Tata si diventa
1)
Ottimi motivi per scappare di
casa
Scommetto
che almeno una volta nella vita tutti abbiano desiderato scappare dalla
propria
famiglia. Io provavo questa sensazione ogni giorno da quando avevo
cominciato a
camminare.
Non
so se qualcuno di voi ha mai visto il film “Orgoglio e
pregiudizio”. Io sì, un
milione di volte e più lo guardavo più mi rendevo
conto che la famiglia
protagonista poteva essere la mia.
Come
nel film anche noi eravamo tutte sorelle e come nel film anche mia
madre era
fissata con il matrimonio. Beh … fissata è un
eufemismo, diciamo pure che viveva
per vedere le sue figlie sposate felicemente come lei.
I
miei genitori si erano conosciuti l’autunno del lontano 1984
a Parigi; in
estate erano già sposati e l’anno dopo mia madre
rimaneva incinta di mia
sorella.
Lì
erano nati i primi problemi sulla decisione del nome; mia madre, Kate,
diceva
di volere per i suoi bambini dei nomi particolari che nessun altro
aveva; mio
padre, Milton, un irlandese attaccato alle tradizioni, optava per una
scelta
più normale. Infine si
accordarono:
per le femmine il compito spettava a mamma, per i maschi a
papà. Per sfortuna
del caro Milton, Kate generò solo tre belle bambine.
Mamma
aveva viaggiato per tutto il mondo e adorava le diverse culture,
così decise
che le sue figlie avrebbero avuto nomi delle nazioni di metà
globo.
Alla
mia sorellona toccò Lucita, nome spagnolo, che lei stessa
aveva semplicemente
abbreviato con Lucy. Aveva un anno in più di me e
frequentava il mio stesso
college a San Francisco, dove abitavamo. Era una bravissima ballerina,
adorava
la musica classica e aveva un’innata capacità di
capire al volo le persone. Era
la figlia perfetta.
Kikilia
era la più piccola; il suo nome arrivava dalla Grecia, ma
fuori casa tutti la
chiamavano Kiki. Aveva solo diciassette anni ma era già
uscita con tanti di
quei ragazzi da fare invidia a chiunque. Kiki voleva sempre divertirsi,
in ogni
occasione, era la regina delle feste, la più popolare a
scuola e sicuramente la
più restia all’idea di maritarsi.
Mamma
diventava matta con lei.
La
peggiore delle sorti, però, capitò a me: mamma e
papa erano in viaggio in India
quando fui concepita, quindi era d’obbligo chiamarmi con un
bel nome indiano.
A
Bali avevano conosciuto una signora che si chiamava Lalita. Mia madre
impazzì
per quel nome, ma mio padre quella volta puntò i piedi:
sosteneva infatti che Lalita fosse
troppo simile a Lolita, frivolo e
di poco conto. Così
cambiarono la prima lettera e ne uscì Nalita.
Io
odiavo Nalita ! Considerando che
non
era nemmeno un vero nome indiano, ma un’invenzione della
mente malata dei miei
genitori; era perfino impossibile trovare un soprannome decente.
Superato,
quindi, il dramma dei nomi, mi sembra doveroso raccontarvi come da
studentessa
brillante di lettere, apprendista giornalista, finii a fare la tata.
Era
un sera di ottobre casa mia era un vero devasto: vestiti sparsi
ovunque,
trucchi che ricoprivano il pavimento, scarpe sui letti e
arricciacapelli appesi
ai lampadari.
Mio
padre in quel periodo non era ben messo dal punto di vista finanziario,
ma
rimaneva comunque uno degli uomini più rispettati della
città e quella sera
eravamo stati invitati ad una festa organizzata dal sindaco. Erano quei
ricevimenti cui partecipavano solo le persone più ricche,
più illustri e
soprattutto più snob.
Io
non sopportavo quelle occasioni, per mamma invece erano lo strumento
perfetto
per trovare dei mariti a tutte noi.
In
realtà Kiki era esclusa dalle sue manie di matrimonio,
poiché era ancora troppo
piccola; ma non voleva dire che non ci fosse la possibilità
di accalappiare
qualche bel fidanzato.
