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Autore: Lady Stark    28/01/2015    1 recensioni
Sono ebreo.
L'ho finalmente realizzato dopo che l'ennesimo anno di gelo e dolore mi hanno scavato le ossa, ormai pericolosamente in rilievo sulla mia pelle.
Genere: Drammatico, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Esiste davvero la felicità?? 

Sono ebreo.
L'ho finalmente realizzato dopo che l'ennesimo anno di gelo e dolore mi hanno scavato le ossa, ormai pericolosamente in rilievo sulla mia pelle.
Il lezzo della morte permea ormai ogni angolo dei miei vestiti, tanto rovinati e distrutti da risultare meri stracci imbrattati di fango.

I miei occhi sono puntati sul lurido soffitto della capanna fatta di legno e di foglie marce; non riesco a pensare ad altro se non alla disperazione che mi ricopre il cuore.
Il mio compagno, raggomitolato accanto a me, è immobile come se la morte se lo fosse improvvisamente portato via. Il suo respiro è la sola prova che è vivo, intrappolato in questa tortura che ancora osiamo denominare 'vita'.
«Ho fame.» commento, focalizzando la mia mente sullo stomaco che ormai ha smesso persino di brontolare, assuefatto all'idea di non ricevere nulla da quella supplica gorgogliante.
«Attaccati.» borbotta lui roco, colpendomi con un calcio per poi tirare lo straccio che doveva teoricamente fungere da coperta. Le viscere si attorcigliano non appena il puzzo del suo alito mi sfiora le narici; tanti brividi disgustati si arrampicano su per la mia ossea spina dorsale, regalandomi quella che è la parvenza di un'emozione.

Afferro frettolosamente la sua scia luminosa, stringendola gelosamente contro il petto per assaporarne appieno il sapore speziato.

Chiudo lentamente gli occhi lasciando che la preoccupazione, la vibrazione della ripugnanza si diffonda come tante onde concentriche nelle stanche cellule del mio corpo. Non vivo d'altro ormai; sono l'eco sbiadita di variegate emozioni.

«Papà, voglio andare a casa.» l'acuta vocetta di un bambino si diffonde con la stessa potenza di un cannone tra le quattro pareti mortalmente silenziose. Ricerco con lo sguardo il piccino e, inaspettatamente lo vedo seduto nella sua cuccetta, al fianco di una figura orrendamente magra.

Le sue mani, incrostate di sporcizia, sono avvinghiate attorno alle spalle dell'uomo in una pressante richiesta di aiuto. Dense lacrime scivolano sulle guance incavate del ragazzino mentre la sua voce si fa sempre più pedante, richiamando inutilmente la figura immobile del genitore.

La testa del signore ciondola avanti ed indietro ogni qual volta uno scossone percuote il corpo inerte steso su un fianco; il pianto infantile mi trapana i timpani in una melodia struggente molto simile a quella degli animali.

«Fatelo smettere.» tuona qualcuno da un indefinito angolo dell'oblunga baracca immersa nel buio.

Il mio cuore viene stretto nelle spire di un incredulo stupore; forse il trattamento che ci viene riservato dai nostri aguzzini vestiti neri ci ha davvero trasformati in bestie egoiste.

Ma io non darò loro la soddisfazione di vedermi digrignare i denti come un cane bavoso.

Io non striscerò nel fango come quei dannati soldati si aspettano.

«Ragazzo.» sussurro nell'oscurità muovendo appena la mia mano oltre il bordo della mia branda per richiamare la sua attenzione.

Un paio di occhi scavati da profondissime occhiaie bluastre si sollevarono in mia direzione, carichi di un dolore che avrebbero dovuto decretare illegale per un bambino tanto piccolo.

«Vieni qui a riposare con me.»

«Ma, mio papà..»

«Non disturbarlo, evidentemente è molto stanco e ha bisogno di dormire.» mento cercando di non tradire alcuna emozione che possa, in qualche modo, smascherare quella bugia al sapore di fiele.

Il bambino osserva il padre per un paio di lunghissimi istanti prima di appoggiare un bacio sulla sua tempia sudicia e sussurrargli qualche dolce parola all'orecchio, ormai

sordo a qualsiasi rumore del mondo.

Forse avrei dovuto dirgli che il suo papà non l'avrebbe più stretto tra le braccia; probabilmente avrei dovuto dirgli che era morto.

Eppure, in quel breve lasso di tempo, non trovai il coraggio di dar fiato alle mie provate corde vocali.

Il corpo del ragazzino era caldo rispetto al mio; ma lui sembrò non farci caso, desideroso di ricevere consolazione.

«Quand'è che andiamo a casa?» mi chiede, rimanendo ostinatamente confinato nel suo mondo di menzogne profumate di latte.

Il mio cuore si sbriciola per l'ennesima volta, spargendosi come polvere nel mio animo.

«Spero presto, piccolo.»

«Perché non dormi?»

«Non ho sonno. E tu?» fingo di nuovo.

Il mondo onirico mi terrorizza, ora che i sogni sono rifuggiti dalla mia mente come se avessi contratto una velenosa malattia infettiva.

«Senza il mio orsetto non riesco a prendere sonno.» rivela con un briciolo di imbarazzo per poi guardarsi le mani, scavate dai buchi del filo spinato.

«E come si chiama il tuo orsacchiotto?»

«Sole.» risponde immediatamente, appoggiando la testolina scheletrica contro la mia spalla in un muto cenno di tristezza.

“Sole”. Un nome troppo innocente per un mondo in cui il buio regna con il suo pugno di ferro; sono sicuro che la crudeltà abbia divorato anche quella fittizia scheggia di felicità.

«Pensa che il mio braccio sia il tuo peluche.» dico appoggiando la fronte contro i capelli unti e coperti di terriccio raggrumato.

«Il mio orsacchiotto profumava di lavanda.» commentò d'istinto il bambino, prima di aggrapparsi al mio omero con la forza della disperazione.

Quando sento che il suo respiro scivola nella regolarità cadenzata del sonno, lascio che un sospiro desolato si affacci tremolante sulle mie labbra spaccate.

Una sola lacrima incide l'angolo del mio viso, rotolandovi in un bacio tiepido e salato.

Non ricordavo l'ultima volta in cui avevo trovato la forza di piangere; pensavo sinceramente d'aver terminato quella preziosa riserva di dolore liquido.

Non torneremo a casa.” gridava quella singola stilla di acqua mentre tracciava il suo breve percorso lungo lo zigomo sporgente. “Non ritroverai mai più il sorriso di tuo padre a riscaldare le tue giornate; né tanto meno l'abbraccio confortante di Sole.”

L'angoscia di anni ed anni di silenzio brillava nei liquidi e sfaccettati colori di quella perla.
“Il mondo non è altro che una distesa di catrame; pronto a divorare quegli spiragli di luce che osano brillare. In tutto questo, noi non siamo altro che scheletri in attesa di essere inghiottiti dalle sue spire. Ecco la verità.”

I miei pensieri si perdono nella penombra, fagocitati dal silenzio consapevole dei tanti uomini che, cercando di sfuggire al dolore, si lanciano tra le braccia dei loro incubi più spaventosi. 

   
 
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