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Autore: Francine    29/01/2015    8 recensioni
Trema di Yggdrasill,
il frassino eretto,
geme l'antico albero,
lo jǫtunn è libero.
Tutti temono
sulla strada degli inferi,
che la stirpe di Surtr
li inghiotta.

(LJÓÐA EDDA - VǪLUSPÁ, La Profezia della Veggente, v 47)
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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12.

 

 

 

Le guglie della chiesa di Saint Jean-Baptiste si stagliano aguzze contro il cielo come a voler punzecchiare le chiappe delle nuvole. Nuvole grigie, livide e cariche di pioggia che si ammassano minacciose sui tetti e non hanno alcuna intenzione di passare oltre e regalare a Belleville una giornata soleggiata. Anzi.
Rémy ha altri pensieri in testa, stamattina, molto più cupi e neri e pesanti delle nuvole o del cielo d’acciaio. Sfila davanti alla chiesa – il segno della croce che parte in automatico – e svolta poco più avanti, per una stradina stretta e tortuosa. La percorre in silenzio, mentre la città si deve ancora svegliare, le mani nelle tasche, un berretto in testa ed il bavero del cappotto sollevato. Maman Louise è già alla finestra, collo scialle sulle spalle e il suo sorriso sdentato. E il bocchino di bachelite grigia stretto tra le dita.
«Ti stavo aspettando!», gli dice – gli grida – la voce grassa di fumo che rimbalza sulle facciate dei palazzi e i fiori esposti in cerca di un raggio di sole. «Sali, la colazione è pronta.»
Rémy imbocca il portone di legno verde scuro ed entra. Attraversa il cortile deserto. Un soriano incrocia la sua strada, la coda ritta a pennacchio. Salgono assieme le scale di marmo scivoloso, si fermano al secondo piano e Rémy suona il campanello, mentre il gatto gli si struscia sul fondo dei calzoni.
«Entra, ragazzo», gli dice maman Louise in una cacofonia di pendagli che le tintinnano dai polsi. Lo precede in cucina ciabattando, avvolta nella sua vestaglia a fiori che sembra quasi il tendone di un circo. Rémy si chiude la porta alle spalle e la segue. Il gatto gli trotterella accanto e poi va ad infilarsi nella cesta dei giornali, accanto alla stufa.
«Croissant, caffè, burro, latte caldo e zucchero», dice maman Louise, indicandoglieli uno per uno sul tavolo, sopra una tovaglia azzurra che ha visto tempi migliori. «Dovrebbe esserci anche del pane nel sacchetto. Niente crêpe. Ho dimenticato di comprare le uova. Che testa, eh? Dai, che si raffredda. Siediti e mangia, su!»
«Maman…»
«
Zut zut», dice la donna. Scacciando le rimostranze di Rémy assieme ad uno nuvola di fumo. «Maman Louise sa sempre tutto, ricordi?»
«Ho lo stomaco chiuso, maman…»
«Mangia, Rémy. Mangia.» Gli indica la sedia. Lei si rimette alla finestra, e se non avesse un età indefinibile, Rémy la paragonerebbe a Raperonzolo che sta per calare le trecce al suo principe. Una Raperonzolo in sovrappeso, grandi cerchi d’oro alle orecchie e qualche spruzzata di nero nella chioma grigia. «Parleremo dopo. A pancia piena il mondo appare meno triste.»
E Rémy ubbidisce. Scosta la sedia, si accomoda e afferra un croissant ancora caldo. «Buon appetito», mormora. Scoprendo che il suo stomaco no, non è poi così chiuso come credeva fosse.
Alla finestra, maman Louise fuma la sua sigaretta osservando le case di Belleville sbadigliare e stropicciarsi gli occhi assonnati.

 

«Io non vengo»
La voce di acciaio inossidabile, lo sguardo che non ammetteva repliche, Ikki aveva detto quelle tre parole fermo al centro della stanza. Saori non era riuscita a guardarlo in viso. Non ce l’aveva fatta. Aveva sentito anche lei la fiamma vitale di Shun svanire, spegnendosi a poco a poco come la candela abbandonata a se stessa. E aveva temuto il peggio.
«Non andare da solo, almeno», riuscì a dire – ad implorare? – al Santo della Fenice. «Non voglio…», perdere anche te, ma la voce di Athena le suggerì di non dare fiato e corpo a quel pensiero. Il cosmo di Shun era sparito, ma questo non significava che fosse per forza caduto, giusto?