“Tu
comincia a trovare un ragazzo che
ti piace e poi chissà tra qualche anno …
“ erano
le parole di
mia madre prima di un evento del genere.
Io
detestavo tali feste: erano noiose, banali e, non fatevi ingannare da
“The O.C”,
non finivano mai con una bella scazzottata.
Per
lo più stavo appoggiata ad un muro, con in mano un bicchiere
di Champagne che
non terminavo mai, e osservavo la gente che fingeva di divertirsi: gli
uomini
se ne stavano in un angolo a fumare sigari, le donne spettegolavano a
tutto
andare.
Solo
una cosa riusciva sempre a mettermi di buon umore: le ragazzine. Era
davvero
uno spasso vederle così agitate ed eccitate
all’idea di partecipare ad un evento
cui erano presenti tutte le personalità più
importanti.
Illuse.
Stesa
sul mio letto potevo sentire mia madre sgridare Kiki per il vestito
troppo
corto.
Con
il piede diedi una botta alla porta e la chiusi. Le voci ora erano meno
forti.
Istintivamente
abbassai le palpebre colta da un attacco di sonno.
“Che
ci fai lì? Non ti trucchi?”
Le
parole di Lucy mi fecero capire che la porta era stata riaperta e che
il mio
attimo di pace era finito. Sbuffai “Io non ci
vengo”.
“Non
dire sciocchezze; mamma ci resterà male”.
Perché
Lucy doveva essere sempre così dannatamente saggia?
Mi
alzai di malavoglia e mi strascinai in bagno, mentre dal piano di sopra
la voce
di mia madre stava raggiungendo il livello degli ultrasuoni per
convincere Kiki
a cambiare abito.
Il
mio era semplice come al solito: marrone, senza maniche, lungo fino
alle
caviglie.
Lucita
era accanto a me e si stava preparando con una cura impeccabile. Aveva
una
strana luce negli occhi e non sapevo spiegarmi il perché.
Sembrava felice di
andare a quella festa; normalmente la pensava come me su quel tipo di
evento.
La
fissai di sottecchi per tutto il tempo che passammo davanti allo
specchio.
C’era
decisamente qualcosa che non andava.
Quando
fui pronta scesi in salotto mio padre leggeva tranquillo il quotidiano.
Kiki
ci raggiunse poco dopo con l’abito incriminato. A quanto
pareva mamma non era
riuscita nel suo intento.
Papà
squadrò Kiki da capo a piedi, poi con tono calmo e fermo
disse “Vatti a
cambiare”
“Ma
papà …”
“Niente
ma”
Kiki
pestò i piedi dal nervoso, ma salì ugualmente per
scegliere qualcos’altro.
Kate
era dietro mia sorella e guardò mio padre incredula.
“Ma
come hai fatto?”
“Ci
vuole polso”
Io
scoppiai a ridere. Era un evento più unico che raro vedere
mamma battuta da
papà.
Mezz’ora
dopo eravamo nell’ingresso del Municipio. La sala era stata
allestita
egregiamente: contro un muro c’era un tavolo con il
rinfresco, a lato c’era lo
spazio dedicato ai musicisti, la stanza adiacente era destinata a chi
voleva
giocare a carte o a biliardo.
Kiki
sparì subito in cerca di qualche ragazzo, mamma
intavolò una conversazione con
le sue amiche, mentre papà si era diretto al tavolo da
biliardo, deciso a
vincere il torneo della serata. Io e Lucy rimanemmo da sole.
Presto
si unì a noi un ragazzo con cui io e Lucy avevamo parlato
qualche volta
all’università, ma al momento mi sfuggiva il nome.
Lo
guardai dall’alto al basso mentre si avvicina, con passo
cadenzato da figo.
Un
altro degli innumerevoli idioti che popolavano la stanza. Un altro
ipocrita;
uno qualunque.
“Perché
due belle ragazze del genere sono qua da sole?” chiese
ammiccando.
“Perché
la sottoscritta non è dell’umore giusto per essere
circondata da imbecilli”
risposi.
“Come
sei astiosa! Guarda che queste sono occasioni per incontrare gente
nuova”.
Ma
chi si credeva di essere per farmi la ramanzina?
“Certo!
Tutta gente falsa!” ribattei.
