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Autore: Dragana    29/01/2015    3 recensioni
–Ti trovo bene-, disse infine.
Lei si avvicinò per baciarlo sulla guancia.
-Ti trovo bene anch’io.
Lui sorrise. Aveva quasi vent’anni più di lei, e ora si vedeva benissimo.
-Sei una bugiarda, ma ti ringrazio. Bevi qualcosa?
-Il solito-. Si guardò intorno. –Mio dio, questa stanza è un mausoleo, mio caro. Non posso crederci. Sono eccitata come una ragazzina.
-Un mausoleo. Ma sentiti. Io la chiamerei più una stanza di memorabilia.
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Giovanna
in imbarazzante ritardo,
ma con molto affetto.
Tanti auguri!





MEMORABILIA

 “And those were days of roses”
(Tom Waits)

Christopher, nella sua stanza piena di librerie e teche colme di oggetti, sollevò gli occhi dal solitario che stava facendo, e si alzò in piedi per ricevere la donna appena arrivata.
La guardò intensamente. I capelli nerissimi di una volta erano diventati un taglio severo color sale e pepe, ma gli occhi erano acuti come aghi e la figura ancora snella, sempre vestita con abiti all’ultima moda. –Ti trovo bene-, disse infine.
Lei si avvicinò per baciarlo sulla guancia.
-Ti trovo bene anch’io.
Lui sorrise. Aveva quasi vent’anni più di lei, e ora si vedeva benissimo.
-Sei una bugiarda, ma ti ringrazio. Bevi qualcosa?
-Il solito-. Si guardò intorno. –Mio dio, questa stanza è un mausoleo, mio caro. Non posso crederci. Sono eccitata come una ragazzina.
-Un mausoleo. Ma sentiti. Io la chiamerei più una stanza di memorabilia.
Lei gli si avvicinò, poi vide le carte sul tavolino vicino a una finestra, illuminate dalla luce, e scoppiò a ridere.
-Ancora quella mania dei solitari? Si direbbe che il mazzo di carte sia sempre lo stesso, dopo tutti questi anni.
Lui sorrise, mentre le preparava un whisky.
-È sempre lo stesso. Negli anni ho perso una carta, per il resto è rimasto intatto, anche se un po’ingiallito. Come me-, disse, porgendole il bicchiere con un gesto elegante.
-Come riesci a giocare senza una carta?
-Si tratta del due di picche. Metto il tre sull’asso.
-Un uomo pieno di risorse-, sorrise lei. Poi alzò il bicchiere.

Gli era stata presentata da un collega. Occhi e capelli neri, elegante e dritta come una spada, con una strana luce annidata negli angoli del sorriso. A malapena ventenne, italiana, studentessa di archeologia, era scappata in America a causa del fascismo. –Le dittature mi vanno strette-, aveva detto, senza peli sulla lingua.
-Rosa Miani… forse conoscevo un Miani?-. Il nome non gli era nuovo. Lei sorrise.
-Il mio trisavolo, Giovanni Miani, fu sul punto di scoprire le sorgenti del Nilo. Venne battuto sul tempo da due inglesi.
-Dannati inglesi.
-Gli indigeni lo chiamavano il leone bianco. Prima di ripartire portò a casa una sacerdotessa e due coccodrilli.
-Notevole. E lei?
-Io devo ancora partire. Le serve un’assistente, mi dicono.
Cristopher non le aveva dato molto credito, all’inizio. Poi le aveva dato una possibilità, perché beveva whisky liscio. Magari è stupido, si disse, ma se una donna non ha paura del whisky, forse non ha paura di nulla.
Rosa si era dimostrata preparata, pratica, curiosa. Ottima sportiva, tiratrice in gamba, intelligenza veloce. Era donna e giovane, ma Cristopher si ricordava di lady Evelyn Carnarvon, in Egitto, nella tomba di Tutankhamon. Erano già passati più di dieci anni.
Ci pensava mentre Rosa esaminava il piccolo scarabeo azzurro che le aveva dato. Le aveva detto solo che veniva da una tomba egiziana.
-Non capisco questa iscrizione-, aveva detto lei. –Non ho mai visto questo tipo di scrittura.
Cristopher sorrise. Bingo. –Se è una scrittura. Non assomiglia a niente di noto. Naturalmente potrebbe essere un caso, se non fosse che ho trovato il medesimo stile all’interno di una maschera proveniente da una nave fenicia. Nulla di strano, i commerci nel Mediterraneo erano normalissimi. Ma poi ho ritrovato questo.- Le mise in mano un piccolo oggetto che sembrava un uccello stilizzato, antichissimo, con delle incisioni sopra simili a strani ideogrammi. -In Brasile.
Rosa lo guardò con le sopracciglia aggrottate, cercando di capire dove volesse arrivare.
-E, proprio poco prima di conoscerla, mi è arrivata notizia di un tempio in India in cui pare ci siano oggetti con le medesime caratteristiche. Naturalmente dovrei vederli, per verificare.
-Qual è la sua ipotesi?
-Ci sono troppi pochi rinvenimenti per poter fare un’ipotesi. Ancora non ne ho parlato alla comunità scientifica. Ma, con tutte le dovute cautele, si può parlare di una civiltà antichissima, probabilmente già estinta o sul punto di estinguersi quando le antiche civiltà stavano sorgendo, e abbastanza vasta da diffondersi in tutto il mondo. Se non la civiltà stessa, quantomeno i suoi lasciti.
-Una cosa tipo Atlantide?
-È così che la chiamo, Rosa. Atlantide. Naturalmente non so se è l’Atlantide di cui parla Platone, se è qualche altra civiltà leggendaria o se è qualcosa di completamente diverso. Ma in qualche modo dovrò pure chiamarla, almeno con me stesso.
-Cos’è un nome? Una rosa, anche con altro nome, avrebbe lo stesso profumo. Si va in India?

