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Autore: superpoltix    28/01/2015    1 recensioni
Andrea Libero sogna di fare la scrittrice. Anche Federico Allegri lo sogna. E cosa c'è di meglio di superare un blocco dello scrittore insieme?
"-Ehi Fede! Guarda qui!- chiamai, tirando il mio amico per un braccio.
Lui scattò su come una molla e guardò il computer. -Uh? Cos'è?- strizzò gli occhi per leggere meglio. Quella testa di carciofo non si era di nuovo messa gli occhiali.
-”Vuoi scrivere un libro ma non hai ispirazione? Clicca qui per scoprire come vincere il blocco dello scrittore!”- lessi. Poi guardai Federico. -Secondo te è un virus?-
Non rispose subito. -Ce l'hai un antivirus?-
-Sì.-
-E allora clicca.-
[...]
-Ora qualcuno mi spiega cosa sta succedendo.-
-Non lo so...- si guardò intorno sconcertato. Poi mi si avvicinò e mi sfiorò il braccio con la mano. -Dì, sei sicura che non fosse un virus?-"
Genere: Avventura, Comico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Riaprii gli occhi lentamente, impaurita da ciò che avrei potuto trovarmi davanti. La prima cosa che vidi, furono le acque spumeggianti e selvagge del fiume sotto di me. Con un riflesso involontario mi strinsi ancora di più alle assi di legno del ponte, facendomi scricchiolare tutte le giunture. Mi sentivo i muscoli completamente irrigiditi e doloranti, e avevo la spiacevole senzazione di avere una mucca infilzata nello stomaco. Emisi un sospiro tremante, cercando di mettermi in una posizione in cui l'asse a cui ero appoggiata non tentasse di bucarmi lo sterno, con scarsi risultati. Mi ritrovai di nuovo a fissare le rapide, questa volta però con maggiore disappunto e meno timore. Ero bloccata.
Bene, adesso, dato che probabilmente vi starete tutti chiedendo come cavolo facevo ad essere ancora tutta intera e come fossi finita in quella scomoda situazione, vi riassumerò in breve la mia fantastica disavventura. Sicuramente ricorderete tutti il mio epico salto della portata di un criceto. Dopo aver mancato di brutto la mano che Federico mi aveva porto per aiutarmi, caddi inesorabilmente verso il basso. Fortunatamente, o sfortunatamente, una parte della parete era più sporgente del resto, perciò quando ci passai accanto ci i sbattei una bella zuccata contro. E incredibilmente, fu proprio quella testata a salvarmi la vita: infatti subito dopo aver dato il colpo, avevo istintivamente spintonato la roccia per allontanarmi dal corpo estraneo su cui ero andata a sbattere, e così facendo mi ero riavvicinata al ponte che nel frattempo stava crollando. È bizzarro, ma proprio quel momento in cui tutto è avvenuto così in fretta, è l'attimo che mi sembra più lungo e che riesco a ricordare meglio. Come in una scena al rallentatore, mi ero vista passare di fianco una delle corde del ponte e senza pensarci due volte mi ero aggrappata ad essa con tutte le mie forze e avevo chiuso agli occhi. Siete mai andati su un otto volante? Immaginatevi di andarci senza protezione e niente che possa proteggervi dal precipitare. Quella fu esattamente la stessa sensazione che provai mentre giocavo a fare Tarzan con un ponte striminzito al posto delle liane. Subito dopo, avevo sbattuto un'altra testata dell'accidenti (e sempre nello stesso dannatissimo punto) contro l'altro lato del dirupo. Ancora mezza stordita dalla duplice zuccata, avevo cercato di arrampicarmi verso l'altro e ritornare con i piedi per terra il più in fretta possibile, ma sia per la troppa paura e agitazione, sia perchè avevo i muscoli delle braccia a pezzi, dopo aver scalato due o tre assi, avevo messo un piede in fallo e il legno aveva ceduto, facendomi cadere di pancia sull'asse precedente, senza lasciarmi possibilità di raddrizzarmi. Ed in quella posizione mi trovavo ancora.