“Lasciala
stare Simon, oggi è di facile incazzatura”
spiegò mia sorella.
Simon,
ecco come si chiamava! Beh, rimaneva lo stesso un deficiente.
“Allora
mentre tu sbollisci, io vado da quella tipa
laggiù”.
Scomparve
tra la folla.
Non
feci nemmeno in tempo a pensare quanto fosse stupido, che Lucy si
attanagliò al
mio braccio e mi costrinse a voltarmi verso il muro.
“Oddio
non guardare” mugugnò.
“Cosa?”
chiesi.
“Oddio
mi ha visto!” continuò lei senza darmi una
risposta.
“Ma
chi?”
“Oddio
sta venendo qua!”
“Mi
vuoi dire di chi stai parlando!”
Lei
arrossì violentemente.
“Si
chiama Nathan Toney, è un mio compagno
all’università. E’ da un po’
che …
insomma … secondo me c’è qualcosa tra
di noi. Mi aveva detto che veniva a
questa festa, ma pensavo scherzasse, lui non è tipo da gran
galà”
Io
sorrisi complice “Aaaa, ecco perché eri
così contenta di venire”
Lei
annuì e tentò di darsi una calmata; intanto quel
Nathan si faceva più vicino.
Lo
studiai attentamente: era carino, con i capelli scuri e gli occhi
verdi.
Vestiva elegante, con uno smoking nuovo di zecca. Aveva il viso
simpatico e
dolce.
Non
era solo: accanto a lui camminava un altro ragazzo.
Quando
i suoi occhi incrociarono i miei, credetti di perdere un battito. Era
il più
bel ragazzo che avessi mai visto. I suoi capelli erano mossi e biondi,
aveva
dei bellissimi occhi color miele, come oro fuso. Non indossava un abito
accurato come quello di Nathan, ma aveva una grazia e una classe
invidiabili.
Aveva una giacca nera, sotto una camicia bianca e una cravatta rossa e
portava
dei Jeans chiari e stretti.
“Ciao
Lucy” salutò Nathan gentilmente. Lei rispose con
un sorriso e mi presentò.
“Tanto
piacere” disse Nathan porgendomi la mano “Lui
è un mio amico, verrà con me alla
Golden State University; si chiama Artemis Peyton”.
“Io sono Lucy e
lei è mia sorella Nalita”.
Udii
una risata uscire dalla bocca di quell’Artemis. Lo guardai
malissimo. Già non
sopportavo il mio nome, ancora più mi irritavo quando lo
schernivano.
“Ti
fa tanto ridere? Direi che non sono l’unica ad avere un nome
strano, giusto Artemis?”
stetti ben attenta a calcare
l’ultima parola.
Mia
sorella mi tirò un calcio senza farsi notare. Mi
rimproverava sempre di non
sapere tener a freno la lingua. Il principino, che avevo classificato
come bello ma
presuntuoso, tacque visibilmente
imbarazzato dalla gaffe appena fatta.
“Che
ne dite se andiamo a ballare?” propose Nathan per allentare
la tensione.
“Ottima
idea” lo appoggiò Lucy.
Lei
e Nathan si allontanarono sulla pista da ballo; io rimasi a fissare con
aria di
sfida il ragazzo con gli occhi di miele.
“Senti
… io non volevo prenderti in giro …”
balbettò.
Io
lo bloccai con un gesto della mano “Già trovo
maleducato quello che hai fatto,
almeno evita di essere ipocrita: ammettilo che trovi il mio nome
ridicolo”.
Rimase
sorpreso dal mio tono duro e dalle mie parole fredde. Si riprese
subito, da
snob arrogante qual era.
“Io
trovo invece che tu sia stata piuttosto egocentrica a pensare subito
che mi sia
messo a ridere per te”
“Perché?
Non è così?”
Eravamo
due a zero.
“Certo
che è così” confermò
“Solo che non credo che tu ti sia arrabbiata per la
risata, quanto per il contesto in cui è inserita”.
Era
un ragazzo ben istruito, appariva immediatamente dal modo in cui
esponeva i
concetti, aveva una bella parlantina e il suono della sua voce era
caldo e
persuasivo.
Restò
in silenzio in cerca delle parole giuste con le quali attaccarmi.