C’è sempre speranza, Saori, le ricordò la voce di Athena, sussurrandole nel cuore sibillina e melliflua. Dovresti saperlo meglio di chiunque altro.

«No, vado da solo», replicò Ikki. «Gli altri mi rallenterebbero.»
«Non mi sembra prudente», e lo sguardo della Fenice divenne incendio liquido. Lo Scorpione non vi badò. «Se dovesse succedere qualcosa anche a te?»
«A me?!», replicò Ikki a muso duro, ma Milo non perse il suo aplomb.
«A te, sì.» Lo Scorpione piegò la testa da un lato. «Poi che faremmo? Manderemmo un altro Santo, e poi un altro e poi un altro ancora, fino a finirli tutti?»
«Vengo io con te», e Shiryu avanzò di un passo.
«Ha ragione Milo. In due vi coprirete le spalle a vicenda. Non ci hai pensato?», gli chiese Seiya.
Sì, Ikki sapeva che era più prudente avere dei rinforzi, ma non voleva mettere nessun altro nei guai. Hyoga era sparito. Shun era sparito. E ad Ikki tremavano i polsi alla sola idea che un altro dei suoi fratelli potesse essere inghiottito dal nulla. C’era qualcosa, lassù. Qualcosa di poco chiaro stava accadendo in Siberia ed il suo sesto senso gli gridava che non era nulla di piacevole. Affatto. Ma Ikki sentiva che era sua precisa responsabilità risolvere la questione. Qualunque essa fosse. E doveva farlo contando sulle sue sole forze. Non è così che agiscono i fratelli maggiori?
«Non dirmi che la Fenice è così orgogliosa da non ammettere di aver bisogno di una mano…»
Gemini aveva parlato fissandosi le unghie. Accanto a lei, Jabu trasalì. E la guardò con la coda dell’occhio, pronto ad intercettare Ikki. Nella mente dell’Unicorno, Ikki si sarebbe lanciato contro di lei con la stessa foga e la stessa velocità di una locomotiva impazzita. E una rissa era l’ultima cosa di cui avessero bisogno.
Ikki reagì.
«Cosa hai detto?!», le chiese, a muso duro, il tono di voce del vulcano che sta per scagliare le sue ceneri e i suoi lapilli verso il cielo.
«Non dirmi che la Fenice…»
«Basta così!»
Saori – Athena – zittì entrambi, lo sguardo severo della madre che riprende i suoi figli per l’ultima volta prima di passare ai fatti. «Idra, Lupo. Accompagnerete la Fenice nella sua missione di recupero. Gli altri verranno con me al Santuario.»
Ikki fece per replicare, per spiegare le sue ragioni quando Tatsumi bussò alla porta e si affacciò nella stanza.
«Volevo avvertirla che il jet è pronto al decollo, signorina.»
«C’è stato un cambio di programma, Tatsumi», rispose Saori continuando a fissare ora Ikki ora Gemini. «Abbiamo bisogno di un altro jet.»