Fissai ancora le rapide al di sotto di me, sconfortata. Quanto avrei voluto essere a casa mia, al calduccio, in mezzo alle millanta e passa scartoffie di Federico e compiti di matematica e fisica. Chiusi gli occhi, cercando di immaginarmi mia madre entrare di colpo in camera mia sbattendo la porta e lamentarsi perché non avevo risposto alle sue chiamate al cellulare. Dannazione, nonostante facessi sempre di tutto per non farmela stare appiccicata addosso, mi mancava. Strinsi forte gli occhi, vietando a me stessa di piangere. Con un sospiro, tornai a guardare il ponte e lo scalino mancante che mi aveva messa in quella orrenda situazione. Portai una mano sotto il diaframma, digrignando i denti per il dolore generato dallo sfregamento tra il mio braccio irritato dalle spine velenose e il legno grezzo e scheggiato dell'asse del ponte. Rimasi ferma per un attimo, poi mi sollevai lentamente e penosamente sul braccio, in modo da portare un ginocchio tra la mia pancia e l'asse. Ansimai, con i muscoli ancora tesi e tremanti dallo sforzo. Contai fino a sette e ripetei la stessa operazione con l'altro ginocchio, e infine, mi tirai sù, reggendomi alle due corde ai lati e cercando di non traballare troppo sui miei piedi. Restai di nuovo immobile per un'altra manciata di secondi, per riprendere fiato e attenuare il dolore a... tutto. Allungai una mano e cercai di afferrare il successivo asse, scervellandomi come avrei potuto raggiungerlo. Casualmente, il pensiero corse a mio padre, che adorava arrampicarsi e fare tutte quelle cose pericolose che mettono tanto in pensiero le madri, e da lì nacque la mia idea. Mi girai verso la parete e ne studiai rapidamente la superfice. Non era completamente liscia, ma aveva numerose rientranze e sporgenze, utili per arrampicarsi. Mi aggrappai con entrambe le mani alla corda alla mia destra e dopo aver recitato un rapito Padre nostro che sei nei cieli, sollevai i piedi e li puntellai contro la roccia. Le braccia iniziarono subito a protestare e a minacciare di rivoltarmisi contro, ma strinsi i denti e cominciai a camminare sulla parete, portando avanti una mano alla volta ad ogni passo. Fu come un miraggio toccare l'asse successivo e riuscire ad arrampicarmici sopra. Tirai un sospiro di sollievo. Grazie al Cielo. Alzai lo sguardo. Ora me ne mancavano solo altri trecentoventi.
Numerose imprecazioni e stiramenti muscolari dopo, finalmente toccai la terra con una mano. Sospirai, completamente sfinita e dolorante. Con un ultimo sforzo di volontà riuscii a trascinarmi sul bordo del dirupo. Mi girai sulla schiena e mi lasciai sfuggire un lamento, restando a fissare immobile il cielo azzurro. Mai quella vista mi sembrò tanto rilassante e piacevole. Chiusi gli occhi per assaporare meglio il momento, e senza nemmeno sapere bene perché, scoppiai a ridere. Era troppo bello per restare in silenzio. Accarezzai la terra sotto le mie dita e ci appoggiai una guancia. Era piacevolmente tiepida, solida e rassicurante. L'aria non era umida come nella foresta e il sole mi sembrava quasi volermi riscaldare l'anima. Trassi un respiro profondo. Poi, come un pugno nello stomaco, arrivò lui. Il ricordo di Federico. Di Fidia. Quel dolce torpore che avevo dentro sparì immediatamente, lasciando un vuoto disorientante e un freddo gelido. Ero da sola. Mi alzai sulle ginocchia, stringendo i denti quando la mia pelle irritata strisciò contro la terra, e scrutai l'altra parte del canyon. Niente. Socchiusi di occhi. Provai a schermarmi dal sole con una mano. Feci scorrere lo sguardo a destra e sinistra. Assolutamente nulla. Fui presa dal panico. Non c'è niente che mi faccia più paura del ritrovarmi da sola (e degli aghi, delle farfalle, delle galline, dei conigli, delle... okay, basta.). Restai ancora qualche secondo a guardare fisso davanti a me, come troppo spaventata per ragionare. Lo chiamai diverse volte. Provai anche a chiamare Fidia. Inutilmente. Mi tormentai il labbro inferiore con i denti, tremando appena con le gambe. Cercai di ragionare. Magari non avendomi vista afferrare le corde del ponte, avrebbero potuto ipotizzare che fossi caduta in acqua e quindi si fossero diretti verso la direzione della corrente. E forse non riuscivo a vederli perché erano o troppo lontani o si erano addentrati in quella terra sconosciuta. Cercai di non pensare alla quantità di mostri che Federico si sarebbe portato dietro e che avrebbe potuto ucciderli. Sempre che non l'avessero già fatto. Ops, ci avevo appena pensato.