“Il
tuo abito non è nulla di che e non ti sei sprecata con il
trucco; quindi direi
che di questa festa te ne frega ben poco, forse non volevi nemmeno
venirci;
anzi direi che sei stata costretta. Sei qui solo per dare il contentino
a mamma
e papà. Eri già su di giri quando ti ho preso in
giro e io ho solo contribuito
ad innervosirti ancora di più. Sbaglio forse?”
No.
Non sbagliava. Era più bravo di quanto pensassi.
“Hai
ragione, te lo concedo. Comunque siamo ancora due per me e uno per
te” risposi.
“Se
lo dici tu” infilò elegantemente le mani nelle
tasche dei pantaloni “A
proposito: il tuo prezioso vestito
ha
un grosso squarcio dietro”.
Mi
voltai a controllare mentre le mie guancie si coloravano di rosso.
Qualcun
altro aveva già notato il mio abito rotto? Che figura.
Non
vedevo bene il dietro della gonna e spostai un po’ la stoffa
per esaminare
meglio.
Questa
volta dalla bocca del principino uscì una vera e propria
risata che mi fece
intendere che lo strappo era stato solo una brutto scherzo.
Mi
rigirai furente.
“Due
pari, Nalita”
affermò confondendosi
con le persone che ballavano.
Battuta
da un figlio di papà qualunque. Non mi credevo capace di
cadere tanto in basso.
Quel
tipo si era allontanato da un po’, quando mia madre fece,
puntuale come tutte
le volte che mi scorgeva parlare con un ragazzo, la sua comparsa.
“Tesoro,
chi era quello?”
“Un
amico di Nathan” dissi sorseggiando il mio champagne.
“E
chi è Nathan?”
“Un
amico di Lucita”
Alla
parola “amico” le brillarono gli occhi.
“Aaa
amico!” e mi fece l’occhiolino a mo’ di
chi la sa lunga. Quella donna doveva
urgentemente farsi vedere da uno psicologo.
“E
tu non hai un amichetto tesoro?”.
Amichetto???Ma
cosa avevo? Dieci anni????
“Se
mi stai chiedendo se ho un ragazzo, la risposta è
no!”.
“Ma
quel ragazzo è davvero carino … potresti
provarci” azzardò.
“Mamma,
per favore!” sbottai.
Uscii
dal Municipio e chiamai un taxi. Avevo solo voglia di andare a casa.
Ero stufa
di sentire mia madre che mi biasimava. Io non volevo un ragazzo di
facciata!
Era
strano vedere casa mia immersa nel silenzio e nel buio; di solito
qualcuno si
dimenticava una luce accesa e c’era sempre qualche rumore
fastidioso che mi
faceva salire il nervoso.
Andai
in cucina, gustandomi quella pace, e tirai fuori dal frigo il cartone
della
spremuta.
Ne
versai un po’ in un bicchiere e mi trovai a fissare
distrattamente il giornale
aperto sul bancone. Un articolo in particolare catturò la
mia attenzione.
Cercasi
tata. Diceva
il titolo.
Non
è richiesto alcun curriculum; sono
concesse due sere libere a settimana, più l’intera
giornata di domenica, ottima
paga. Per ulteriori informazioni contattare il numero 552-69145,
Reginald
Boulevard, 25, New York.
Ai
miei occhi solo alcune parole risaltavano più delle altre: due sere libere, domenica, paga, New York; e
improvvisamente balenò
nella mia mente un’idea folle.
Mi
ripetevo di continuo che appena avrei potuto, me ne sarei andata da
casa mia;
sarei stata indipendente e che avrei messo quanto più
distanza possibile tra me
e mia madre.
Non
avevo mai fatto una pazzia in vita mia; mai.
Forse
era giunta l’ora. Sì, avevo deciso: avrei fatto la
tata.
All
the pain I thought I knew/ tutte le sofferenze che credevo di conoscere
All my thoughts lead back to you/ tutti I miei pensieri riconducono a
te
Back to what was never said/ nascosto dietro ciò che non
è stato mai detto
Back and forth inside my head/ Avanti e indietro, nella mia mente
I can't handle this confusion/ non riesco a gestire la confusione
I'm unable; come and take me away/ non ne sono capace, vieni e portami
via