-Ho amato molto, dopo di te.
Lui la fissò, senza sapere bene cosa dire. Quindi le fece segno di accomodarsi, ma lei preferì continuare a guardare nelle bacheche. Lui si risedette al tavolino e si mise a mischiare il mazzo di carte. –Ne sono contento-, disse infine.
-Si pensa sempre che sia inguaribile, all’inizio. Una ferita che fa troppo male. Invece poi passa. Passano intere civiltà, figuriamoci gli amori. All’inizio no, naturalmente. Avevo qualche uomo, ma non andavano mai bene, non erano abbastanza intelligenti, abbastanza impavidi, abbastanza affascinanti. Non erano te. Poi è arrivato lui.
-Ed era così? Intelligente, impavido, affascinante?
Lei sorrise, contemplando il contenuto di una bacheca come se si trovasse in un museo.
-No. O meglio, sì, ma a modo suo. Intelligente e affascinante in un modo diverso da te. Anche impavido: non so se si sarebbe buttato in canoa sulle rapide del Nilo, ma non ha mai avuto paura di amarmi.
Christopher mise giù la prima fila di carte. Gli tremava leggermente la mano.
-A proposito di coraggio, come fai ad avere ancora questo?

Rosa non aveva mai avuto paura dei templi, prima.
O delle tombe, o dei palazzi, o di qualunque altra cosa. Ne apprezzava la strana densità dell’aria, come se le preghiere dei fedeli vi si fossero condensate dentro. A volte ne aveva soggezione, altre si sentiva serena, a prescindere dal dio che vi si venerava.
Eppure era in India e quello era il suo primo incarico vero e lei stringeva un kriss nelle mani ed era terrorizzata. E la lama del kriss aveva sangue rappreso, sangue antico, talmente antico da essere nulla di più che un’ossidazione marroncina. E sangue nuovo, che veniva da un taglio delle sue mani, o di quelle del professor Lockwood, o forse era sangue mescolato assieme, il loro più quello di chissà chi, chissà quando.
-Rosa, mi dia il pugnale.
Il tono era deciso e fermo. Il professore la scrutava dietro i suoi occhiali tondi, un taglio sulla guancia, gli occhi chiari nel viso sporco di polvere antica. Gli tese il kriss, le braccia rigide.
Lui glielo tolse dalle mani piano, un dito dopo l’altro.
Le sembrava che, mano a mano che le dita non erano più a contatto del pugnale, anche il terrore si allontanasse da lei, un pezzo ala volta.
Le marionette ghignanti, che si muovevano assieme alle loro ombre enormi.
I demoni con la pelle blu e le bocche spalancate.
L’aria stantia, fumosa, che colpiva alla testa e ai sensi e moltiplicava i riflessi dei mille ornamenti luccicanti delle statue.
La statua nera dalle otto braccia, ognuna delle quali brandiva un’arma. I suoi occhi rossi, gli occhi rossi dei teschi che la adornavano.
Il professore che esaminava la statua. –Il kriss, Rosa. È quello che stavamo cercando!
La lingua che si muoveva, o forse no, forse era quell’aria, ma si scagliava contro il professor Lockwood come una lama, e lui si scansava, ma la sua guancia sanguinava davvero.
E poi la danza scomposta e turbinante di quella statua nera, e delle marionette, e delle teste mozzate che ghignavano e ridevano, e ogni braccio brandiva un’arma, e Rosa sparava ma la statua continuava a danzare e deviava i suoi proiettili con la lingua e con le armi.
-Tu non esisti! Sei solo un mostro creato dalla mia mente!-, aveva urlato il professore, e Rosa aveva pensato che era pazzo, che sarebbe morto divorato da quella bocca rossa piena di denti e lei con lui. Ma le si era avventato contro, e tranciato due delle braccia. In un impeto di coraggio, o di follia, le aveva strappato il pugnale da una delle mani, ma la statua l’aveva scagliato lontano. Rosa le aveva lanciato qualcosa per distrarla, e poi si era accorta che era un teschio.
-Il pugnale!
Era a terra. Il professore si era rialzato e teneva a bada la statua. Rosa si liberò di un demone dalla pelle blu e afferrò il kriss dalla parte della lama, tagliandosi. Gridò, ma lo tenne.
Poi la fuga fuori dal tempio che gli crollava intorno, sotto la danza folle della statua nera.
Il ricordo delle guide locali, che non avevano voluto accompagnarli, qualunque ricompensa gli venisse offerta.
Infine la salvezza.
Non sapeva se era una specie di maledizione del kriss, Rosa non aveva mai creduto alle maledizioni. O se era solo il professor Lockwood, così deciso nel togliere delicatamente le sue dita serrate dal manico del pugnale. La sua camicia era quasi a brandelli, una manica praticamente penzoloni; Rosa si ritrovò a fissargli il braccio, la linea dei muscoli che non aveva immaginato così, vedendolo col completo.
Forse il tempio era davvero maledetto. Forse, se ci sono dèi che usano le frecce, altri usano il kriss.
Rosa osservò le dita del professore che sfioravano il pugnale, poi con un fazzoletto lo ripulivano dal sangue più fresco , il loro, mischiato insieme sulla lama. Incise nell’acciaio c’erano delle parole, forse ancora più antiche del pugnale e del tempio stesso, rese evidenti dal sangue che vi era raggrumato dentro. Parole in una lingua strana, in una scrittura mai studiata prima.
-Se la sente di fare uno schizzo del kriss, esattamente com’è ora, Rosa?
Lei finalmente riuscì a sorridere, e fu come cacciare via da sé gli ultimi rimasugli di terrore. Prese fogli e matita.
-Abbiamo rischiato la vita, professor Lockwood. Credo che sia giunto il momento di darci del tu.