Cercai di scacciare il pessimismo dalla mia mente e mi ripetei che dovevano aver seguito il fiume. Sì, non c'era altra spiegazione. Raccolsi quel po' di coraggio (se lo si può definire tale) che mi rimaneva e mi misi in cammino, tenendo bene d'occhio sia la foresta alla mia destra, da cui potevano spuntare altri personaggi delle mie storie, sia l'altra parte del canyon, per avvistare eventuali tracce dei miei amici. Ogni tanto mi sporgevo dal bordo del dirupo per guardare il fiume, ripensando a quanto ero stata fortunata a non finirci dentro. Tutti di anni di corsi di nuoto e le estati al mare non mi avrebbero certamente salvata da quelle rapide infernali e massi e detriti che spuntavano pericolosamente qua e là dall'acqua. Mentre camminavo, i miei pensieri corsero in fine anche al lupo a due teste. Era morto o era ancora vivo? E se era morto, come aveva fatto? Se era un personaggio inventato dalla testa di Fede, probabilmente sarebbe morto in una maniera che il mio amico aveva immaginato per lui, ma non mi risultava che avesse mai elaborato una morte per quel mostro. Oppure, dato che ormai non era più solo nella sua testa ma anche reale, seguiva le normali leggi della natura? Nonostante il lupo fosse un animale forte e imponente, avevo i miei dubbi che fosse riuscito a sopravvivere al fiume. Ma tutto sommato non era un lupo normale, e per quanto ne sapessi, i lupi sapevano nuotare. Un lieve disagio si aggiunse alla brutta sensazione di solitudine che avevo addosso. Non avevo nessunissima voglia di ritrovare quel bestione, soprattutto ora che ero sola e con tutti i muscoli a pezzi, ma c'era una piccola vocina lontana, che dal profondo abisso della mia testa vuota mi diceva “C'è ancora. Lo incontrerai. Lo sai. Stai andando da lui.”. Lo so, non era affatto incoraggiante. Ma riflettendo bene aveva un senso: stavo seguendo la corrente, perciò se il lupo era stato trascinato via dall'acqua l'avrei trovato di sicuro prima o poi. Improvvisamente non avevo più molta voglia di camminare. Abbattuta, mi sedetti sul terreno, a fissare l'altro lato del canyon. Come avrei potuto raggiungerlo? Non avevo alcuna certezza che continuando ad andare avanti ci fosse un modo per passare il fiume. E anche se ci fosse stato, chi mi assicurava che sarei riuscita a raggiungerlo? O che anche loro ci sarebbero riusciti? Mi raggomitolai a pallina, abbracciandomi le ginocchia. Ero stanca. Mi facevano male i graffi e le spine che avevo ancora conficcate qua e là nelle braccia, in punti che non riuscivo a raggiungere. E avevo fame e sete. E mi sentivo terribilmente persa e sola. Come avrei voluto avere qualcuno vicino a me, non importava chi, a farmi compagniae a darmi un po' di conforto. Ma invece no. Ero da sola.
