte, una ad una, dalla più piccola alla più grande e, quando fu il mio turno, mi sussurrò all’orecchio: “Mi raccomando, Shannon. Conto su di te. Puoi fare grandi cose, non deludermi.”

Da quel momento la vita a scuola venne stravolta. Arrivò una nuova direttrice, una donna dal forte accento russo, la signora Melnikov, ex studentessa dell’Accademia Vaganova di San Pietroburgo. Prese in mano la situazione con fermezza e in pochi giorni la scuola divenne irriconoscibile. Il bancone all’entrata, solitamente decorato con mazzi di fiori e tappezzato di fotografie e avvisi, sparì, lasciando il posto ad una scrivania in legno chiaro semplice e ordinata Lo spogliatoio, il nostro regno, fu reso il più spartano possibile, stessa cosa per quanto riguarda le sale, i cui muri ora erano di un asettico bianco.
Il giorno della nostra prima lezione con la nuova insegnante, trovai le mie compagne che si guardavano intorno con dei visi sbigottiti e perplessi, senza dire una parola. Le raggiunsi e non potemmo fare a meno di commentare:
“Ma chi è quella? Hai visto come cammina?”
“Ha tolto le nostre fotografie …”
“Non c’è più il nostro angolo preferito nello spogliatoio!”
“Perché i muri non sono più colorati?”
Tante domande sorsero spontanee. A dodici anni, cambiamenti come questi possono essere piuttosto d’impatto. Del resto, avevamo passato gli ultimi otto anni in quei corridoi e in quelle stanze, erano come la nostra casa. Ne avevamo combinate di tutti i colori, avevamo riso, lavorato, pianto, sudato, insomma, eravamo cresciute. Delle sette bambine di gioco danza, eravamo rimaste in cinque, e tre nuove ragazzine si erano aggiunte nel corso degli anni, integrandosi perfettamente all’interno del gruppo. Eravamo inseparabili.
“Voi siete le ragazze del terzo corso?” La voce della signora Melnikov alle nostre spalle ci fece sobbalzare. Asya, la più coraggiosa del gruppo, prese la parola: “Sì, siamo noi, signora …” “Melnikov. Melnikov. Vi conviene impararlo in fretta, non voglio essere chiamata in nessun altro modo.” Annuimmo tutte con convinzione. “Bene, andate pure in sala uno, e preparatevi con due mani alla sbarra. Vediamo un po’ cosa sapete fare.”
Ci dirigemmo subito in sala, disponendoci come sempre alla sbarra e iniziando a provare dei semplici esercizi di riscaldamento e qualche tendu alla seconda. La signora Melnikov entrò con passo deciso, prese la sedia dall’angolo della sala e si posizionò proprio in centro, davanti agli specchi. Prese una cartellina e, mentre osservava il nostro lavoro, iniziò ad annotarsi qualche appunto, suppongo su di noi.
“I piedi! I piedi! I piedi a banana alla vostra età non posso tollerarli!”
“La schiena, tu, sì tu in fondo a destra! Come ti chiami? Ah, bene, Jade. Ascolta Jade, come deve essere la schiena nei plié alla seconda, eh? Queste sono cose che si fanno al primo corso!”
“Tempo! Tempo! Non siete per niente musicali!”
Fu una tortura: ogni passo, ogni esercizio, non era a suo parere eseguito correttamente. C’era sempre un piede da stendere, un gomito da sostenere, una mano da rendere viva. Sembrava che in tutti gli anni precedenti non avessimo studiato nulla, il che non era assolutamente vero. La prima lezione sulle punte fu addirittura peggio: Asya, che non era ancora del tutto stabile e aveva dei problemi di equilibrio, scoppiò a piangere, lei che era la più spigliata del gruppo, per il dolore e la paura. La signora Melnikov non disse una parola, non la degnò di uno sguardo. “Solo i più determinati hanno successo nella danza. Questo sarà il nostro motto.” Annunciò alla fine della lezione, congedandoci.
Mai in vita mia avevo desiderato così tanto che il tempo passasse in fretta, mai avevo odiato quello che facevo, mai ero arrivata a casa in lacrime, nonostante avessi dovuto affrontare molte difficoltà nel mio percorso. A cena non toccai quasi nulla, e quando feci il bagno dovetti prestare particolare attenzione ai piedi, gonfi e arrossati, e applicarvi degli impacchi di erbe per trovare un po’ di sollievo.

La situazione si stabilizzò con il tempo, ma ci volle molto perché ci abituassimo al bianco e all’ordine, alla disciplina impostaci dalla direttrice e alle dure lezioni. Tuttavia, il suo metodo russo, diverso da quello inglese che ci era stato insegnato, divenne familiare, e iniziammo persino a trovare simpatica la signora Melnikov. Certo, non era affettuosa né materna come la vecchia maestra, ma il suo rigore e la sua schiettezza ci avevano in qualche modo aperto gli occhi, rendendoci più consapevoli dei nostri limiti ma anche delle nostre potenzialità. Ci aveva impartito delle vere lezioni di vita, con i suoi “motti” sulla determinazione e su come il mondo della danza fosse spietato e per pochi.
Questo ci infuse una forza che non ci eravamo rese conto di avere, e inevitabilmente accrebbe anche la competizione fra di noi. Ormai, a quindici, sedici anni, cominciavamo a cambiare fisicamente, a vederci belle o brutte a seconda della giornata, ad avere le prime invidie verso le compagne più brave, a perdere la fiducia in noi stesse con facilità. Il desiderio di essere le migliori, di primeggiare o, come nel mio caso, di sentirsi brave e capaci di fare progressi, portò a inevitabili scontri e tensioni all’interno del gruppo.
Vanessa, che con gli anni era diventata sempre più carina e snella, sembrava essere la prediletta dell’insegnante. Il piede storto o il movimento fuori tempo passavano in secondo piano rispetto alle sue linee perfette e al portamento elegante.
Al contrario, invece, io sembrai regredire anziché progredire. La voglia e la determinazione non mi mancavano, ma spesso, anziché guardare allo specchio se stavo eseguendo correttamente i passi, mi ritrovavo a fissare Vanessa. E puntualmente mi perdevo, e venivo rimproverata.
Agli esami del livello Intermedio, passai con uno dei punteggi più bassi. La signora Melnikov non era contenta di me, e lo sapevo. Nemmeno io ero contenta di me stessa. Non sapevo cosa mi stesse succedendo: stavo perdendo a poco a poco tutta la mia autostima, e tendevo ad arrendermi ancora prima di iniziare. Ero convinta di non essere mai all’altezza e di deludere tutti, la maestra, me stessa, le altre e i miei genitori. Spesso mi ritrovavo a pensare di mollare tutto, di smetterla una buona volta di giocare alla ballerina, quando non ne avevo il carattere né la predisposizione. Spendevo così tanto tempo in quella scuola, che ormai anche i risultati scolastici non erano dei migliori. A cosa serviva, dunque, intestardirmi se non avevo futuro?
   
 
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