La luce delle candele balugina sul volto di maman Louise. Rémy si chiede da quanto tempo sapesse del suo arrivo. E se la preoccupazione che intravede nella ragnatela di rughe che le circonda gli occhi abbia qualcosa a che fare con la sua situazione. Coi suoi crucci.
«Non sei il centro del mondo, bambino mio», gli dice la donna mescolando il mazzo dei tarocchi. «E se ti stai chiedendo cosa ne so, ce l’hai scritto in faccia, tesoro. Adesso, vuoi fare un bel respiro profondo e lasciar uscire tutta quella merda che hai nel cuore?»
Rémy storna lo sguardo. Incrocia la fotografia di Coralie, la sorella di maman Louise, uno di quei formati boudoir in voga agli inizi del secolo. Era bella, Coralie. In quella foto ha vent’anni, l’aria spensierata di chi ha tutta la vita davanti ed un mazzetto di verbene sulla spalla. Ed una posa un po’ leziosa, a dirla tutta, ma Rémy non ci bada. Non chiede a maman da quanto tempo è che non si sentono. Per non deconcentrarla, certo. E perché Rémy ha bisogno che uno dei due sia lucido, in questo momento. E non è lui quello che posa le carte sul tavolo e ordina: «Taglia. Con la mano sinistra. E niente gambe incrociate.».
Rémy ubbidisce.
Maman Louise riprende il mazzo e volta le carte una ad una, disponendole a croce davanti a sé.
«Non mi chiedi…»
«No», risponde lei. Secca. «Prima vediamo le cose serie, e poi le stronzate.»
Posa il mazzo ed osserva le dieci carte davanti a sé. Increspa le labbra, il rossetto rosso scuro onnipresente, e tambureggia con le unghie sul tavolo.
«La Torre. È incazzata, bambino mio. Tu hai fatto il tuo dovere. E lei lo sa.»
«Favoloso!», ribatte Rèmy, dando una manata sul tavolo. La fiamma delle candele traballa. Maman Louise gli lancia un’occhiataccia. «E allora me lo dici perché se n’è andata?!»
«Perché? Tesoro mio, non dirmi che hai fatto tutta questa strada solo per capire una cosa così ovvia!» Maman Louise posa un gomito sulla tovaglia rosso scuro. I pendagli ai suoi polsi tintinnano. «È incazzata, Rémy…»
«Questo lo so!»
«… e c’è una profonda differenza tra sapere, capire ed accettare. Sono tre gradini di una scala a pioli. Non puoi balzare dall’uno all’altro senza battere ciglio. Non se sei nelle sue condizioni.»
Rémy sbianca. «Quali… quali condizioni?»
«Non te ne sei accorto?»
«No.»
Maman Louise sospira. «L’Imperatrice, l’Imperatore e il Sole. Françoise è incinta, Rémy. Ecco perché è scappata. Ecco perché non ti ha aspettato per cavarti gli occhi. Ecco perché ha messo quanta più strada possibile tra te e sua figlia…»
«Figlia?»
«… perché ha paura che tu le porti via anche lei. Una madre ha lo stesso istinto di una gatta. Certe cose una madre le sente, bambino mio…»
Rémy deglutisce a vuoto. Una figlia.
Occazzocazzocazzo, pensa.«Anche lei…»
«La Papessa. Serviamo tutti Athena, tesoro mio. Tu, io, Etienne, tua figlia ed anche Françoise. Abbiamo tutti un ruolo nel grande disegno. Ma te l’ho detto. Tra sapere, capire ed accettare c’è di mezzo una vita intera. E forse nemmeno basta.»
Maman Louise dà un’altra tirata alla sigaretta abbandonata nel posacenere di cristallo accanto a sé. Un regalo di Françoise. Raccoglie le carte, ricompone il mazzo e riprende a mescolarlo.
«Adesso, dimmi. Cosa vuoi sapere, Rémy?»

«Quando sei caduto, ragazzo? Lo sai?»
«Tu sarai caduta. Dal seggiolone», avrebbe risposto Seiya, ma Seiya non c’era. C’era solo Shun davanti a quella ragazza sbucata dal nulla. E Shun no, non riusciva ad afferrare quello che lei gli stava chiedendo. Capiva che la ragazza dai capelli rossi stava alludendo ad un altro significato del termine caduto, ma Shun non riusciva – o non voleva? – comprendere quale. Era come se la sua mente rifiutasse di mettere a fuoco quel particolare. Per non pensarci. Perché faceva paura. Una paura dannata, di quelle che sciolgono le gambe e mozzano il respiro. E che ci costringono a voltare la testa dall’altra parte.
«Capisci quello che ti sto dicendo?»
La ragazza, però, non aveva alcuna intenzione di lasciarglielo fare. Era come se volesse illuminare gli angoli bui della sua coscienza, uno per uno. Come se gli stesse facendo un favore. Gli stesse tendendo una mano. A modo suo, ovvio.
«Allora? Non possiamo stare qui tutto il giorno!»
«Non so di cosa parli», le rispose Shun. Decise che non aveva tempo da spendere in discussioni che lo atterrivano. Non mentre Hyoga proseguiva la sua marcia verso quella collina sullo sfondo. Shun non era sicuro di dove fosse – e dentro di sé pregava che non fosse davvero la Valle dell’Ade di cui gli aveva accennato Shiryu – ma sapeva che più Hyoga si sarebbe tenuto lontano da quella collina, meglio sarebbe stato per lui.
«Io devo salvare Hyoga!»
La ragazza aggrottò la fronte.
«Chi?»
«Hyoga! », le disse – le urlò – superandola e lanciandosi all’inseguimento del Santo del Cigno. E poi accadde qualcosa che lasciò Shun completamente sbigottito. Si sentì tirare per un polso, ma le dita della ragazza non si erano chiuse attorno al bracciale della sua armatura. Stavano tenendo saldamente una delle sue catene. Quella d’attacco, la punta conica che dondolava stanca oltre il pugno chiuso della ragazza coi capelli rossi.
Shun guardò prima le sue catene, poi lei. «Com’è possibile che tu… che tu riesca ad impugnare la mia catena senza ferirti?», le chiese.
«Perché questa non è la tua catena», rispose lei. «Le tue catene sono assieme al tuo corpo. Sulla Terra. Sul piano materiale. Queste», proseguì alzando di poco il pugno, «sono una proiezione della tua anima.»
«Una… proiezione?»
Lei annuì. «L’anima è una cosa viva. Una cosa viva che immagazzina informazioni. Ricordi. Emozioni. Hai presente l’immagine di noi che abbiamo nella mente?» La testa di Shun andò su e giù un paio di volte. Lentamente. «Ecco. Quella è l’anima. E la tua anima ci dice cos’è successo quando sei caduto. L’hai fatto indossando la tua armatura. Per questo ne ha creato… una copia.»
«Un’idea… un’idea platonica?»
«Precisamente», disse lei indicandolo. «Qui arrivano solo in pochi con le proprie gambe. Tutti gli altri sono solo anime.»
Pausa.
«E tu non fai eccezione.»
Shun cadde sulle ginocchia, un braccio sospeso a mezz’aria, come un burattino a cui hanno tagliato tutti i fili, tranne uno.
«Io… io…»
«Mi dispiace», disse lei, lasciando andare la sua catena. Il braccio di Shun si abbassò senza cura. «A volte succede. Che lo shock della morte sia tale da rimuovere il fatto, dico. Le anime erranti nascono così. E non è mai una bella cosa.»
Si sfilò il diadema dalla testa e si accosciò davanti a lui.
«Senti. Io ho un lavoretto da sistemare. Poi torno qui e risolviamo il problema. Ok?»
«Ma tu…»
«Io sono l’eccezione, tesoro.» Lo guardò con occhi tristi. Tristi e seri. «Io sono rimasta la sola che può arrivare quaggiù da viva.»
Poi lei si alzò, con un rumore metallico, e gli disse: «Aspettami qui.». E si avviò per la sua strada. Shun non la seguì con lo sguardo. Rimase a fissare la terra sotto di sé, affondandovi le mani, come se quel contatto potesse aiutarlo.

