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Autore: _unintended    01/02/2015    1 recensioni
Bandit prese tra le mani una foto rovinata e ingiallita che ritraeva la sua famiglia, tutti e tre insieme seduti al divano della loro vecchia villa, quella vicina al lago, dove aveva passato tutta l’infanzia. Vide se stessa sulle ginocchia di sua madre, che la stringeva protettivamente, e vide suo padre, in tenuta militare, con quello sguardo intenso che lo aveva sempre caratterizzato fino all’ultimo istante della sua vita. Quello sguardo intenso che soltanto un’altra persona, in tutto il mondo, aveva saputo sostenere e ricambiare altrettanto intensamente. Soltanto una.
Quella sbagliata. In tutti i sensi.
"Se vuoi che non butti questi scatoloni non c’è problema, sai?"la rassicurò sua nipote vedendola così turbata.
"Sarah"
"Sì?"
"Devo raccontarti una storia."
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Bandit Lee Way, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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*big premessa* Ok, non so se avete mai visto il film “Dallas Buyers Club” . Se la risposta è no, beh, ve lo consiglio assolutamente, ma se lo avete visto allora saprete riconoscere il personaggio che ho introdotto in questo nuovo capitolo dehehe
In ogni caso lascio una piccola illuminazione a chi si stesse chiedendo di che diavolo sto parlando: il personaggio in questione(di cui ovviamente ho cambiato caratteristiche e nazionalità per adattarlo alla storia) è Jared Leto(asfdgthjkjl sì, il Gesù barbone nonché frontman della mia seconda band preferita), o più precisamente il trans malato di AIDS che Jared interpreta in Dallas Buyers Club, un personaggio che ho amato sin dal primo momento e che… no sentite, dovete vedere quel film assolutamente. Stop.
Buona lettura<3
M.
 
 
CAPITOLO 19 – LITTLE PINK TRIANGLE
 
FRANK
 
Sono due giorni che la neve non smette di cadere. Si fa sempre più fitta man mano che ci avviciniamo alla Germania, facendo sì che tutto il paesaggio sia come ammantato da una coperta bianca.
Non che io possa vedere molto. Le poche volte che posso avvicinarmi alla stretta finestrella sbarrata presente sulla parete destra del vagone, è soltanto di sera, quando tutti gli altri dormono nei loro angoli e mi lasciano un po’ di spazio per respirare e per muovermi.
Le giornate invece le passo rannicchiato nel mio angolo, tra una coppia di gay che non fanno che stringersi il più stretto possibile, e un anziano signore che non ha proprio l’aria da omosessuale. Del resto, nessuno qui ha l’aria di un omosessuale, né le donne né gli uomini. Sarebbe impossibile distinguerci se fossimo tra la gente comune, perché in ognuno dei miei “compagni di viaggio” vedo lo stesso terrore, la stessa paura della morte, la stessa disperazione che ci sarebbe negli occhi di una persona “normale” se fosse nella nostra stessa situazione.
Qual è il confine tra normalità e diversità? Qual è la differenza, e perché è così importante? Perché non la si può semplicemente accettare e basta, come si accetta il sorgere del sole al mattino, o come si accetta la diversità tra un volpino e un bulldog?
Potrei farmi queste domande fino alla fine dei miei giorni. Probabilmente se le fanno anche tutti gli altri passeggeri di questo maledetto treno, giusto per passare il tempo, perché non avremo mai una risposta. Intanto noi andiamo a morire chissà dove, poi magari tra qualche anno la troveranno. Forse, un giorno, qualcuno più intelligente di noi la troverà.
Dopo aver passato un paio d’ore nel furgone di Matteo, nel buio più totale, senza sapere dove mi avrebbero portato né se avrei mai più rivisto la luce, siamo arrivati ad una stazione. Lì mi hanno lasciato nelle mani dei controllori, e insieme ad un altro centinaio di persone sono salito su questo treno. L’ultimo sguardo che Matteo mi ha rivolto, al riparo nella sua macchina, mentre io venivo spinto a forza in un vagone, è stato così sprezzante, così pieno di crudeltà nuda e cruda da farmi chiedere come possano essere racchiusi in una sola persona così tanti sentimenti negativi.