-Forza Andrea- borbottai -smettila con questi pensieri. Non sei con Federico da nemmeno un giorno e sei già così abbattuta? Forza, maledizione, alzati in piedi e cammina. Ti fa male stare ferma, perchè ti aiuta a pensare. E pensare ora non ti aiuterà. Devi agire.-
Mi tirai su a fatica, con le gambe che protestavano. -Brava. E ora cammina. Coraggio, cammini da quattordici anni, non sarà qualche passo in più a ucciderti.-
Le gambe si misero in moto da sole, e presto mi accorsi che, per qualche strano motivo a me sconosciuto, più mi muovevo, meno mi facevano male. Per scacciare la solitudine e i pensieri pessimisti, iniziai a canticchiare una canzoncina sui pirati che mi avevano insegnato all'asilo. Era composta da una sola strofa, che si continuava a ripetere ma in cui ogni volta si toglieva una parola, che si doveva quindi mimare. Sì, forse non era la canzone più intelligente del mondo, ma era un buon modo per tenere occupato il cervello.
Presto però, la fame e la sete iniziarono a farsi sentire con maggiore intensità, e seppur di malavoglia, mi addentrai nella foresta alla ricerca di qualcosa da mangiare, o magari di un Autogrill (non che mi mancasse, ma a mali estremi...).
Non appena varcai il confine degli alberi, fui assalita da un caldo umido asfissiante, e le radici contorte degli alberi non persero tempo e iniziarono subito a farmi lo sgambetto. Come mi era mancata la foresta. Per fortuna che in quella zona c'erano solo alberi, senza quell'orribile melma della volta prima.
Presi a canticchiare la famosa filastroccha delle scimmiette che saltavano sul letto, per scacciare il pensiero che addentrandomi sempre di più nel folto della foresta, mi sarei potuta perdere e restare intrappolata in quel posto per svariati giorni.
Ero arrivata a non più di cinquanta scimmiette, che sentii come un frusciare di foglie alla mia destra. Mi fermai e mi voltai in quella direzione ma non vidi niente. Turbata, afrettai il passo per andarmene da lì il più presto possibile, continuando a canticchiare nella mia testa. Da quel momento feci sempre più attenzione ai rumori che sentivo, e mi accorsi che la foresta pullulava di una gran quantità di strani suoni, che andavano ben al di là del fruscio delle foglie. Dei rami schioccarono improvvisamente e mi caddero davanti senza nessun motivo apparente. I rami oscillavano senza che ci fosse vento, e il ruomore prodotto sembrava quello di un bisbiglio di parole a me ignote. Mi sentivo osservata, come se ogni albero mi stesse guardando con occhi ostili e invisibili. Fui tentata di tornare indietro, ma quando mi girai per andarmene, vidi che gli alberi non erano più nella posizione che avevano quando li avevo sorpassati. Stupita e spaventata, mi guardai intorno, e nessun albero era nella posizione che ricordavo. Grande. Mi ero persa in una foresta di alberi che si muovevano. Un leggero venticello s'intrufolò tra le foglie, che emisero un rumore simile a una risata.
-Credete sia divertente? Beh, non lo è affatto invece.- esclamai. Feci un passo avanti, ma una radice in agguato mi fece ruzzolare per terra. Gli alberi ridacchiarono ancora, mentre io mi rialzavo, offesa e indispettita. Insomma, ero appena stata burlata da un albero! -Va bene- borbottai, guardandomi intorno -qualche altra cosa?- Una cascata di foglie secche mi volò inspiegabilmente addosso, infilandosi sotto i vestiti, tra i capelli e in bocca. Come avrei voluto non aver mai detto quella frase. Sputacchiai un paio di aghi di pino e mi passai una mano tra i capelli, scrollandoli, mentre con l'altra mi toglievo le foglie da sotto la maglie. -D'accordo, questo me lo andata a cercare.- Gli alberi frusciarono un assenso divertito. Per quanto mi sentissi stupida a parlare con degli alberi, non riuscii a fare a meno di smettere. In fondo era anche quella una forma di compagnia. -Mi chiamo Andrea Libero- mi presentai, con un leggero inchino della testa e del busto. Gli alberi furono scossi da una lieve brezza, che li piegò in avanti come se stessero ricambiando il saluto con un abbozzo di inchino. -Sto cercando un posto dove mangiare e bere. Sono un sacco stanca. Avete mica visto un Autog...