Come poteva essere morto – caduto – se sentiva quella terra violacea sotto i polpastrelli e la linea delle unghie? Com’è possibile?, si chiedeva. Cercando di restare ancorato a quella domanda, come se quell’osservazione fosse la sua unica possibilità di salvezza. La luce che guida la barca al sicuro nel porto.

Ricapitoliamo, si disse. Imponendosi di restare lucido. Lucido e concentrato. Sono morto. Sono morto, ma non ancora trapassato, perché Hyoga mi ha ucciso. Mi ha strangolato.

Shun si portò le mani al collo. Un brivido gli percorse la schiena. E Andromeda si trovò a rimettere quel poco che aveva mangiato a colazione, la paura che gli aveva reso lo stomaco un pezzo di piombo. Un pezzo di piombo congelato.

Sto vomitando, si disse, in una piega del suo cervello, assecondando le contrazioni che gli strizzavano il busto e la gola. Ma come posso farlo se sono morto?

Si pulì la bocca e alzò la testa, in cerca di aria buona. Scoprendo – con orrore – che aria laggiù non ce n’era. Affatto.

Poi sentì un rumore alle sue spalle, dei passi prima ed un tonfo poi, come di qualcosa che cade. Un sacco lasciato andare. Una zavorra che tocca terra. Shun si voltò. E vide Hyoga, il viso adagiato al suolo e l’espressione atarassica dei defunti. E la salvezza del Cigno tornò prepotentemente ad occupare tutta l’attenzione di Andromeda.

