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Autore: Sissi Bennett    28/11/2008    2 recensioni
Nalita è una brillante studentessa di lettere, ha due sorelle e dei genitori che le vogliono bene. Allora perchè improvvisamente molla tutto e decide di trasferirsi per andare a fare la tata? Un lavore semplice che le permetterà di fare chiarezza nella sua mente, pensa lei. Ma non può nemmeno immaginare che la sua vita sarà completamente sconvolta.
Genere: Romantico, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tata si diventa

1)    Ottimi motivi per scappare di casa

Scommetto che almeno una volta nella vita tutti abbiano desiderato scappare dalla propria famiglia. Io provavo questa sensazione ogni giorno da quando avevo cominciato a camminare.

Non so se qualcuno di voi ha mai visto il film “Orgoglio e pregiudizio”. Io sì, un milione di volte e più lo guardavo più mi rendevo conto che la famiglia protagonista poteva essere la mia.

Come nel film anche noi eravamo tutte sorelle e come nel film anche mia madre era fissata con il matrimonio. Beh … fissata è un eufemismo, diciamo pure che viveva per vedere le sue figlie sposate felicemente come lei.

I miei genitori si erano conosciuti l’autunno del lontano 1984 a Parigi; in estate erano già sposati e l’anno dopo mia madre rimaneva incinta di mia sorella.

Lì erano nati i primi problemi sulla decisione del nome; mia madre, Kate, diceva di volere per i suoi bambini dei nomi particolari che nessun altro aveva; mio padre, Milton, un irlandese attaccato alle tradizioni, optava per una scelta più normale. Infine si accordarono: per le femmine il compito spettava a mamma, per i maschi a papà. Per sfortuna del caro Milton, Kate generò solo tre belle bambine.

Mamma aveva viaggiato per tutto il mondo e adorava le diverse culture, così decise che le sue figlie avrebbero avuto nomi delle nazioni di metà globo.

Alla mia sorellona toccò Lucita, nome spagnolo, che lei stessa aveva semplicemente abbreviato con Lucy. Aveva un anno in più di me e frequentava il mio stesso college a San Francisco, dove abitavamo. Era una bravissima ballerina, adorava la musica classica e aveva un’innata capacità di capire al volo le persone. Era la figlia perfetta.

Kikilia era la più piccola; il suo nome arrivava dalla Grecia, ma fuori casa tutti la chiamavano Kiki. Aveva solo diciassette anni ma era già uscita con tanti di quei ragazzi da fare invidia a chiunque. Kiki voleva sempre divertirsi, in ogni occasione, era la regina delle feste, la più popolare a scuola e sicuramente la più restia all’idea di maritarsi.

Mamma diventava matta con lei.

La peggiore delle sorti, però, capitò a me: mamma e papa erano in viaggio in India quando fui concepita, quindi era d’obbligo chiamarmi con un bel nome indiano.

A Bali avevano conosciuto una signora che si chiamava Lalita. Mia madre impazzì per quel nome, ma mio padre quella volta puntò i piedi: sosteneva infatti che Lalita fosse troppo simile a Lolita, frivolo e di poco conto. Così cambiarono la prima lettera e ne uscì Nalita.

Io odiavo Nalita ! Considerando che non era nemmeno un vero nome indiano, ma un’invenzione della mente malata dei miei genitori; era perfino impossibile trovare un soprannome decente.

Superato, quindi, il dramma dei nomi, mi sembra doveroso raccontarvi come da studentessa brillante di lettere, apprendista giornalista, finii a fare la tata.

Era un sera di ottobre casa mia era un vero devasto: vestiti sparsi ovunque, trucchi che ricoprivano il pavimento, scarpe sui letti e arricciacapelli appesi ai lampadari.

Mio padre in quel periodo non era ben messo dal punto di vista finanziario, ma rimaneva comunque uno degli uomini più rispettati della città e quella sera eravamo stati invitati ad una festa organizzata dal sindaco. Erano quei ricevimenti cui partecipavano solo le persone più ricche, più illustri e soprattutto più snob.

