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Autore: Thingsthinker    28/01/2015    4 recensioni
Mina è fantastica, agli occhi di John. Ha un grosso cane che si chiama come uno dei Beatles e un papà che è arrivato per posta in un vasetto di plastica. Lei lo trascina nelle sue avventure e lui è felice, affascinato da lei.
Ma il tempo passa e le persone crescono, e anche Mina, e anche John.
Dal testo:
Oltre a non avere un padre, Mina Mollocet aveva un cane enorme, un Pastore del Bernese: una bestia gigantesca tutto pelo e neri occhi mansueti: questo riusciva a mettere in secondo piano la bizzarrìa del misterioso papà.
Forse per il minuscolo uomo nel vasetto di plastica, forse per la grande bestia pelosa, Mina Mollocet mi parve da quel momento - e per molto tempo ancora - il più grande prodigio della natura.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Diversi Futuri Presenti'
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 STRAORDINARIAMENTE ORDINARIO ≈

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L'AVVENTURA DI MINA MOLLOCET.


Quando con i miei genitori mi trasferii in Hallroad Street, la mia vita divenne interessante.
Perchè era Mina Mollocet, ad essere interessante.
Tanto per cominciare, Mina Mollocet non aveva un papà: questo la rendeva subito bizzarra, ai miei occhi di bambino di sette anni di una famiglia borghese pressocchè perfetta. Il papà di Mina era arrivato un giorno per posta in un vasetto di plastica, con tante istruzioni: lo mandava un centro di fecondazione artificiale.
Avevo sette anni e lì per lì non capii come potesse entrare un uomo intero in un vasetto di plastica, e soprattutto come da lui potesse nascere una bambina come Mina, che era più alta di me anche se aveva un anno in meno. 
Invece Mina, incredibilmente autoritaria in quel vestitino a fiori, sapeva tutto benissimo e conosceva già parole difficili, come "centro di fecondazione artificiale".
Quando lo raccontai ai miei genitori liquidarono brevemente la faccenda e cominciarono a guardare con curiosità la mamma di Mina, che era una signora grassottella che faceva la fioraia, di gran lunga più vecchia della mia. Ma presto cominciarono ad abbandonare quella loro diffidenza cortese: la mamma di Mina, come la figlia, aveva ricevuto dalla natura una simpatia accattivante, un'attrazione inspiegabile che ti portava a restare affascinato da tutto ciò che diceva o faceva, che si trattasse di piantare bulbi di tulipano o di litigare con il panettiere.
Oltre a non avere un padre, Mina Mollocet aveva un cane enorme, un Pastore del Bernese: una bestia gigantesca tutto pelo e neri occhi mansueti: questo riusciva a mettere in secondo piano la bizzarrìa del misterioso papà.
Forse per il minuscolo uomo nel vasetto di plastica, forse per la grande bestia pelosa, Mina Mollocet mi parve da quel momento - e per molto tempo ancora - il più grande prodigio della natura.

Mina compiva grandi imprese, e spesso e volentieri mi chiamava per accompagnarla. Aspettavo con ansia i momenti in cui la sua voce di bambina gridava "John, vieni, voglio fare un'avventura!", e poter correre verso di lei per accontentarla mi rendeva felice. 
Fu con lei che attraversai per la prima volta la strada da solo - era Hallroad Street, non Times Square, ma mi parve una cosa meravigliosa. Con lei feci il bagno nella piscina dei Gunthers, e con lei scappammo via tutti nudi quando Alfred Gunthers ci sorprese a schizzarci e chiamò i nostri genitori. 
A causa sua presi il primo schiaffo da mia madre - avevamo vestito Lennon, il cane, con i suoi vestiti migliori. 
Mina Mollocet, con la sua faccia furba e i suoi occhi tondi, mi trascinava nelle avventure più incredibili e io la seguivo, incantato da quella sua iperattività spericolata, da quel modo incredibile di essere Mina.
Non potevamo essere più diversi: lei si chiamava Mina, portava l'esotico nome di una cantante italiana, aveva un cane che si chiamava come uno dei Beatles e sua mamma faceva le migliori crostate del paese. Io ero solo e semplicemente John, avevo due genitori perfettamente normali - il che, comparato col suo padre in barattolo, mi sembrava una banalità inaudita -, e presto avrei avuto una sorella, un esserino che frignava e faceva cacca la maggior parte del tempo in cui non dormiva. 
La mia vita paragonata alla sua mi sembrava spenta. 

