CAPITOLO
QUARANTOTTO
Avrebbe
dato qualsiasi cosa per poter lanciare un
semplice incantesimo e farsi portare in cima in un battibaleno,
pensò James
mentre con un sospiro di fatica metteva il piede nel prossimo appiglio.
Quello era
il pensiero che accomunava più o meno le menti di tutti dal
momento in cui si
erano avventurati in quella dannata spedizione. Potevano usare la
magia, certo,
ma solo incantesimi basilari e solo per poco tempo, non
sufficientemente utile
per superare quell’ultimo ostacolo. Era la solita fregatura.
Così si erano
dovuti arrangiare come i babbani quando scalano una montagna, legandosi
la
corda attorno alla vita e procedendo in salita, lentamente e a fatica.
Mancavano
pochi metri, solo pochi metri li separava
dal fiore magico che avrebbe salvato la vita a JamesRemus.
Ce l’avrebbero fatta, sarebbero tornati a casa tutti sani e
salvi.
Ma,
non appena salirono di un altro po’, John
perse la presa sullo spigolo e si trovò a
volteggiare nel vuoto, con solo la corda che lo sosteneva. Il ragazzo
lasciò
andare un grido e allungò un braccio per recuperare il
costone di roccia. Fu inutile.
Si
dondolò un altro po’ ma anche quel tentativo non
ebbe successo.
“John,
riesci a darmi la mano?” gli chiese Frank
porgendogli la mano affinché il figlio riuscisse a
raggiungerla. Ma anche
quella era troppo lontana. Il ragazzo imprecò sottovoce.
Come aveva fatto a
essere così maldestro?
Guardò
in alto, poi in basso e fu colpito dalle
vertigini. Il pensiero che ci fosse soltanto quel pezzo di corda legato
attorno
alla sua vita a separarlo dalla voragine che si apriva sotto di lui gli
metteva
i brividi.
“Ragazzi,
la corda non reggerà ancora a lungo”, fece
notare Sirius guardando il pezzo di fune sotto di lui che iniziava a
strapparsi. “Così rischiamo di precipitare tutti
quanti”.
“Lo
avevo detto io che non era una buona idea
legarci tutti insieme”, commentò James.
John
si dondolò ancora, questa volta più forte, ma
tutto ciò che ottenne fu di far rischiare anche agli altri
di perdere la presa.
“Dobbiamo
trovare una soluzione”, disse Frank, il
volto pallido e sfigurato per la fatica. “E al più
presto”.
Il
giovane Paciock afferrò la corda con entrambe le
mani e chiuse gli occhi in un’espressione rassegnata. Una
soluzione c’era e lui
sapeva qual era. Non gli piaceva, non avrebbe mai voluto ricorrerci ma
non c’erano
alternative. Non poteva rischiare di far morire tutti quanti e non
poteva
nemmeno rallentare il passo.
Meglio uno che tutti, no?
Joel,
sull’altro lato del costone, lo guardava con
occhi enormi e spaventati. Aveva capito cosa l’amico voleva
fare, capiva
sempre.
“John,
no. Non pensarci neanche”.
“Devo
farlo”.
“Fare
che cosa?” si intromise Frank, gli occhi fissi
sul figlio.
Il
ragazzo alzò lo sguardo sul padre e gli sorrise.
“Ti
voglio bene, papà”.
Poi
estrasse un coltello dalla tasca e, ignorando un’altra
protesta da parte di Joel, fece quel gesto che aveva visto fare in uno
dei film
babbani che gli aveva fatto vedere Emmie: tagliò la corda
poco sopra la sua
testa.
Gli
altri non ebbero il tempo di sbattere le
palpebre, di reagire in alcun modo. Restarono a fissare il corpo di
John che
precipitava quasi al rallentatore, le braccia che si protendevano verso
l’alto,
in silenzio. Non un suono era uscito dalla sua bocca e quel sorriso
sulle
labbra non lo aveva ancora abbandonato.
Sembrava che tutto si fosse bloccato, persino il vento.
Il mondo aveva smesso di girare.
James
doveva vivere a tutti i costi, si ripeteva
Jolie. Ma a che serviva continuare a ripeterselo? Non lo avrebbe certo
trattenuto lì col potere delle parole, non funzionava
così, nemmeno nel loro
mondo. Le cose non erano mai così semplici, con tutta la
magia e tutte le
pozioni che possedevano le cose non erano mai semplici.
L’amico
era ancora vivo grazie soltanto alla sua
forza di volontà, ma si teneva legato al filo della vita con
i denti.