Io non sopportavo quelle occasioni, per mamma invece erano lo strumento perfetto per trovare dei mariti a tutte noi.

In realtà Kiki era esclusa dalle sue manie di matrimonio, poiché era ancora troppo piccola; ma non voleva dire che non ci fosse la possibilità di accalappiare qualche bel fidanzato.

“Tu comincia a trovare un ragazzo che ti piace e poi chissà tra qualche anno … “ erano le parole di mia madre prima di un evento del genere.

Io detestavo tali feste: erano noiose, banali e, non fatevi ingannare da “The O.C”, non finivano mai con una bella scazzottata.

Per lo più stavo appoggiata ad un muro, con in mano un bicchiere di Champagne che non terminavo mai, e osservavo la gente che fingeva di divertirsi: gli uomini se ne stavano in un angolo a fumare sigari, le donne spettegolavano a tutto andare.

Solo una cosa riusciva sempre a mettermi di buon umore: le ragazzine. Era davvero uno spasso vederle così agitate ed eccitate all’idea di partecipare ad un evento cui erano presenti tutte le personalità più importanti.

Illuse.

Stesa sul mio letto potevo sentire mia madre sgridare Kiki per il vestito troppo corto.

Con il piede diedi una botta alla porta e la chiusi. Le voci ora erano meno forti.

Istintivamente abbassai le palpebre colta da un attacco di sonno.

“Che ci fai lì? Non ti trucchi?”

Le parole di Lucy mi fecero capire che la porta era stata riaperta e che il mio attimo di pace era finito. Sbuffai “Io non ci vengo”.

“Non dire sciocchezze; mamma ci resterà male”.

Perché Lucy doveva essere sempre così dannatamente saggia?

Mi alzai di malavoglia e mi strascinai in bagno, mentre dal piano di sopra la voce di mia madre stava raggiungendo il livello degli ultrasuoni per convincere Kiki a cambiare abito.

Il mio era semplice come al solito: marrone, senza maniche, lungo fino alle caviglie.

Lucita era accanto a me e si stava preparando con una cura impeccabile. Aveva una strana luce negli occhi e non sapevo spiegarmi il perché. Sembrava felice di andare a quella festa; normalmente la pensava come me su quel tipo di evento.

La fissai di sottecchi per tutto il tempo che passammo davanti allo specchio.

C’era decisamente qualcosa che non andava.

Quando fui pronta scesi in salotto mio padre leggeva tranquillo il quotidiano.

Kiki ci raggiunse poco dopo con l’abito incriminato. A quanto pareva mamma non era riuscita nel suo intento.

Papà squadrò Kiki da capo a piedi, poi con tono calmo e fermo disse “Vatti a cambiare”

“Ma papà …”

“Niente ma”

Kiki pestò i piedi dal nervoso, ma salì ugualmente per scegliere qualcos’altro.

Kate era dietro mia sorella e guardò mio padre incredula.

“Ma come hai fatto?”

“Ci vuole polso”

Io scoppiai a ridere. Era un evento più unico che raro vedere mamma battuta da papà.

Mezz’ora dopo eravamo nell’ingresso del Municipio. La sala era stata allestita egregiamente: contro un muro c’era un tavolo con il rinfresco, a lato c’era lo spazio dedicato ai musicisti, la stanza adiacente era destinata a chi voleva giocare a carte o a biliardo.

Kiki sparì subito in cerca di qualche ragazzo, mamma intavolò una conversazione con le sue amiche, mentre papà si era diretto al tavolo da biliardo, deciso a vincere il torneo della serata. Io e Lucy rimanemmo da sole.

Presto si unì a noi un ragazzo con cui io e Lucy avevamo parlato qualche volta all’università, ma al momento mi sfuggiva il nome.

Lo guardai dall’alto al basso mentre si avvicina, con passo cadenzato da figo.

Un altro degli innumerevoli idioti che popolavano la stanza. Un altro ipocrita; uno qualunque.

“Perché due belle ragazze del genere sono qua da sole?” chiese ammiccando.

“Perché la sottoscritta non è dell’umore giusto per essere circondata da imbecilli” risposi.