Non esagero quando parlo di un centinaio di gente, anzi probabilmente ne sono molto di più. Vengono tutti da paesi diversi, paesi in guerra dove essere ciò che siamo è un reato proprio come in Italia, e mi chiedo se anche loro sono stati traditi dal sangue del loro sangue, ma ne dubito.
Rossana….
So che non lo ha fatto davvero per cattiveria. So che stava soltanto cercando di piacere a Matteo, e ha fatto ciò che lui le ha ordinato perché credeva fosse la cosa più giusta da fare. Magari quando si è intrufolata in camera mia non credeva nemmeno di trovare nulla di sospetto, ed era convinta di tornare dal suo fidanzato a mani vuote e porre fine a quella storia.
Solo che non riesco a non biasimarla. Lei mi ha condannato a tutto questo. Lei ha fatto sì che ora io sia qui, diretto in qualche campo di sterminio dove morirò di fame o di stenti, o dove semplicemente mi uccideranno. Lei ha permesso tutto questo, mi ha strappato da mia madre e da nonna e da Jamia e da Mikey… e da Gerard.
Non riesco a pensare lucidamente a lui. Non posso permettermi di pensarlo, o di immaginare il suo volto, o di riascoltare mentalmente le sue ultime parole, quell’ “A presto” che non si avvererà mai. Se ci penso impazzisco.
O forse sono già pazzo.
Forse sono già pazzo, perché credo di non poter sopportare un secondo di più i sussulti e i singhiozzi disperati della gente stretta attorno a me in questo vagone di pochi metri quadrati, i loro colpi di tosse, i loro starnuti, i loro respiri, l’odore dei loro corpi sudati, credo di non poter sopportare ancora a lungo la fame che mi corrode lo stomaco, la sete che mi sta prosciugando la bocca, e il cattivo odore che anche io mi porto addosso ormai da giorni.
È che ormai mi sono rassegnato. In fondo, chi voglio ingannare? Io sono sempre stato debole. Ero debole quando a scuola mi spingevano e mi prendevano in giro, e lo sono ancora adesso. Non è cambiato nulla.
Probabilmente se io ora fossi Gerard combatterei. Combatterei per cercare di sopravvivere, farei qualcosa, o semplicemente non mi darei per vinto e aspetterei l’occasione giusta, anche soltanto per dimostrare loro che non mi avranno, che non sono di nessuno e che non possono decidere della mia vita, anche se ce l’hanno in pugno.
Ma io sono Frank. Sono Frank Iero, il ragazzino basso e timido, quello con lo sguardo sempre a terra e i libri stretti al petto, quello che non ha mai combinato nulla di buono nella propria vita se non cercare di diventare amico di Gerard Way. E quando ci è riuscito, le cose hanno iniziato a precipitare, perciò in un certo senso non ce l’ha fatta neanche in quello.
Non soffro per me stesso. Non ho mai avuto paura per me, ho sempre subito passivamente aspettando che le cose migliorassero, ma senza mai dirmi che così non poteva continuare e che non potevo più farcela. E ora è lo stesso, perché penso a Mikey e a cosa accadrà quando non mi vedrà tornare, e passeranno i giorni e mi manderà lettere su lettere a cui non riceverà mai risposta. Mi chiedo cosa accadrà quando Gerard, semmai dovesse tornare dalla guerra, lo scoprisse. Cosa gli succederà. Se riuscirà a farcela, se riuscirà a tirare avanti.
Probabilmente sì.
È lui quello forte, sapete?
Forse l’ho già detto.