Rosa, come quando era ragazza, era diretta e decisa. Invecchiando, lo era diventata ancora di più, considerò Christopher. Non gli chiedeva il permesso di aprire le sue vetrinette, di esaminare gli oggetti; e lui non si sentiva di negarglielo, perché quegli oggetti erano anche suoi, le appartenevano tanto quanto appartenevano a lui. Non li aveva mai rivendicati, ma non significava che vi avesse rinunciato.
Sfiorò con le dita un delicato manoscritto medievale, miniato in oro. Aveva quel modo, Rosa, di sfiorare con le dita anche la sua pelle, una volta, quando ancora era un uomo, non un vecchio con la pelle della consistenza di quella pergamena. Avrebbe desiderato sentirlo di nuovo, il tocco sensuale di quelle mani.
Per cacciarsi quei pensieri dalla testa, le parlò.
-Ne abbiamo passati di pericoli.
Una cosa banale. Come parlare del tempo o delle mezze stagioni, ma lei sorrise.
-Eccome. Ti ricordi la fabbrica?
Lui le indicò un mobile di mogano con le ante chiuse, facendole segno di aprirlo.
-Come potrei dimenticarmi la fabbrica?

-Ripetimi come c’è finito questo qui dentro.
Se Rosa avesse dovuto fare un paragone, la cosa che ci andava più vicino era il meccanismo di Antikythera. Solo che questo era pulito, funzionante, e se ne stava in mezzo a una vecchia fabbrica abbandonata, dentro quella che sembrava una caldaia. L’aria era caldissima e soffocante, nelle vasche il metallo rimaneva incandescente nonostante lo stato di degrado della zona.
-È il meccanismo che tiene in moto la fabbrica, anche adesso. Forse chi l’ha trovato è riuscito a farlo funzionare, ma senza capire cos’aveva nelle mani.
Christopher si era messo spessi guanti di cuoio e un paio di occhiali da saldatore. Si avvicinò al meccanismo.
-Qui ci sono delle scritte.
-Saranno le istruzioni.
-Forse. Guarda, ci sono gli stessi simboli del kriss.
-Pericolo? Attenzione? Oggetto maledetto?
Rosa sorrideva, mentre faceva sul taccuino uno schizzo del meccanismo. Si avvicinò per vedere la scritta, il caldo le aveva appiccicato la camicia alla pelle, lucida di sudore. Christopher si impose di guardare l’oggetto.
-Non sembra assicurato particolarmente bene, si dovrebbe riuscire a rimuovere con facilità.
Lui sussultò.
-Non so, Rosa. Non possiamo prevedere cosa succederà, se lo togliamo. Probabilmente dovremmo studiarlo meglio, capire in che modo continua a mandare energia alla fabbrica…
-Sì, e intanto che noi lo studiamo qualcuno realizza che una cosa del genere potrebbe portare profitti altissimi, e addio meccanismo di Atlantide.
-Qui dev’essere successo qualcosa, se la fabbrica è stata abbandonata. Non mi sembra che porti questi gran profitti.
-E tu spiegalo a tutti quelli che diranno “sciocchezze, io starò attento”. Compreso il Governo, s’intende.
-Non sono tutti come il tuo Duce, Rosa.
Lei lo guardò con le sopracciglia alzate, come se avesse a che fare con un bambino. –O a noi o a loro, lo sai.
Lui sospirò. –E va bene. Hai ragione. Allungami quegli stracci, qui scotta.
Armeggiò un poco, e il meccanismo venne via. Lo appoggiarono sugli stracci, Rosa fece degli altri schizzi. Improvvisamente, sentirono il rumore di uno scoppio provenire da qualche parte dietro di loro.
Si guardarono in faccia.
-Corri!
Rosa fece appena in tempo a mettere il meccanismo nella bisaccia, che Cristopher la trascinò via. La fabbrica si stava incendiando velocemente, l’aria stava diventando irrespirabile e pezzi dei tubi cominciavano già a cadere dal soffitto.
Arrivarono all’uscita, in un inferno di caldo e rumore di esplosioni. Lui la lanciò fuori dalla porta, ma un’esplosione più forte delle altre risuonò nelle orecchie di Rosa, che poi non sentì più nulla.
L’aveva rivisto solo giorni dopo, in ospedale. Lei se l’era cavata con poco, qualche ustione. A lui era andata parecchio peggio.
-Sembri una mummia-. Rosa cercava di ricacciare indietro le lacrime.
-Magari. Di sicuro le mummie questo prurito non l’hanno mai dovuto sopportare-. Cristopher sorrise. –Almeno ce l’hai tu il meccanismo?
Lei cercò di accarezzarlo, ma all’ultimo momento si tirò indietro per paura di fargli male.
-Ma certo. Figurati se dopo tutto quello lo lasciavo ad altri-. Si interruppe. –Avevi ragione tu. Dovevamo lasciarlo dov’era.
-Penso funzionasse come un accumulatore di energia. Doveva esserci da qualche parte un impianto di raffreddamento, togliendo il meccanismo noi abbiamo fatto surriscaldare qualche macchinario, ed ha preso fuoco tutto.
-Sono stata una stupida, tu hai rischiato la vita solo perché io ho insistito, e non riesco a non pensarci ogni momento!
Lui le prese la mano. Due grosse lacrime rotolarono giù dalle guance di Rosa.
-Non mi hai puntato una pistola alla tempia. Sono i rischi del mestiere, no? Oh, buongiorno, cara. Benvenuta.
Christopher le aveva lasciato la mano. Rosa si girò di scatto: sulla soglia della stanza c’era una signora alta, dagli occhi chiari, che evitava di guardarla come se non volesse nemmeno prendere in considerazione la sua esistenza nel suo stesso universo.
-Buongiorno, Cristopher. Se la prossima volta muori, non farmelo dire da lei.
Rosa scosse la testa, le mani che tormentavano i manici della borsetta. –Signora, mi creda, sono davvero dispiaciuta, io non volevo che…
-Credo che adesso, Cristopher, tu debba riposare. Non è d’accordo anche lei, signorina?
Rosa riuscì a farfugliare un assenso, prima di andarsene dalla stanza.