E oltre alla preoccupazione per lui c’era anche quella per
suo padre e suo
fratello, per Sirius, Frank, Joel e John che ancora non erano tornati.
Poteva essere
successo qualcosa anche a loro. Magari erano tutti morti o rapiti o
torturati.
Cercava di evitare quei pensieri ma venivano a tartassarla sempre
più spesso
man mano che passavano le ore e il tempo di James si accorciava.
Che
cosa avrebbe fatto lei se tutto fosse andato
storto? Se gli altri non fossero tornati col fiore e JamesRemus fosse
morto? Erano
tornati indietro nel tempo allo scopo di salvare Harry e avere una
speranza di
sconfiggere Voldemort invece avevano incasinato tutto ancora di
più, mandando
Il Ragazzo Che è Sopravvissuto in un’impresa
suicida.
Si
asciugò una lacrima che le era spuntata sul bordo
degli occhi e tirò su col naso. Poi abbassò lo
sguardo su James che dormiva
profondamente. Gli appoggiò una mano sulla fronte solo per
constatare che
scottava ancora come una fornace. La febbre lo stava divorando.
Gli strinse una mano tra le sue e cercò di infondersi
speranza. Ma non era lei
quella speranzosa del gruppo, non era lei quella ottimista. John e
JamesRemus
lo erano.
“Lie”,
sentì mugugnare sotto di lei. Il giovane
Black si era svegliato e stava sbattendo le palpebre per riuscire a
inquadrarla. “Lie”.
“Dimmi,
Jamie. Sono qui”.
“Lie”.
Il ragazzo non sembrava essere molto in sé.
Jolie gli strinse più forte la mano per fargli sentire la
sua presenza e
cercare di rassicurarlo almeno un po’. Aveva di nuovo chiuso
gli occhi
probabilmente riaddormentandosi.
Ma un altro mugugno le fece capire che non era così.
“Eres hermosissima, Lie.
Eres hermosissima”, mugugnò sottovoce.
“Come?
Non ho capito”.
“Te
quiero. Te quiero mucho”.
La
ragazza sospirò e gli posò la mano sul letto. Le
sembrava che dicesse cose senza senso, probabilmente delirava a causa
della
febbre.
“Andrà
tutto bene, Jamie. Andrà tutto bene”.
Ma
non ci credeva nemmeno lei. Niente sarebbe andato
bene.
Ariel
si staccò dallo stipite della porta e si
allontanò dalla stanza di JamesRemus con le mani in tasca.
Aveva voglia di spaccare qualcosa. E aveva voglia di piangere,
soprattutto di
piangere benché lo detestasse. Avrebbe voluto prendere a
pugni Jolie perché lei
non capiva, lei non capiva le parole che lui le diceva e non le avrebbe
mai
capite. Non capiva che il sentimento che James provava per lei era sincero e che lui
sarebbe andato anche in
capo al mondo se lei glielo avesse chiesto. Odiava Jolie, la odiava
perché non
era mai stata in grado di dimostrare nemmeno un briciolo di affetto per
James,
aveva saputo prenderlo solo a pugni. Lei non meritava il suo amore.
Eppure lo
riceveva lo stesso. E lui non pretendeva nulla in cambio.
Ma soprattutto la odiava perché era l’unica che
aveva il coraggio di stare al
suo capezzale.
Entrò
nel salotto vuoto e si sedette per terra
vicino alla finestra con la chitarra in mano. Non aveva voglia di
suonarla,
voleva soltanto tenerla perché la faceva sentire al sicuro.
Ma non c’era più
alcun angolo che fosse sicuro, non dalla morte almeno.
“Ariel!”
si sentì chiamare. Dalla porta Ninfadora
Tonks la guardava con la testa reclinata da un lato, negli occhi una
strana
luce. “Che ci fai qui?” le chiese. La ragazza fece
spallucce.
“Perché
non sei da tuo fratello?”
“C’è
Jolie”.
Tonks
entrò nella stanza e si sedette sul divano
continuando a guardare la bionda che, dal canto suo, continuava a
tenere gli
occhi fissi su una macchia del pavimento.
“Gli
altri torneranno presto”.
“Ancora
ci credi?”
Non
avevano fatto altro che ripeterlo in quegli
ultimi giorni e si era stancata di sentire sempre quelle parole. Ormai
avevano
perso qualsiasi significato.
“Perché
non dovrebbe essere così?”
Forse
perché se fosse così sarebbero già
tornati da
un pezzo, pensò la ragazza ma non lo disse. Non disse niente.