C’è una ragazza che mi fissa di continuo. Non fa altro che starsene lì, con le ginocchia magre e pallide strette al petto e lo sguardo azzurro e intenso fisso su di me. Mi guarda così attentamente, come se temesse che io sparissi da un momento all’altro, che mi sento a disagio ogni volta che incrocio i suoi occhi. Finalmente, dopo un tempo che non saprei definire se non come “ore passate a fissare il nulla”, mi si avvicina, e d’un tratto capisco tutto.
È un travestito.
Cioè, uno di quelli dei nightclub, quelli che la società a malapena conosce, quelli che negli Stati Uniti sono considerati alla stregua di prostitute, ma che almeno hanno il permesso di esercitare la loro professione in qualche locale – quei pochi presenti -  per omosessuali.
È un uomo vestito da donna.
Si siede accanto a me, stringendosi di più il cappotto attorno alle spalle troppo larghe per appartenere ad una donna, e ad un seno inesistente. Come ho fatto a non accorgermene prima? Ha la mascella dura e squadrata, tipica di un uomo, e lineamenti chiaramente maschili, nonostante vengano parzialmente coperti da qualche ciuffo castano di quella che probabilmente è una parrucca accuratamente confezionata.
Eppure… c’è qualcosa di così triste e indifeso nei suoi occhi azzurri, qualcosa di così fragile nel suo sguardo quando si posa su di me, che improvvisamente so per certo che risulterebbe assurdo e fuori luogo se appartenesse ad un uomo.
E tutti i pregiudizi che potevano avermi attraversato la mente quando l’ho vista avanzare verso di me svaniscono nel nulla, come se non fossero mai esistiti, quando lei apre la bocca per parlare con un sussurro dolce e appena accennato. “Ciao”
Dio, non ho mai sentito nulla di così ingenuo e puro in vita mia. Non… non so nemmeno perché, ma è come se mi venisse spontaneo il desiderio di proteggere questa creatura, qualsiasi cosa sia, qualsiasi cosa ci faccia qui.
Mi apro in un piccolo sorriso per la prima volta dopo secoli. “Ciao” le dico in risposta.
E lei mi sorride, quasi sorpresa che io sia così gentile.
“Qual è il tuo nome?” mi chiede ancora, e noto che ha un leggero accento francese.
“Frank.”
Mi tende la mano. “Io sono Rayon”. Gliela stringo, e la sua stretta è delicata e al tempo stesso forte, una contraddizione come lo è lei stessa, del resto.
“Sai, quel tizio laggiù sostiene che siamo quasi arrivati” mi dice, indicando un signore grassottello che confabula con un altro paio di persone. “Dice che lo sente nell’aria, e che presto le nostre sofferenze finiranno e andremo tutti in un posto migliore”
“Se per posto migliore intende un campo di concentramento, allora deve avere una strana visione delle cose” commento quasi sarcasticamente, e Rayon si porta una mano alla bocca per coprire una piccola risata.
“Ti avevo visto qui tutto solo e avevo pensato che magari ti servisse un po’ di compagnia” dice ancora, come se fossimo in un bar e mi stesse offrendo un drink, come se fosse la cosa più normale del mondo, come se non stessimo in una situazione in cui rimanere vivi è già un miracolo.
Annuisco, ma non riesco a dire nulla di significativo. Del resto, cosa potrei dire? “Beh sì, fa sempre piacere parlare con qualcuno prima di morire”, o “Potresti essere l’ultima persona a cui rivolgerò la parola”, o “Buona fortuna, magari ci rivedremo in un’altra vita”.
Rayon sembra capire, perché rimane in silenzio e non aggiunge altro.
“Frankie?” mi chiede dopo un po’, quasi esitante, e in un certo senso mi diverte che usi quel soprannome dopo esserci conosciuti da appena dieci minuti.
“Sì?”
“Possiamo essere amici?”
La guardo, e lei mi fa un sorriso smagliante. Questa ragazza – o ragazzo, non mi importa poi molto – mi sta chiedendo di fare amicizia ad un passo dalla morte, in un treno diretto chissà dove, lontano da tutto e tutti, lontano dalla libertà e da ciò che dovrebbe chiamarsi vita.