-Mio dio, il maledetto meccanismo! Beh, l’hai ripulito proprio bene. È in ottimo stato. A proposito… come sta tua moglie?
-Bene, suppongo. Ho divorziato una decina di anni fa.
Lei si girò a guardarlo con un sopracciglio sollevato.
-L’ho lasciata io. Ti ricordi quando dicevo che non c’era amore tra noi, e la trovavo una donna incredibilmente noiosa? Forse pensavi che mentissi.
-Oh, no, mai pensato. Sono assolutamente certa che lo fosse.
Lui sorrise.
-Ecco, diciamo che a un certo punto è diventata davvero troppo noiosa. I figli erano grandi e cominciavo a scavare sempre meno e scrivere sempre di più. A un certo punto ho capito che per scrivere i libri e tenere le mie lezioni non servivano i suoi finanziamenti. Naturalmente si è tenuta quasi tutto, è giusto, apparteneva tutto a lei; vivo con i diritti d’autore e le mie conferenze. Ma non sono mai stato un grande amante del lusso.
Rosa sorrise. Il silenzio era spezzato solo dal suono leggero delle carte, e dai tacchi di Rosa che camminava per la stanza. A un certo punto si fermò davanti ad una bella scatola di legno, che conteneva una pietra bianca, levigata. Rise.
-Non ci credo, hai ancora questa?

I vapori del lago Usori rendevano ovattata l’atmosfera. Erano là per via di una donna, una donna con i capelli neri diversi dai suoi, che aveva detto loro che il marito aveva trovato uno strano oggetto sulle sponde di quel lago, e se all’onorevole professore poteva interessare comprarlo. All’onorevole professore era interessato parecchio, visto che si trattava di un frammento di una listarella d’avorio con tre kanji che non era affatto kanji, così aveva ricompensato la donna ed erano partiti. Rosa aveva amato moltissimo la vertiginosa Tokyo, ma sentiva che quel silenzio le piaceva. Cristopher era rimasto a parlare con uno dei monaci, lei passeggiava lungo la distesa di rocce e pozze sulfuree che circondava il lago.
Fu lì che la vide per la prima volta.
La donna, che sembrava tremolare in mezzo alla foschia del lago, le fece un lieve inchino e le andò incontro; aveva un sorriso placido come la luna. Forse era una delle sacerdotesse, pensò Rosa.
Come a voler confermare questa ipotesi, la donna le mise in mano un rosario buddista, sempre sorridendo. Rosa aveva l’impressione che quella donna fosse antica, che quegli occhi vedessero lei e tutto il resto del mondo, contemporaneamente; accettò il rosario con un inchino, ringraziando in giapponese. – Nenzu o kazoete -, le disse la donna, chiudendole le dita intorno ai grani con tocco delicato. Rosa annuì, senza avere capito.
-Con chi parli?-, le chiese improvvisamente Cristopher. Lei sussultò; vide con la coda dell’occhio la donna che scompariva dietro una roccia. Per un momento le era sembrato che non avesse un solo paio di braccia, ma ne avesse infinite, e in ogni mano portasse un dono. Scosse la testa, forse erano i vapori delle pozze di zolfo che la ingannavano.
-C’era una sacerdotessa. Mi ha dato questo e mi ha detto nenzu o kazoete.
-Conta le perle. Chissà come mai.
Rosa lo scoprì poche ore dopo.
La barca che avevano preso approdò sull’altra sponda del lago, placida. I due scesero sulla riva.
E a quel punto il paesaggio cambiò.
I vapori del lago cominciarono a farsi roventi. Le pozze erano diventate fornaci in cui uomini e donne nude erano costretti a entrare, bruciando terribilmente. Persone con la pelle coperta da orribili ustioni venivano segate in due da demoni con la pelle blu, armati di seghe arrugginite; altri venivano impalati su tridenti e messi su pozze ardenti di fiamme, altri venivano costretti a combattere su lastre di metallo arroventate, con grandi mazze, sempre pungolati dai demoni. Non si erano ancora accorti di loro, ma presto li avrebbero visti, e allora di sicuro le loro grida si sarebbero mescolate a quelle degli altri uomini e donne, sarebbero stati spogliati, bruciati, divorati vivi…
Rosa, terrorizzata, si ritrovò tra le mani il rosario che le aveva dato la donna misteriosa. “Conta le perle”.
Cominciò a sgranarlo tra le dita, contando a voce alta. Una, due, tre… pensò che il rosario era piccolo, le perle sarebbero finite in fretta, e invece no. Le vennero in mente i monaci che scandivano i sutra con una melodia quasi ipnotica, si concentrò sui numeri, escluse tutto il resto, il calore, le fiamme, i demoni, e contò, contò, un numero dopo l’altro, un grano dopo l’altro.
Quando non sentì più caldo, aprì gli occhi. Era sulla sponda del lago, i sassi le pungevano le ginocchia, Christopher era di fianco a lei, e gridava. La donna che gli aveva venduto la piastra d’avorio, quella con i capelli neri diversi dai suoi, gli era sopra e lo guardava, protendendo le braccia verso di lui.
-Ferma!-, gridò Rosa, afferrando Christopher e tirandolo verso di sé. Lui si agitò, allontanandola.
La donna con i capelli neri diversi dai suoi la fissò. Fece una specie di ringhio. Il volto trasfigurò in una bianca maschera di mostro, i capelli come corde nere che le volavano intorno.
-Lascialo a me-, sibilò, -lui non ti amerà mai abbastanza, lasciami prendere la mia vendetta, fammelo trascinare all’inferno!
Le parole dello spirito le risuonavano direttamente in testa, come concetti, più che come parole. Le fecero male, perché erano vere.
Non per questo Rosa era disposta a mollarlo a uno spirito demoniaco; dopotutto, Chris una moglie ce l’aveva già.
Strinse il rosario che le aveva dato la donna, continuando a contare i grani. Christopher era ancora a terra, urlava, cercava di allontanare cose invisibili. Lo spirito urlava, cercando di distrarla.
-Chris. Stammi a sentire. Sei qui con me. Ascoltami.
Lui roteò gli occhi, si voltò verso di lei. Lo spirito gli si scagliò contro.
-Ti chiami Christopher Lockwood. Sei un professore. Sei un archeologo.
Ogni perla tra le dita, un frammento della sua identità. Lo spirito sembrava non potersi avvicinare, i sassolini del lago le vorticavano intorno, graffiandola. Ma continuava a parlare nella sua testa, dicendole quanto fosse vile, incapace di amare, quanto l’avrebbe fatta soffrire. Rosa non cedette. Ogni perla, un pezzo di lui. –Siamo venuti insieme in Giappone. Cerchiamo tracce di quella che chiami Atlantide. Io sono Rosa. Io ti amo.
Come quando ci si risveglia dagli incubi, Christopher gridò un’ultima volta e si rizzò a sedere, sudato, con gli occhi aperti. Lo spirito emise un grido straziante, che li assordò, poi si dissolse in frantumi. Quando Christopher e Rosa aprirono gli occhi, c’era solo il cadavere mezzo decomposto di una donna, i capelli neri e lunghissimi ancora attaccati al cranio.
Rosa tentò di stringere il rosario, ma non ci riuscì. Non aveva niente tra le mani.
Quando Christopher tentava di ripensare all’accaduto, ricordava solo i suoi incubi e poi la voce di Rosa che lo svegliava, proprio come quando si fa un brutto sogno. E, esattamente come in quel frangente, in pochi minuti si era dimenticato sia il sogno che le parole di Rosa. Le aveva raccontato che secondo la leggenda quel lago conduceva al mondo dei morti. In seguito avevano scoperto che la donna dai capelli neri diversi da quelli di Rosa, era stata uccisa dal suo amante parecchi anni prima. La listarella d’avorio non era che una banale pietra levigata, simile a mille altre pietre del lago; -Probabilmente, ognuno ci vede quello che si aspetta di vederci-, aveva considerato Christopher.
-Probabilmente ora che lo spirito della vendetta si è dissolto, potrà riposare in pace-, aveva detto Rosa.
Avrebbe visto di nuovo, invece, la misteriosa sacerdotessa che le aveva salvato la vita con il suo rosario: moltiplicata per mille in un tempio, sorriderle placidamente in centinaia di rappresentazioni, misericordiosa, un dono in ognuna delle sue migliaia di mani, gli occhi anche dietro la testa, per prendersi cura di tutta l’umanità.