Quando nacque Lacey mi aiutò a tenerla in braccio, per fare in modo che non cadesse. E ricordo che desiderai di rimanere così per sempre, con una bambina di otto anni che mi aiutava a reggere una neonata, così da sentire il profumo di entrambe e sentirmi rassicurato. 
Poi, però, Mina vide i miei genitori insieme, felici, giovani, e scappò via.
La trovai piangente vicino un roseto. Mi disse che anche lei voleva una sorellina o un fratellino, e un papà, un papà vero, non uno in un barattolo. Gli dissi che potevamo fare finta che fossi suo fratello, l'idea mi piaceva. Ma rimaneva il problema del padre.
Ci pensai tutta la notte. 
La mattina mi svegliai presto, presi un calzino e un piccolo orsetto portachiavi e uscii in giardino. Riempii il calzino di terra secca e con degli elastici lo strinsi nei punti di giuntura di braccia, gambe e testa. Lo vestii con i vestiti dell'orsacchiotto e con un pennarello gli disegnai una faccia.
Corsi da Mina, sua madre mi fece entrare. La vidi che dormiva ancora, raggomitolata su se stessa nella sua stanzetta verde. La svegliai e le mostrai il pupazzo, dicendo che potevamo far finta che fosse il suo papà. 
Mi abbracciò così stretto che credetti di morire lì, ma l'idea non mi dispiacque.

Crescemmo e le nostre vite continuarono a scorrere parallele, incrociandosi sempre di meno. Io ero bravo a scuola, piacevo alle ragazze, ma spesso dovevo convincermi che la mia vita era bella. 
Perchè accanto a me viveva Mina Mollocet, che si inventava sempre qualcosa di nuovo: divenne ambientalista convinta a dodici anni, pacifista a tredici; a quattordici cominciò ad essere una sorta di hippie tardiva dallo stile indie, a quindici enunciava senza difficoltà citazioni di uomini rivoluzionari, persone all'apparenza incredibili che io non avevo mai sentito nominare. 
E io, io ero normale. Banalmente normale.
Cercava sempre di appassionarmi alle sue vicende, ai suoi progetti e alle sue battaglie: ma non mi ci vedevo, mi sentivo imbarazzato, non volevo affidarmi a lei per rimanere fedele a me stesso. 
Così ci allontanammo, quasi senza accorgercene. Ci incontravamo alle feste di amici comuni e ci ritrovavamo, ci toglievamo le parole di bocca l'un l'altro, ansiosi di parlare, ansiosi di riconoscerci, come vivessimo ai poli opposti del mondo: in realtà, ciò che ci divideva era una siepe di biancospino.

E poi venne il giorno.
Venne il giorno in cui Mina Mollocet mi disse di essere innamorata di me.
Me lo disse ridendo, mentre ci passavamo una canna nella sua soffitta ingombra di quadri e strani oggetti antichi. Mi disse che se non fossi stato così straordinariamente ordinario, forse avrebbe provato a farmi innamorare.
Io non ero innamorato di Mina, ne ero quasi sicuro. Non era bella. Emanava un fascino segreto, piaceva a molti ragazzi e li capivo: il suo carattere e le sue passioni la vestivano di una luce incredibile, irresistibile. 
Nella mansarda in penombra si sedette di fronte a me e mi fissò con i suoi occhi verdi tondi. Lame di luce screziavano di biondo i corti capelli castani. Lasciò uscire il fumo dall'odore pungente dalle labbra piene, e mi sembrò che le lentiggini sulle sue guance ondeggiassero. Mi sorrise con il suo sorriso sghembo.
- Hai mai fatto l'amore con una ragazza, John? -
Scossi la testa. Non sapevo dire le bugie, non l'avevo mai saputo fare, e Mina lo sapeva.
- Ti piacerebbe farlo con me? -
Fu una domanda semplice, come se mi stesse chiedendo di fare una partita a scacchi. Non seppi mai se l'idea le venne lì o se ci avesse pensato, non seppi mai se le fosse riuscito difficile pronunciare quelle parole. 
Quel che è certo, è che io sapevo. Sapevo da sempre che lei sarebbe stata la mia prima volta. Lo era stata per tante altre cose. Era quasi una certezza. 
Annuii.
E allora lei sorrise, socchiuse gli occhi, e si avvicinò. Mi soffiò sulle labbra la sua frase infantile, quella che per me era un richiamo, quella che a sette anni mi scaldava il cuore.
- Vieni, John, voglio fare un'avventura. - 

Non la rividi prima di dieci anni. Il giorno seguente scappò per cercare suo padre. Aveva trovato i moduli della fecondazione artificiale con alcuni dati, aveva fatto delle ricerche e aveva la valigia pronta sotto il letto. 
Era già tutto pronto, il tassello che mancava ero io. Doveva lasciarmi un saluto speciale. Non lasciò biglietti: semplicemente, scomparve.
Sua madre pianse un po', poi cominciò a vivere nella speranza del suo ritorno. 
Lo feci anch'io.

Quando tornò aveva ventisette anni, un bimbo per mano e uno nella pancia. Io ero sposato e avevo una bambina di pochi mesi. 
Quando chiesi al piccolo come si chiamava, nel linguaggio fiero di un bambino di tre anni mi comunicò che si chiamava "John, come l'Amico di mamma, quello con la A maiuscola".




 


Grazie per non essere morti di noia durante il racconto.
Eccomi con due nuovi personaggi molto diversi (John è un po' superficiale, Mina un po' sbruffona),
assolutamente imperfetti come piacciono a me :)
E niente, se vi va ditemi che ne pensate.
Un bacio,
Lee
  
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