E per quanto assurdo e assolutamente pazzesco possa essere, io accetto. So che me ne pentirò e soffrirò ma… accetto.
“Amici.”
 
 
Potrebbe essere passato un giorno come una settimana da quella conversazione a quando le porte del vagone si aprono finalmente, scorrendo via e lasciando entrare una luce abbagliante e una folata di vento freddo che mi ghiaccia le ossa.
Stiamo letteralmente tremando tutti, mentre una decina di soldati si affaccia sulla soglia della carrozza e ci urla di scendere in tedesco. Per fortuna ho imparato quelle poche nozioni basilari a scuola, ma anche se così non fosse non ci sarebbero dubbi su ciò che vogliono, perché iniziano a tirarci su brutalmente ad uno ad uno e a farci scendere dal vagone.
Io riesco ad alzarmi pian piano, appoggiandomi alla parete, mentre Rayon è così tremante e intirizzita che un tedesco la afferra letteralmente dal bavero della giacca e la rimette in piedi.
Scendiamo dalla carrozza e atterriamo nella neve, guardandoci intorno. Come me, sono tutti sperduti e spaventati. C’è altra gente che scende da altri vagoni, ci sono altri soldati che fanno disporre le persone in fila e li portano via, chissà dove, chissà dove.
Rayon mi si stringe addosso, aggrappandosi al mio braccio, e in un certo senso gli sono grato perché sto letteralmente tremando dal freddo.
I tedeschi fanno mettere in fila anche noi, uno dietro l’altro, e ci conducono via dalla stazione, lungo un viale innevato e spoglio fino ad un grande, gigantesco cancello.
Lo guardo, e so già di cosa si tratta. La recinzione si estende per chilometri, con tanti fili di ferro appuntiti e sicuramente elettrificati, e soldati appostati ovunque. Al di là di essa, vedo solo desolazione. Morte e desolazione.
E noi stiamo per entrarci.
Davanti al cancello ci sono diversi uomini seduti a dei tavolini di legno, e per ciascuno di loro c’è una fila diversa di persone. Ai prigionieri di una certa fila, una volta arrivato il loro turno, applicano una stella a cinque punte sulla manica, e capisco che sono ebrei. Alla nostra fila invece non riesco a capire cosa spetti, fino a quando non tocca a me e io mi ritrovo davanti a questo ometto pelato e con gli occhiali che non mi guarda nemmeno in faccia. Prende una spilla da una ciotola, e poi mi applica un pezzo di stoffa sulla parte sinistra del petto.
Un triangolo di stoffa rosa.
Immagino sia questo il loro modo di distinguerci dagli altri. Per loro siamo questo: dei triangoli di stoffa, dei numeri, delle stelle a cinque punte, senza nome, senza identità, senza niente che possa definirci alla loro pari.
Tutto questo non ha senso. Non ha davvero senso, io non… non riesco a capire. Sul serio, qualcuno dovrebbe illuminarmi o spiegarmi cosa diavolo ci faccio qui, e cosa sono tutti questi soldati che ci trattano come se avessimo commesso dei crimini, come se fossimo degli schifosi assassini che meritano la morte. Qual è la nostra colpa?
Dopo che la fine è terminata, i cancelli vengono aperti e i tedeschi ci ordinano di avanzare. Quando ormai siamo dentro, io e qualche altro ci voltiamo a guardare, e li vediamo di nuovo richiudersi dietro di noi, con un tonfo finale che mi fa salire un brivido ghiacciato su per la schiena.
Incrocio lo sguardo di Rayon, che mi fissa spaventato. Nei suoi occhi, la mia stessa domanda: “Qual è la nostra colpa? Che cosa abbiamo fatto per meritarci questo?”
Per la prima volta da quando mi hanno portato via da casa, ho paura.
Ho paura. Sapete, è sempre stato Gerard quello forte.
   
 
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