-La tengo per ricordarmi dei miei errori. Quello è stato letteralmente un buco nell’acqua.
Rosa ridacchiò.
-E questa è stata una battuta proprio pessima.
-Non posso darti torto-. Poi divenne serio. –Mi sei stata indispensabile. Non so quanto ci sarebbe stato, in questa stanza, senza il tuo aiuto.
C’era tutto il mondo, in quella stanza. Un mattone inciso proveniente dalla Grande Muraglia cinese. Un’anfora dall’antica Grecia, con strani dèi raffigurati sopra, iconograficamente simili ma diversi a come venivano di solito rappresentati. Una mano mummificata proveniente dai ghiacci della Norvegia, con uno strano tatuaggio sul dorso.
Lei annuì. –Anche tu. Eravamo un’ottima squadra. Non credo che avrei fatto con nessun altro tutto quello che ho fatto con te.
Lui tacque. Si tolse gli occhiali, per fissarla meglio.
-Eravamo più di una squadra. Eri la mia ancora e la mia legge morale. Eri la mia rosa dei venti.

La loro guida si chiamava Zelio.
Era un indios magro e nervoso, che del suo popolo aveva conservato le conoscenze e i segreti della foresta, e dagli occidentali aveva imparato la logica del profitto. Era stato lui a condurli in quel villaggio non segnato su nessuna mappa, in una zona in cui la foresta non era conosciuta ai discendenti dei conquistadores; era stato lui a descrivergli la statua che quel villaggio venerava, il loro dio, che non era né un serpente né un uccello variopinto, ma un idolo umanoide, misterioso e ieratico. Gli indigeni li avevano accolti con una lieve diffidenza iniziale, ma tutto sommato senza troppi problemi; rimanevano perplessi davanti alla loro pelle chiara e agli oggetti che non avevano mai visto, ma non erano ostili. A pensare che li stavano per derubare del loro Dio, a Rosa si era stretto il cuore; ma Zelio, che vedeva solo la ricompensa che gli sarebbe spettata a fine missione, le aveva detto che gli dèi non esistono, e che quella statua sarebbe servita di più a loro. Non che Zelio avesse idea di cosa dovessero farci; sapeva solo che procurare arte indigena agli occidentali pagava, e pagava bene. Rosa aveva pensato di parlarne con Christopher, ma poi aveva preferito farci l’amore.
Avevano litigato, quella volta. Lui aveva di nuovo detto che era una storia che doveva finire, che lei era giovane e bella, che quello che provava per lui era sbagliato. –Non è quello che provo per te. È quello che non provo per nessun altro oltre a te-, gli aveva risposto lei. E il suo bel discorso sul dio era finito nel dimenticatoio.
Della bambina, l’avevano scoperto il giorno successivo.
La statua veniva custodita in un tempio poco lontano dal villaggio, su un’altura, ed esposta ai fedeli soltanto una volta in un anno. Nel tempio c’era il sacerdote, e un paio di persone che si occupavano di lei. La piccola dea.
Da quando nasceva, veniva chiusa nel santuario, accudita da gente che non le poteva rivolgere la parola e nemmeno troppi sguardi; solo al Sacerdote spettava il compito di comunicare con lei. Una volta all’anno veniva portata al villaggio, assieme alla statua, per essere adorata dal suo popolo. All’arrivo delle prime mestruazioni veniva sacrificata, e cercata una nuova dea. Rosa, che si sentiva schiacciata dalla situazione, ne aveva parlato con Cristopher.
-Non possiamo interferire. Sono le loro usanze; a noi sembrano terribili, ma non possiamo giudicare col nostro metro il loro sistema di valori.
-È questa la scusa che ti dai? Sei un maestro, tu, nel mentire a te stesso. Se portiamo via la statua la bambina probabilmente verrà uccisa.
-E se non la portiamo via, la bambina verrà uccisa lo stesso, tra qualche anno. Non c’è una via d’uscita, Rosa. Non so cosa fare.
-Sì che c’è. C’è sempre una via d’uscita, solo che a volte è stretta.
Lui la fissò intensamente. –Scordatelo. Quella bambina non è mai uscita da lì, crede di essere una dea. Cosa pensi che le succederà, se la portiamo via?
Rosa fece una risata amara. –Non so. Magari muore?
-Ci penserò. Ma tu ti rimetterai alla mia decisione. Sei la mia assistente, questi sono i casi in cui non devi dimenticarlo.
Rosa alzò un sopracciglio. –Come vuoi-, gli disse.