«Hyoga!!», gridò. Avvicinandosi a lui a carponi.
«Ehi, ehi, ehi», disse la ragazza frapponendosi tra di loro.
Shun si alzò in piedi. Barcollò. Riguadagnò una posizione eretta con uno sforzo sovrumano. E la fissò truce. «Spostati. Devo aiutare Hyoga.»
Lei indietreggiò. E alzò le mani.
«Chi?»
«Hyoga. Il Santo del Cigno.»
Lei sbatté le palpebre. Lo fissò. Si voltò a fissare Hyoga. Tornò con lo sguardo su Shun. «Lui?», gli chiese.
«Lui», disse Shun. «Non voglio farti del male, ma…»
«Farmi del male? Tu?» La ragazza lo scrutò. «No. Non dirmi che hai rimesso…»
Si avvicinò a Shun e guardò oltre la sua spalla.
«Guarda che casino… Ehi, che roba è questa?», chiese, indicando a Shun qualcosa che strisciava sul terreno violaceo. Un grosso verme. O qualcosa di simile. Qualcosa che lei schiacciò col tacco del suo stivale. «Questo non va bene. Non va bene per niente. Ehi, che stai facendo?»
Shun l’aveva ignorata e si era avvicinato a Hyoga, chinandosi sul compagno per sincerarsi delle sue condizioni.
«Dimmi che possiamo salvare almeno lui.» Non era una richiesta. Sembrava più un ordine.
«Lui è fuori pericolo», disse, le mani sui fianchi e l’espressione di chi sta per provare un mal di testa allucinante. «Senti. Nella tua storia non mi sono chiari alcuni passaggi. Un bel po’ di passaggi, ad essere sincera. Che ne diresti di sederci e di raccontarmi tutto per filo e per segno?»
Si sedette sulla prima roccia utile ed accavallò le gambe. Gli indicò di fare altrettanto con un gesto della mano ed un sorriso.
«E Hyoga?»
«Lui adesso sta meglio di me e di te messi assieme…»
«Non… non si rialzerà ed andrà…»
«No. Il Cigno non farà niente di tutto questo.», disse lei. «Consideralo come un palloncino legato ad un polso. Non mi scapperà via, tranquillo. E adesso, me la vuoi raccontare la tua storia, sì o no?»

 