“Come sei astiosa! Guarda che queste sono occasioni per incontrare gente nuova”.

Ma chi si credeva di essere per farmi la ramanzina?

“Certo! Tutta gente falsa!” ribattei.

“Lasciala stare Simon, oggi è di facile incazzatura” spiegò mia sorella.

Simon, ecco come si chiamava! Beh, rimaneva lo stesso un deficiente.

“Allora mentre tu sbollisci, io vado da quella tipa laggiù”.

Scomparve tra la folla.

Non feci nemmeno in tempo a pensare quanto fosse stupido, che Lucy si attanagliò al mio braccio e mi costrinse a voltarmi verso il muro.

“Oddio non guardare” mugugnò.

“Cosa?” chiesi.

“Oddio mi ha visto!” continuò lei senza darmi una risposta.

“Ma chi?”

“Oddio sta venendo qua!”

“Mi vuoi dire di chi stai parlando!”

Lei arrossì violentemente.

“Si chiama Nathan Toney, è un mio compagno all’università. E’ da un po’ che … insomma … secondo me c’è qualcosa tra di noi. Mi aveva detto che veniva a questa festa, ma pensavo scherzasse, lui non è tipo da gran galà”

Io sorrisi complice “Aaaa, ecco perché eri così contenta di venire”

Lei annuì e tentò di darsi una calmata; intanto quel Nathan si faceva più vicino.

Lo studiai attentamente: era carino, con i capelli scuri e gli occhi verdi. Vestiva elegante, con uno smoking nuovo di zecca. Aveva il viso simpatico e dolce.

Non era solo: accanto a lui camminava un altro ragazzo.

Quando i suoi occhi incrociarono i miei, credetti di perdere un battito. Era il più bel ragazzo che avessi mai visto. I suoi capelli erano mossi e biondi, aveva dei bellissimi occhi color miele, come oro fuso. Non indossava un abito accurato come quello di Nathan, ma aveva una grazia e una classe invidiabili. Aveva una giacca nera, sotto una camicia bianca e una cravatta rossa e portava dei Jeans chiari e stretti.

“Ciao Lucy” salutò Nathan gentilmente. Lei rispose con un sorriso e mi presentò.   

“Tanto piacere” disse Nathan porgendomi la mano “Lui è un mio amico, verrà con me alla Golden State University; si chiama Artemis Peyton”.

 “Io sono Lucy e lei è mia sorella Nalita”.

Udii una risata uscire dalla bocca di quell’Artemis. Lo guardai malissimo. Già non sopportavo il mio nome, ancora più mi irritavo quando lo schernivano.

“Ti fa tanto ridere? Direi che non sono l’unica ad avere un nome strano, giusto Artemis?” stetti ben attenta a calcare l’ultima parola.

Mia sorella mi tirò un calcio senza farsi notare. Mi rimproverava sempre di non sapere tener a freno la lingua. Il principino, che avevo classificato come  bello ma presuntuoso, tacque visibilmente imbarazzato dalla gaffe appena fatta.

“Che ne dite se andiamo a ballare?” propose Nathan per allentare la tensione.

“Ottima idea” lo appoggiò Lucy.

Lei e Nathan si allontanarono sulla pista da ballo; io rimasi a fissare con aria di sfida il ragazzo con gli occhi di miele.

“Senti … io non volevo prenderti in giro …” balbettò.

Io lo bloccai con un gesto della mano “Già trovo maleducato quello che hai fatto, almeno evita di essere ipocrita: ammettilo che trovi il mio nome ridicolo”.

Rimase sorpreso dal mio tono duro e dalle mie parole fredde. Si riprese subito, da snob arrogante qual era.

“Io trovo invece che tu sia stata piuttosto egocentrica a pensare subito che mi sia messo a ridere per te”

“Perché? Non è così?”

Eravamo due a zero.

“Certo che è così” confermò “Solo che non credo che tu ti sia arrabbiata per la risata, quanto per il contesto in cui è inserita”.

Era un ragazzo ben istruito, appariva immediatamente dal modo in cui esponeva i concetti, aveva una bella parlantina e il suono della sua voce era caldo e persuasivo.