La notte dopo andarono al santuario. Era stato quasi più difficile uscire silenziosamente dal villaggio, che arrivarci. Misero fuori combattimento con facilità il Sacerdote e le due persone che accudivano la dea bambina. C’erano un paio di trappole, quasi banali per loro.
E poi una radura, con in mezzo un grande albero, e una nicchia scavata nel tronco, decorata da una grata di liane intrecciate con piume colorate. E c’era la piccola dea. Era una bambina strana, lo sguardo stupefatto che guastava appena la generale impressione di ieraticità che emanava. Rivolse loro una domanda. Il tono era di comando.
La ignorarono. Fu Zelio ad avvicinarsi per primo all’idolo, rompendo la delicata gabbia che lo celava. La bambina rise nel vederlo avvicinarsi alla statua, e disse qualcosa che suonava come un ammonimento.
-Aspetta!
Nel sentire la voce di Cristopher, l’uomo si fermò.
-Vorrei fare uno schizzo del ritrovamento. E potrebbe esserci una trappola anche qui.
-Sciocchezze. Qui c’è l’interdetto del Gran Sacerdote. Non ci sono trappole perché nessuno oserebbe venire qui, di quegli uomini!
Zelio afferrò la statua, e la bambina scoppiò a ridere, come se si aspettasse qualcosa. Sembrò smarrita quando non successe nulla e l’indios lanciò il dio a Christopher.
La guardarono. Christopher fissò l’idolo che teneva in mano. Zelio gli faceva segno di affrettarsi.
-Sarebbe facile. È fatta. Dobbiamo solo andarcene.
Rosa lo fissò. Aveva gli occhi come l’ossidiana, nella notte.
- Non scegliere quello che è facile. Scegli quello che vale la pena.
Zelio aveva imprecato quando si erano portati via la bambina, imbavagliandola perché non gridasse. Li avrebbe rallentati, aveva detto, la bambina sarebbe morta nella jungla; l’avevano lasciato parlare.
-Ti aumenterò il compenso-, aveva detto Christopher. Zelio era sembrato convinto.
Poi c’erano stati quei giorni nella jungla; era vero, la bambina li aveva rallentati, gli indigeni del villaggio erano decisi a riprendersi quello che gli apparteneva e conoscevano la foresta meglio di loro. Un paio di volte erano riusciti a sfuggirgli per un soffio. Finché una notte Rosa era stata svegliata da un rumore di colluttazione; aveva afferrato la pistola, ma non c’entravano gli indigeni. Christopher aveva colpito Zelio in faccia, dal labbro inferiore spaccato usciva un rivolo di sangue. Christopher aveva il gilet tranciato da un taglio: Zelio brandiva il machete con cui si faceva strada tra la vegetazione.
-Fermo o sparo!
Nel vedersi sotto tiro, la guida si bloccò.
-Voleva uccidere la bambina. E prendersi la statuetta, presumo!
-Ci faremo ammazzare, così. Perderete entrambe! Io non ho intenzione di morire con voi, e se volete arrivare al fiume avete bisogno di me.
-Allora inizia a camminare. Senza fare scherzi.
-Uccidete la ragazzina. O fatelo fare a me, se siete troppo bravi per sporcarvi le mani… ci rallenta. Non ci arriveremo mai al fiume, con lei.
-O ci arriviamo tutti, o non ci arriverà nessuno. Tantomeno tu. Ti suggerisco di impegnarti, Zelio.
Lui aggrottò il volto in un’espressione di rabbia. Poi sembrò quietarsi.
-Va bene, come dite voi.
Rosa abbassò la pistola. Fu a quel punto che Zelio, velocissimo, afferrò la bambina e la frappose tra lui e Rosa, il machete puntato alla gola.
-Volete la bambina? Bene, ve la lascio. Auguri. Datemi la statua, se tenete così tanto alla sua pelle.
Rosa aveva risollevato la pistola, ma non si azzardava a sparare. Guardò Christopher. –Dagliela-, le disse lui.
Anni dopo avrebbe ricordato che la bambina era placida, come se nulla di quanto le accadesse attorno potesse veramente ferirla. Era davvero convinta di essere una dea.
Prese la statuetta e gliela lanciò. Non aveva nemmeno avuto il tempo di fare qualche disegno.
Zelio lasciò cadere il machete per afferrare al volo l’idolo senza mollare la bambina. E fu a quel punto che Christopher, veloce come un gatto, si tuffò sul machete e glielo piantò nel fianco.
Si ritrovarono col fiato grosso a fissare Zelio che faceva bolle di sangue dalla bocca.
-Che dire? Ottimo lavoro…
-Non mi ha lasciato scelta.
-Sì che te l’ha lasciata-. Rosa gli diede un bacio rapido, sulla bocca. Lui sospirò.
-Non sappiamo dove siamo.
-Abbiamo una bussola. Dobbiamo solo arrivare al fiume.