«Allora, io vado.» I capelli di Rémy sono legati in una coda distratta sulla nuca. Avrebbero bisogno di una bella sforbiciata. La barba non gli dona. È ispida. Lo fa assomigliare ad un tricheco, ma a lui non importa.
«Pierre apre tra mezz’ora», gli dice maman Louise. «Perché non ci fai un salto?»
«Non sono dell’umore giusto, maman.»
«Se Françoise ti vedesse conciato così scapperebbe a gambe levate!»
Rémy scuote la testa. «Dovrei prima trovarla…»
«Giusto. Dovresti prima
trovarla…»
Rémy la fissa. Serio. Serissimo. La punta delle dita sfrigola di rosso. Gli occhi di maman si assottigliano. Come quelli di un gatto che s’è appena pappato il passerotto fingendosi morto. Le labbra si arricciano all’insù e Rémy non sa se mandarla al diavolo, gettarla fuori dalla finestra o schioccarle un bacio in fronte.
Le spalle si rilassano. Le lucine rosse si affievoliscono. E anche Rémy adesso sorride, con la stessa smorfia di chi pensa
Ok, stavolta mi hai gabbato. Alza le mani e scuote la testa.
«A che ora apre Pierre?»
«Alle otto in punto.»
«Perfetto», dice Rémy dando un colpo d’occhio all’orologio sull’
étagère. «Ho il tempo di fumarmi una sigaretta, allora.»
Maman annuisce.
«Grazie di tutto, maman…»
«Figurati, tesoro. Figurati.» Maman Louise si stringe nel suo scialle in un tintinnio sommesso. «Quando vuoi, sai sempre dove trovarmi.»
Rémy la saluta alzando una mano e sparisce per la scale, l’aria da cane bastonato, quella che aveva quand'è arrivato e che gli incurvava le spalle e lo invecchiava di almeno dieci anni, è solo un ricordo. Maman Louise chiude la porta e torna ciabattando in cucina. Si affaccia alla finestra e segue la schiena di Rémy allontanarsi per la strada e tornare davanti alla chiesa. Le campane battono le sette e mezzo.
Maman Louise chiude le imposte e si siede al tavolo della cucina.
«Puoi uscire. Se n’è andato.»
Si sente un tramestio. Una porta si apre, i cardini che protestano. Passi nel corridoio. Timidi. Paurosi. Poi una ragazza si affaccia dalla porta della cucina, le dita attorno allo stipite che avrebbe bisogno di una bella riverniciata. Ha gli occhi lucidi.
«È ridotto ad uno straccio, Fanchon… Adesso non metterti a frignare», le dice maman Louise, ma lei è più veloce delle sue parole ed inizia a piangere. Come una bambina piccola, le mani davanti al viso. Maman Louise sospira. E si alza.
«Su, su, adesso basta», le dice avvicinandosi, e cingendole la vita con un braccio e accompagnandola alla sedia su cui Rémy ha fatto colazione. «Non fa bene al tuo bambino, tutto questo.»
«Ma io…»
«Ma io, ma io…» Maman Louise sbuffa, le mani sui fianchi. «Ma tu devi mettere un po’ di sale in zucca, ragazza mia. Lo sai che è pericoloso per te venire qui. Eppure! Ma lo sai che ti succede se Alain ti trova? Antoine non oserebbe toccarti, ma Alain sì! E tu sai quello che fa Alain alle ragazze che gli sono scappate, vero?»
«Non m’importa», piange lei.
«Non t’importa! Cosa devo sentire! Di primo mattino, poi! E del tuo bambino non t’importa? Vuoi finire sfregiata e ad arrabattarti sul marciapiede?»
Françoise piange. Disperata. Ancora più forte, le lacrime che le ricadono in grembo a bagnare la stoffa a fiori arancioni del suo vestito.
«Su, su. Adesso basta. Asciugati il viso e parliamo. Da donna a donna.»
«Mi ha spezzato il cuore, maman!»
«Lo so, angelo mio. Lo so.»
«E allora perché gli avete detto
quelle cose
«Perché sono vere!»
Uno schiaffo inaspettato avrebbe fatto meno male. Avrebbe bruciato di meno. Françoise si irrigidisce e poi tira su col naso.
«Ma che ti aspettavi? Sapevi chi fosse Rémy. A che mondo appartenesse. I suoi doveri. No?»
Françoise tace. Sì che li conosceva, ma non pensava – non poteva immaginare – quanto potessero essere duri. Crudeli. Spietati.
«Lui conosceva te ed il mondo da cui vieni.»
«Ma io non ho preso quella strada!», ribatte. Seria. Serissima. «Perché lui…»
«Perché lui no? Perché questo è il suo destino. Ed il tuo, probabilmente, è quello di sfornargli altri due o tre marmocchi.»
«Perché se li prenda Athena?!»
«Un frutto non cade lontano dall’albero che l’ha generato, piccina mia.»
«Ma Etienne! Etienne è solo un bambino…»
«Lo so. Per questo avreste dovuto ragionarne, voi due. Parlarne. Discuterne. Fino a non poterne più. Qui ha sbagliato Rémy. In toto. E come donna e come madre, sono con te. Ma tu hai sbagliato a ficcare la testa sotto la sabbia e ad illuderti che questo momento non sarebbe mai arrivato.»
Françoise tace. Si porta una mano sul ventre. Una ciocca di capelli le scivola sullo sprone dell’abito.
«Maman… maman voi come avete capito che?»
Maman Louise alza un sopracciglio.
«Faccia sbattuta. Occhiaie. Pochissimo appetito. Nausea. Non riesci a tenere nello stomaco nemmeno l’acqua che bevi. Insomma, Fanchon. Io non sono un uomo.»
Françoise posa i gomiti sul tavolo e prende tra le mani la tazza di Rémy.
«Sai, maman? Io lo amo… nonostante tutto…» Sospira. «Oh... Sono un mostro…»
«Che sciocchezze. Certo che lo ami. Ci mancherebbe! È che adesso sei solo furiosa, ecco tutto. E devi capire se c’è spazio di manovra per voi. Se lui non s’è spinto troppo oltre, capisci?»
Sospira. «Maman… maman quello che avete letto nelle carte è tutto vero?»
Maman Louise si avvicina alla finestra. Spalanca le imposte, monta un’altra sigaretta sul suo bocchino e la accende.
«Sì e no, piccina. Sì e no.»
Françoise piega la testa da un lato.
«Quello che è stato è stato. Ecco perché vedo che lì dentro c’è una signorinella.» Maman Louise indica Françoise con un dito. «Ma il futuro è tutto da scrivere. Le carte ti danno delle… delle indicazioni, ecco. Il futuro te lo fai da te, ricordi?»
Françoise si guarda il palmo della mano sinistra. Rémy ha una cicatrice che lo attraversa per tutta la lunghezza, dalla base del medio fin quasi al polso.
«Maman mi aveva detto che sarei potuto diventare il Santo del Capricorno. Ci pensi? Io un Santo d’Oro! Ma quella è roba da spagnoli. Così, siccome il mio destino non mi piaceva, ho preso il rasoio e
zac!», le ha detto Rémy, quando lei gli ha chiesto come si fosse procurato quella brutta cicatrice.
«Ma…»
«Non lo so, Fanchon. Non lo so. Si serve Athena in molti modi, sai?» Maman prende un’altra boccata di fumo e la libera nell’aria frizzante del mattino. «Rémy è andato da Pierre. Perché con quella barba sembra un tricheco. Perché non lo aspetti davanti alla bottega e ne parlate per bene, voi due? Eh?»
Fanchon si asciuga il viso sul dorso della mano.
«Forse… perché no?…», dice. Alzandosi dalla sedia con lentezza. Uscendo dalla cucina. La zip degli stivali rompe il silenzio della mattina. Una volta. Due. La porta d’ingresso si apre e si chiude. Il gatto si stiracchia nella cesta.
«Brava, la mia ragazza», commenta maman Louise fissando qualcosa nel cielo d’acciaio.
Se continua così, nevicherà, pensa. Osservando la testa bionda di Françoise apparire in strada, due piani più in basso. Rémy è tornato. L'aspetta di fronte al portone, la sigaretta tra le dita e quel cappellaccio in testa. E lei gli corre incontro. E con un sorriso maman Louise li osserva abbracciarsi. Perché i ragazzi che si amano non ci sono per nessuno. Chiude la finestra. Ciabatta fino all’ingresso, raccatta le chiavi dell’appartamento al piano di sotto e lo posa sull’étagère. Così parleranno con calma. Dopo, si dice. Ridacchiando.
«Beata gioventù», mormora il donnone. È quasi ora di prepararsi. I clienti arriveranno a breve, e lei non si è ancora né vestita, né pettinata. E le serve tempo per truccarsi e stendere per bene il kôhl sotto le ciglia. E pensare a quello che ha visto
davvero in quelle carte. E che no, non le è piaciuto per niente.