Restò in silenzio in cerca delle parole giuste con le quali attaccarmi.

“Il tuo abito non è nulla di che e non ti sei sprecata con il trucco; quindi direi che di questa festa te ne frega ben poco, forse non volevi nemmeno venirci; anzi direi che sei stata costretta. Sei qui solo per dare il contentino a mamma e papà. Eri già su di giri quando ti ho preso in giro e io ho solo contribuito ad innervosirti ancora di più. Sbaglio forse?”

No. Non sbagliava. Era più bravo di quanto pensassi.

“Hai ragione, te lo concedo. Comunque siamo ancora due per me e uno per te” risposi.

“Se lo dici tu” infilò elegantemente le mani nelle tasche dei pantaloni “A proposito: il tuo prezioso vestito ha un grosso squarcio dietro”.

Mi voltai a controllare mentre le mie guancie si coloravano di rosso. Qualcun altro aveva già notato il mio abito rotto? Che figura.

Non vedevo bene il dietro della gonna e spostai un po’ la stoffa per esaminare meglio.

Questa volta dalla bocca del principino uscì una vera e propria risata che mi fece intendere che lo strappo era stato solo una brutto scherzo.

Mi rigirai furente.

“Due pari, Nalita” affermò confondendosi con le persone che ballavano.

Battuta da un figlio di papà qualunque. Non mi credevo capace di cadere tanto in basso.

Quel tipo si era allontanato da un po’, quando mia madre fece, puntuale come tutte le volte che mi scorgeva parlare con un ragazzo, la sua comparsa.

“Tesoro, chi era quello?”

“Un amico di Nathan” dissi sorseggiando il mio champagne.

“E chi è Nathan?”

“Un amico di Lucita”

Alla parola “amico” le brillarono gli occhi.

“Aaa amico!” e mi fece l’occhiolino a mo’ di chi la sa lunga. Quella donna doveva urgentemente farsi vedere da uno psicologo.

“E tu non hai un amichetto tesoro?”.

Amichetto???Ma cosa avevo? Dieci anni????

“Se mi stai chiedendo se ho un ragazzo, la risposta è no!”.

“Ma quel ragazzo è davvero carino … potresti provarci” azzardò.

“Mamma, per favore!” sbottai.

Uscii dal Municipio e chiamai un taxi. Avevo solo voglia di andare a casa. Ero stufa di sentire mia madre che mi biasimava. Io non volevo un ragazzo di facciata!

Era strano vedere casa mia immersa nel silenzio e nel buio; di solito qualcuno si dimenticava una luce accesa e c’era sempre qualche rumore fastidioso che mi faceva salire il nervoso.

Andai in cucina, gustandomi quella pace, e tirai fuori dal frigo il cartone della spremuta.

Ne versai un po’ in un bicchiere e mi trovai a fissare distrattamente il giornale aperto sul bancone. Un articolo in particolare catturò la mia attenzione.

Cercasi tata. Diceva il titolo.

Non è richiesto alcun curriculum; sono concesse due sere libere a settimana, più l’intera giornata di domenica, ottima paga. Per ulteriori informazioni contattare il numero 552-69145, Reginald Boulevard, 25, New York.

Ai miei occhi solo alcune parole risaltavano più delle altre: due sere libere, domenica, paga, New York; e improvvisamente balenò nella mia mente un’idea folle.

Mi ripetevo di continuo che appena avrei potuto, me ne sarei andata da casa mia; sarei stata indipendente e che avrei messo quanto più distanza possibile tra me e mia madre.

Non avevo mai fatto una pazzia in vita mia; mai.

Forse era giunta l’ora. Sì, avevo deciso: avrei fatto la tata.

 

All the pain I thought I knew/ tutte le sofferenze che credevo di conoscere
All my thoughts lead back to you/ tutti I miei pensieri riconducono a te
Back to what was never said/ nascosto dietro ciò che non è stato mai detto
Back and forth inside my head/ Avanti e indietro, nella mia mente
I can't handle this confusion/ non riesco a gestire la confusione
I'm unable; come and take me away/ non ne sono capace, vieni e portami via

  
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