-Quella volta ho pensato di morire. Quando ho visto il fiume e l’idrovolante quasi non ci credevo.
Accarezzò la statuetta, illuminata da una lampadina, che se ne stava impassibile al suo posto d’onore.
-La piccola Dea. Mi manda sue notizie, di tanto in tanto. Come sta?
Rosa sorrise, orgogliosa come una madre.
-È al suo terzo matrimonio. Viaggia il mondo. Non ha mai smesso di essere stramba. E credo che nel profondo sia ancora convinta di essere sul serio una dea… o perlomeno, nessuno degli uomini che l’ha amata ha fatto un minimo sforzo per farle credere il contrario.
-È merito tuo. Una tua creatura.
-Ho anche un figlio mio, sai.
Lui tacque per un momento. Fece una serie di mosse particolarmente fortunate.
-Lo so. Era in una delle foto che Dea mi aveva mandato, anni fa. Erano su un elefante.
-Si adorano. Dea e mio figlio, non l’elefante.
-Non mi dire. Sai, una volta mi scrisse che era contenta di non aver maledetto noi due.
Rosa lo fissò con sguardo interrogativo.
-Quando quella guida ha toccato la statuetta, lei gli aveva lanciato una maledizione.
-L’hai pugnalato con un machete. Non la chiamerei proprio maledizione.
-Le maledizioni si compiono con i mezzi che hanno, Rosa.
Tu sei stata il mezzo per la mia, le volle dire. Ma non ci riuscì.

Una rosa è una rosa è una rosa.
Rosa nel porto di Marsiglia, con una rosa rossa nei capelli e un vestito dall’aria spagnola.
Rosa e i suoi occhi giovani e bistrati e i capelli legati stretti da quella rosa, e lui che cercava di pensare al marinaio, al racconto che gli aveva fatto, a separare il grano dal loglio e lasciar perdere tutte le rose del mondo.
Rosa con un bicchiere in mano a fare girare la testa all’orchestra scalcagnata, ad attirarsi i commenti dei marinai e catalizzare gli sguardi, la nuca impudica e le labbra rosse sul bocchino nero, e Marsiglia faceva a gara per accenderle la sigaretta.
Il marinaio che gli aveva raccontato quella storia, delle rovine che si potevano vedere solo quando vento e mare erano fermi, e delle sirene con i denti da squalo che ci nuotavano sopra in cerchio per divorare chi si fosse voluto avvicinare, gli disse: –La tua donna è di quelle pericolose. Ha gli occhi del diavolo.
Rosa e gli occhi neri, le ciglia nere che sbatteva, ma lo guardava, si faceva versare un bicchiere da un uomo e raccogliere lo scialle da un altro, ma lo guardava, e gli occhi neri erano liquidi di alcool e ancora più neri.
-Non è la mia donna, è la mia assistente.
Il marinaio, che aveva raccontato del povero Andrè morto di scorbuto e fatto a pezzi e lanciato alle sirene-squalo, per distrarle, mentre lui e un altro si calavano tra le rovine per depredarne le ricchezze, lo guardò con compassione. –Non le sfuggirai mai. Potrai andare nel posto più lontano del mondo, e ce l’avrai ancora dentro.
L’orchestra suonava un tango. Suonava un tango e lo suonava per lei. Rosa ballava il tango tra le braccia degli altri, la schiena lunga, le gambe nervose, la rosa rossa così rossa in quei capelli di ossidiana.
Organizzare una nave. Trovare l’isola di cui parlava il marinaio, sempre che esistesse. Il marinaio che aveva riportato in superficie un pettinino di corallo finemente lavorato, prima che una delle sirene si portasse via la sua gamba dal ginocchio in giù, nell’acqua rossa di sangue di quello che era con lui.
Rosa e le dita di un altro che le accarezzavano il volto, mentre lui accarezzava il pettinino.
Si era alzato. Aveva pagato quello che aveva bevuto il marinaio. -È tardi, torniamo in albergo-, aveva detto a Rosa, tra le proteste degli uomini che erano con lei.
Rosa era giovane e aveva gli occhi del diavolo e non poteva sfuggirle.
La sua bocca sapeva di vino e ubriacava come vino, e aveva fatto l’amore con lei in un vicolo stretto, le mani appoggiate all’intonaco che si sgretolava, il viso affondato nella sua rosa rossa e nei capelli e negli occhi neri di Rosa.
Poi si era pentito e lei gli aveva detto di non ricominciare, ed erano andati a cercare l’isola del marinaio.