 

«Adesso capisco tutto. Anche perché non ti sei scomposto nel vedermi.»
La ragazza aveva detto di chiamarsi Coralie. Ed aveva indicato la massa di capelli rossi come se questo avesse dovuto significare qualcosa. Aveva ascoltato il racconto di Shun senza battere ciglio, osservandolo attenta, come se stesse registrando tutto nella mente. Parola per parola.
«Quando sono arrivata nella casupola non ho visto il tuo corpo. Idee su dove possa essere finito?»
Shun scosse la testa. «Non ne ho idea. Potremmo chiederlo a Hyoga…»
«No. Lui deve restare addormentato. Non sta bene.»
«Quindi?»
Lei prese fiato e poi sospirò. «Quello che ti ha detto quella tizia è vero. In parte, almeno. Qualcuno è arrivato al Santuario, nei giorni scorsi, informandoci che il Santo del Cigno aveva rimosso il sigillo di Jo… Jotunqualcosa
«E perché hanno mandato te?»
«Perché ero l’unica disponibile. L'Ariete sta spulciando la Biblioteca del Sacerdote, e pare che Saga abbia fatto un gran casino, lassù. La Vergine sta contrattando con l’asgardiano per decidere dove si svolgerà il processo. Sai, vogliono comunque sentire la sua versione prima di darlo in pasto a chicchessia. Toro, Scorpione e Leone sono in missione. Così hanno mandato me. Ma se qui c’era davvero un asgardiano, allora…»
«Allora?»
«Allora o vogliono usare il Cigno come casus belli per attaccare il Santuario, oppure… oppure c’è una guerra intestina su, ad Asgard. E serviva loro un capro espiatorio.»
«Ma a che pro?»
«Per sviare l’attenzione. Depistare. E intanto, andare avanti coi propri progetti.» Lei si tolse il diadema. «Questo spiegherebbe anche perché abbiano attaccato Athena. Qualunque sia il movente, stanno mettendo in atto una strategia articolata.»
«Quindi?»
«Quindi, io adesso porto te ed il Cigno nel mondo dei vivi. Lo sveglio. Gli racconto quello che è successo e mi faccio dire dove diamine sia il tuo corpo. Ti ci infilo dentro a forza, promesso. Però, tu devi farmi un piacere.»
«Sarebbe?»
«Non una parola su quello che ci siamo detti noi due. Deve restare tra te e me.»
«Perché?»
«Perché la Vergine aveva il sospetto che qualcosa non stesse andando per il verso giusto. Che ci fosse un meccanismo che gira a vuoto, hai presente? E se davvero il Cigno ha fatto quello che tu hai detto, potrebbe essere ancora sotto l’effetto di quella schifezza che gli hanno dato. La stessa che tu hai rimesso poco fa. Il tuo amico potrebbe essere pericoloso. Per se stesso e per gli altri. E tu non mi sembri in grado di difenderti. Per cui, io ti ricaccio nel tuo corpo, e poi ce ne andiamo. Lo porto via, mentre tu ti riprendi.»
«Ma se le cose stanno davvero come pensa Shaka, allora potresti aver bisogno di un aiuto. Hyoga potrebbe aver bisogno di aiuto!»
«Sì», disse lei. «Ma che aiuto puoi darmi tu, più morto che vivo?»
Shun tacque e la fissò stupito. Come se lei gli avesse dato uno schiaffo senza preavviso. Sentì le guance imporporarsi. E bruciare. Come se davvero lei avesse stampato cinque dita sul suo viso.
«E tu cosa faresti se…?»
«Se dovesse di nuovo dare di matto, dici? Lo spedirei di nuovo quaggiù senza tante cerimonie», disse lei. Fredda. Distaccata. Come se stesse parlando di una bambola di pezza o di una giacca da mandare in lavanderia, e non di una persona. «E ce lo terrei fino a quando non fosse rinsavito.»
Shun guardò Hyoga, appoggiato con la schiena contro ad una roccia, la testa reclinata verso il busto. Dormiva. Forse. O forse no. Andromeda si disse che non potevano restare oltre. Non andava bene. Non era sano.
«A breve arriveranno i Mastini. Sono i mostri che si aggirano nelle ombre e si nutrono di coloro che vagano lungo l'orlo della Bocca dell'Ade. Dobbiamo spicciarci. Ho la tua parola, Andromeda?»
Shun annuì. «Hai la mia parola», disse. E le tese la mano. Lei gliela strinse e sorrise. Soddisfatta. Si sistemò il diadema e si fregò le mani.
«Puoi espandere il tuo cosmo?»
«Sì.»
«Fallo. Farà schifo, ti avverto. Ti verrà da rimettere, come hai fatto adesso. Evita. Lo dico per il tuo bene. E adesso aiutami a sollevarlo. Il tuo amico pesa un accidente, sai?»
Shun si passò un braccio di Hyoga dietro al collo e la ragazza fece altrettanto. «Stammi vicino», disse lei, prima di iniziare ad espandere il suo, di cosmo. Shun la imitò. Il cosmo di Andromedà sfavillò, come se ne fosse andato della sua vita. Come aveva fatto alla Settima Casa per risvegliare Hyoga. Si vede che è nel mio karma, pensò. Poi tutto divenne bianco. Li avvolse una luce accecante e lui si sentì svanire in tutto quel bianco purissimo.






Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.

Note:

Ancora un flashback, siore e siori, nell'autunno 1971! Rémy ve l'ho presentato qui e qui. Per chi ancora non lo conoscesse, lui è il Santo d'Argento della Costellazione di Boote. Nonché padre di Camus (tranquilli, stiamo sempre parlando del mio headcanon!).
Fanchon è uno dei diminituvi di Françoise. Nonché la madre di Etienne (quella che lui chama semplicemente Maman.). Per il passato di questa creatura mi sono rifatta a La dernière dance di Sen e alla sua Francine (altro diminutivo di Françoise), per creare una sorta di legame nei secoli. Trovate la sua storia qui. Pubblico con il benestare dell'autrice.
Nella mia testa il Santuario ha agenti sparsi in tutto il mondo. Una sorta di occhi ed orecchie di Athena. Maman Louise - oltre ad essere una marca di formaggi! - è una di loro. Maman Louise fa la cartomante/astrologa/medium nel quartiere di Belleville, XX arrondissement, a nordest di Parigi. Maman Louise non gioca pulito. Nemmeno un po'. È una grandissima lestofante - in senso buono- ma può essere altrimenti, quando servi Athena - nota imbrogliona?
Ovviamente, il bocchino è quell'affare lungo e sottile che le donne usavano per fumare le sigarette senza che queste impuzzolissero le loro dita o ingiallissero i loro denti. Mi sembrava superfluo rammentarlo, ma di questi tempi non si sa mai.

La scena in cui Rémy si taglia la Linea del Destino è una citazione di Corto Maltese. Vedi alla voce, Hugo Pratt, Una Ballata del Mare Salato, 1967.

Intanto, nella Valle dell'Ade, Shun scopre che qualcuno sta ordendo un complotto ai danni di Athena. E che Hyoga ci è andato di mezzo. Riuscirà il Santo di Andromeda a tornare indietro dalla morte per aiutare il suo amico ancora una volta? Dovrebbe farsi un abbonamento, dite voi? In effetti...
Appuntamento tra sette giorni - giorno più, giorno meno - per un altro capitolo. E adesso scusate, ma mi aspettano gli gnocchi!

   
 
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