- i rami schioccarono in maniera minacciosa e uno di essi mi sfiorò di poco nella sua caduta. Va bene, forse non amavano di Autogrill. Beh, neanch'io del resto. Non avevo voglia di lottare ancora contro quelle orribili trappole diaboliche, e da sola pergiunta. -Non vi pacciono? Okay, okay, allora non ne parleremo più. Che ne dite invece di portarmi a un bel ruscelletto tranquillo? Ce ne sarà ben uno qua in giro- dissi, con tono ragionevole e conciliante. Le piante parvero apprezzare questa nuova idea, e si scossero in una maniera compiaciuta. -Sapete indicarmi la strada? Intanto potrei raccontarvi cosa mi è successo o canticchiarvi qualcosa se vi va.- Di nuovo di alberi furono contenti della proposta, e, incredibile ma vero, si spostarono in modo da aprirmi un sentiero sgombro di impicci fadstidiosi e indicarmi la direzione che dovevo seguire. Felicemente sorpresa, mi avviai per quel cammino con un buon passo, e iniziano a raccontare tutte le mie avventure sin dal mio arrivo nella foresta melmosa. Ovviamente esageravo molti fatti, rendendoli più divertenti e stravaganti, in modo da attirare meglio l'attenzione e da coinvolgerli nella storia. E non credereste mai a quando un albero possa essere un buon ascoltatore ed espressivo. Nelle parti più comiche ridacchiavano e agitavano le foglie, in quelle più tese restavano tutti muti e immobili, ogni tanto facendo scricchiolare piano qualche ramo per la tensione. Quando arrivai alla parte della separazione tra me e i miei amici, si dimostrarono anche incredibilmente comprensivi e compassionevoli, dandomi affettuose carezze con le loro foglie più tenere e i loro ramoscelli più giovani. Credo che da quel momento in avanti non avrei mai più visto un albero come un sempre essere vegetale utile solo a fare un po' di ombra e fresco d'estate. Quelli intorno a me erano esseri vivi, capaci di pensare, parlare (a loro modo) e provare emozioni, erano dotati di un animo socievole, gentile e scherzoso, e ognuno possedeva una personalità propria e ben distinta dagli altri. C'era chi al descrivere il mio incontro con l'Autogrill aveva sibilato infastidito alla parola, mentre altri si mostravano più tolleranti, sebbeno era chiaro che non la gradissero. Ma quando ero andata avanti dicendo in maniera più divertente possibile come lo avevamo affrontato, si erano messi tutti a ridere, e tutti in modo diverso. Chi frusciava forte le foglie, chi schioccava i rami, chi oscillava pericolosamente avanti e indietro, ridendosela alla grande. Invece nella parte più malinconica c'era chi si cuommoveva di più, facendo oscillare mollemente i rami, carezzandomi le spalle, e chi meno, limitandosi ad ascolatare in silenzio, seppur non restando indifferente. Insomma, in quella foresta che tanto avevo temuto ad entrare, ora avrei dato di tutto per non uscire. Una volta che ebbi finito il mio racconto, loro mi incitarono a cantare qualcosa, punzecchiandomi piano con i rami. Io attaccai una canzoncina in inglese, tratta da “Il Signore degli Anelli”, chiamata The road goes ever ever on. LA trovai molto azzeccata dalla situazione, dal momento che parlava di una strada che si deve seguire, senza sapere né per dove passi, né dove conduca. Il motivetto non era complicato, e sembrava fatto proprio per le camminate, composto da due strofe che si alternavano per circa due volte e mezzo (si iniziava con la prima e si finiva con la prima). Gli alberi sembrarono gradirla, e muovevano le loro folte chiome a ritmo, accompagnandomi in sottofondo con vari fruscii e schiocchi di rami. Piano piano sembrarono anche iniziare a pronunciare alcuni sprazzi di parole, ma non riuscii a capire se lo stavano facendo davvero o era sono la mia immaginazione. Dopo quella cantai “Voglio diventar presto un re” del Re Leone, gasandomi un sacco tra l'altro, e deliziando gli alberi con i miei cambi di intonazione e voce a seconda del personaggio