Mise giù le carte.
-Non ho mai smesso di pensarti. Non c’è stata nessun’altra, dopo di te. Non fare quella faccia, non ti sto dicendo che mi sono chiuso in convento; ma sei il mio più grande pentimento e il mio unico rimpianto.
-Mi fa piacere sentirtelo dire.
-Goditela, è la tua rivincita. Ti ho rifiutato quando potevo averti, e ora posso solo rievocare vecchi ricordi e sentirti parlare dell’uomo che ami. Mi sta bene.
-Mi hai dato un terrificante due di picche. Magari è ora che te lo restituisca.
-Immagino che arrivi per tutti quel momento-, commentò Christopher in tono amaro.
Lei prese la sua borsa, e con calma aprì il portafoglio.
Ne estrasse una carta, gliela mostrò tenendola tra due dita e poi gliela fece scivolare sul tavolino, come facevano i croupier tanti anni prima. Era il due di picche.
-L’ho tenuto tutti questi anni. Come monito all’inizio, poi semplicemente non sono mai riuscita a disfarmene. Negli ultimi tempi ci ho pensato in continuazione.
Christopher guardava la carta consunta. Era stata manipolata, il tempo l’aveva ingiallita. Come quelle del suo mazzo.
La mise in mezzo al mazzo e cominciò a mescolare le carte, meccanicamente.
-Mio marito è morto quattro anni fa. L’ho pianto molto. Poi ho ricominciato a viaggiare, mi faceva impazzire stare ferma, senza di lui. Sono riuscita a vedere alcuni graffiti dell’Ayers Rock, mi ci ha portato un vecchio sacerdote tatuato. E ho notato questo.
Gli allungò una fotografia.
Era forse una delle frasi (se era una frase) più lunga che avesse visto, nella lingua di Atlantide. Si alzò, confrontò alcuni simboli con quelli incisi in una lamina d’oro, in un teschio scolpito a forma di calice. Guardò Rosa, che sorrideva con quel sorrisetto trionfante che faceva dopo aver fatto l’amore, il sorriso che diceva che aveva vinto ancora lei, era in trappola, catturato, di nuovo.
-È ora che ripartiamo, noi due. Siamo stati fermi troppo a lungo.
-Lo vuoi fare davvero.
Non era una domanda. Si accorse persino lui di quanto era suonata elettrizzata quell’affermazione. Lei annuì.
-Spaventato?
-Terrorizzato. Mortificato. Pietrificato. Disorientato. Da te.
Rosa sorrise.
-Come sempre, mio caro.















Note: Questa storia è stata scritta per il compleanno di vannagio… arriva in netto ritardo, ma spero che la festeggiata la possa apprezzare comunque!
In secondo luogo, per trovare ispirazione ho partecipato al contest “Quanti punti vuoi?” indetto da DonnieTZ sul forum di Efp. Prevedeva di scegliere una serie di prompt su cui costruire la storia; se siete curiosi, i prompt che ho utilizzato sono nel topic del contest, qui specifico solo, per amor di correttezza, che le frasi “Non scegliere quello che è facile. Scegli quello che vale la pena.”, “Non è quello che provo per te, è quello che non provo per nessuno oltre a te.” E “Spaventato?” “Terrorizzato. Mortificato. Pietrificato. Disorientato. Da te.” sono, appunto, prompt-citazioni e non farina del mio sacco.
Note sulla storia, in ordine di apparizione:
La citazione iniziale è dalla canzone “Martha” di Tom Waits, che potete ascoltare qui. Parla di un uomo avanti negli anni che ricontatta un vecchio amore. L’ho trovata perfetta.
Giovanni Miani è una figura storica esistita davvero. Al Museo di Storia Naturale di Venezia si possono visionare molti dei reperti ritrovati da lui, compresa la sacerdotessa e i coccodrilli (mummificati). Guardatelo in faccia qui, perché è notevole.
Anche lady Evelyn Carnarvon è esistita, era pure gnocca, ed ha assistito alla scoperta della tomba di Tutankhamon. Tra l’altro è stata la prima a infilarsi nell’anticamera, la fortunella.
Tutto il pezzo in India, con il “tempio maledetto” e la statua di Kalì (il cui nome significa “la nera”) è ovviamente uno smaccato omaggio a Indiana Jones, compresa la camicia stracciata del professore che rivela il bicipitino sexy. D’altra parte avevo un archeologo avventuroso, era un omaggio dovuto.
Il lago Usori esiste davvero, in Giappone, e secondo la credenza popolare è davvero una soglia che conduce all’aldilà, passando dall’inferno buddhista. Mi piacerebbe molto visitarlo, prima o poi.
La donna misericordiosa è Kannon, venerata in moltissimi templi in Giappone. Viene rappresentata con molte braccia e occhi anche dietro alla testa, per potere vedere e dare aiuto a tutto il mondo. C’è davvero un tempio in cui è moltiplicata per mille: si tratta del Sanjusangen-do a Kyoto, in cui c’è una sala con mille e uno statue di Kannon. Un colpo d’occhio notevole, ve lo assicuro.
Il pezzo della dea bambina lo devo a OttoNoveTre, che mi ha ceduto una sua idea.
E ora, i ringraziamenti: la già citata OttoNoveTre, non solo per l’idea ma per avermi supportato, sopportato, aiutato a plottare questa storia, betato, incoraggiato, tradotto la frase giapponese e tutto il resto, e la giudiciA del contest, per avermi dato qualcosa su cui avevo voglia di scrivere, e non importa come andrà, ho già vinto.
E naturalmente ringrazio tutti quelli che hanno letto e apprezzato questa storia, che si palesino o meno: grazie a tutti!




   
 
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