Non voleva più parlare, non voleva più nemmeno
spostarsi da lì e voleva che
Tonks la lasciasse in pace. Odiava anche lei in quel momento.
“Non
posso perdere mio fratello”, disse a bassa voce
tanto che si sentì soltanto lei.
L’aria
era incredibilmente silenziosa. C’era solo
silenzio. E immobilità. Nulla si muoveva, nulla faceva
rumore. Persino loro
sembrava che avessero smesso di respirare.
Ma la montagna era ancora lì, dura e ripida, non si era
spostata, non si era
accorciata e il fiore faceva bella mostra di sé con i suoi
petali colorati e
sembrava quasi che li stesse deridendo. Eppure Frank non sentiva niente
di
tutto questo, non percepiva nulla. Gli sembrava di star vivendo una
vita che
non era sua, di essere in un corpo che non era il suo, come in un
sogno. In un
incubo.
Era diventato insensibile.
“Dobbiamo
proseguire”, ordinò Sirius riprendendo la
scalata. Gli altri lo seguirono senza protestare, senza dire nulla.
In fondo, non c’era nulla da dire. Nulla.
L’immagine di John che precipitava nel vuoto era scolpita
nelle loro retine con
colori indelebili e non se ne sarebbe andata via mai più.
Sirius
fu il primo a raggiungere la cima, con un
sospiro e un gemito di fatica. Tastò con le mani la terra e
quasi la baciò
contento di essere finalmente al sicuro, più o meno, e
aiutò gli altri a
raggiungerlo.
Quando furono tutti al traguardo, rimasero a guardare il fiore a pochi
passi da
loro, ma senza avere il coraggio di toccarlo. Sembrava che avessero
davanti un
Dio o qualcosa di simile.
Finalmente Joel si decise ad allungare la mano e a raccogliere la
pianta, con
molta cautela, come se temesse che lo potesse mordere. Nulla di tutto
questo. Si
trattava di un semplice e banalissimo fiore.
“Tutto
qui? Tutto questo per un dannato fiore?”
sbottò Frank, troppo ansimante e stanco per urlare. James
gli poggiò una mano
sulla spalla cercando di dargli conforto, per quanto potesse aiutarlo.
Avevano superato
tutti gli ostacoli, avevano vinto ma non c’era ancora tempo
per la rabbia e il
dolore. E lui non voleva pensarci.
John
aprì gli occhi lentamente e si portò una mano
alla testa doveva aveva sbattuto. Il raggi del sole però lo
accecarono facendogli
quasi venire la nausea e fu costretto a richiuderli di nuovo. Allora
cercò di
controllare le altre parti del corpo, mosse le gambe e le braccia e
tutto il
resto e si sentì sollevato nel constatare che non aveva
nulla di rotto e che
poteva ancora muoversi.
Soltanto dopo lasciò che la mente analizzasse che
cos’era successo.
Aveva tagliato lo corda, lo aveva fatto per davvero. Ed era stato
semplice,
banale, scontato. Ma lui era fatto così, gli piacevano le
cose semplici ma in
grado di sorprendere. O, come in quel caso, di salvare la vita a
qualcun altro.
E non ci aveva pensato due volte. C’era di mezzo anche la sua
vanità, certo, il
pensiero che sarebbe morto da eroe, ma tutto sommato era contento di
essere
vivo.
Era
vivo. Non morto. Vivo.
E
allora scoppiò a
ridere. Rise finché non gli fece male la mascella, rise
finché non gli venne da
soffocare.
MILLY’S
SPACE
Hola!
Vi ricordate ancora di questa fanfic (probabilmente
no visto la mancanza di recensioni, ma è comprensibile ^^)?
Lo
so, non mi faccio viva da un sacco e probabilmente vi
starete chiedendo con quale coraggio io ricompaio qui dopo tutto questo
tempo e
con questo capitolo che è veramente una merdina. Ma che
posso dire? Non mi
piace lasciare le cose in sospeso e a questa storia ci tengo,
perciò io non
mollo, che voi lo vogliate o no.
Mi
sto rendendo conto che sto veramente tirando per le
lunghe questa parte della missione per salvare la vita a James ma a
volte non
ho il controllo dei miei personaggi ^^ No, comunque col prossimo
capitolo si
concluderà. E potrebbe anche arrivare presto, il prossimo
capitolo intendo.
Va
be’, basta con le chiacchiere. Spero di poter leggere
qualche recensione questa volta, lo spero davvero, potete anche
insultarmi, eh.
Nel frattempo io sarò emigrata in Messico a prendere il sole
e fumare
marijuana.
Besos.
Milly.