che impersonavo e recitando anche i loro movimenti e le loro espressioni. Le piante non poterono fare a meno di ridere quando impersonai Zazu, e mi accompagnarono di buon grado musicando il mio assolo come solo degli alberi sanno fare. Con qualche difficoltà riuscii ad insegnare loro il ritmo giusto e la musica, creando un'orchestra forestale strana ma ben organizzata e armonizzata, e ormai esaltata dal mio lavoro, dimenticando il male ai piedi e la crescente sete, mi lanciai in un'improbabile danza, divertendo oltremondo i miei nuovi compagni vegetali. Questi risero di buon gusto, e una giovane betulla che mi aveva preso particolarmente in simpatia mi picchiettò la spalla per indicarmi di voler ballare con me. Vinto lo stupore iniziale, accettai volentieri, e afferrati due rami cominciai a scuoterli un po' avanti e un po' indietro, saltellando sul posto, poi li lasciai e trotterellai intorno all'albero, muovendomi in maniera buffa e un po' impacciata. Quello continuò a muovere i suoi rami e a dondolarsi a destra e a sinistra, imitando anche fin troppo bene (per essere una pianta) tutti i miei movimenti sconclusionati, e donandoci anche un tocco di eleganza. Alla fine della canzone, tutta la foresta scoppiò in un applauso e in una fragorosa risata, dandoci una buona dose di pacche amichevoli sulla schiena (o nel caso della betulla, sui rami e sul tronco). Io mi ci appoggiai con una mano, sfinita e col fiatone. -Ragazzi- dissi, asciugandomi il sudore dalla fronte e dal naso -questa è stata senza dubbio la cosa più strana che io abbia mai fatto. E se lo dico io- e sottolineai bene quel “io” -è davvero strana.- Gli alberi ridacchiarono, mentre la betulla mi diede una pacca sulla spalla e mi aiutò a raddrizzarmi, dato tutta la stanchezza e i dolori del giorno mi stavano tornado addosso dopo tutto quel movimento, e la sete era aumentata a dismisura. -Ah, ragazzi- continuai -ditemi che manca poco al ruscello, perché sono stanca morta.- Quelli in risposta aprirono un varco alla mia sinistra, rivelando un piccolo fiumiciattolo che scorreva tutto allegro tra di alberi, circondato da un breve tratto di erbetta verde acceso altra pochi centimetri. Tutta contenta, zampettai fino a lui e mi chiani per bere. L'acqua era freschissima e pura, con un ottimo sapore di acqua (perchè l'acqua può essere buona quanto vuoi, ma tanto sa sempre di acqua). Quando ebbi finito di dissetarmi mi sciacquai la faccia, per togliermi il sudore e lo sporco di quel giorno. Poi, finalmente soddisfatta e esausta, mi sdraiai ai piedi d'un grosso faggio, con la schiena appoggiata al suo tronco. Per quel giorno sarei rimasta senza mangiare, ma pazienza. Almeno avevo una fonte inesauribile d'acqua e un nuovo gruppo di amici. I miei pensieri corsero di nuovo agli altri miei amici. Chissà se anche loro erano stati altrettanto fortunati. La malinconia mi afferrò di nuovo, e mi accoccolai meglio tra le radici dell'albero, che, come accorgendosi del mio stato d'animo, le sistemò in modo tale da crearmi uno spazietto comodo per riposare. Mi lasciai andare a un sospiro e gli sorrisi. -Grazie mille- dissi -a tutti voi. Probabilmente senza il vostro aiuto sarei ancora dispersa chissà dove.- Gli alberi frusciarono un prego. -Sarà tardi ormai- commentai, con un grosso sbadiglio. Ancora una volta, loro frusciarono un assenso. -Beh, non so voi, ma io sono stanchissima. Credo proprio che dormirò un po'...- biascicai, chiudendo gli occhi. Credevo che non sarei mai riuscita ad addormentarmi, invece successe molto prima di quanto mi aspettassi, con mio sommo piacere. Lentamente i miei pensieri diventarono sempre più confusi, e ripercorsero in disordine tutti di avvenimenti della giornata. Poi, si sfocarono, fino a far diventare tutto nero. Da quel profondo nero, sentii come una canzoncina, lenta e tranquilla, cantata con la voce delle foglie e dei rami. I miei nuovi amici stavano cantando una versione ninna nanna di The road goes ever ever on.

  
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