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Autore: takemeouttonight    01/02/2015    1 recensioni
Dopo il suicidio di suo padre, la giovane Rachele lascia la sua Firenze per trasferirsi nella periferia romana. Con un fratello indolente, una sorella fin troppo responsabile e una madre che pensa solo alla rispettabilità familiare, Rachele è colpevole di essere una sognatrice le cui illusioni sono state calpestate.
Le illusioni di Lorenzo invece sono distrutte dalla quotidianità; ogni giorno deve fronteggiare la povertà e l'ignoranza che governano il mondo in cui vive, una famiglia da cui può avere solo un sostegno morale, il peso di una relazione che va avanti per abitudine e non per amore, il tentativo di autonomia economica per realizzare il suo sogno, la voglia di evadere.
Rachele e Lorenzo hanno qualcosa in comune: un quartiere, un sogno, una stessa facoltà di studi e l'inevitabile tempismo di finire, in qualche modo, insieme.
Ce la faranno, in un anno, a ricominciare davvero a vivere per i loro ideali, per il loro grande sogno?
Dal I capitolo: "Eppure, in quel volto dai tratti così violenti, duri ed emblematici di un'intera classe sociale, Rachele ci vide speranza. Forse anche lui era un sognatore. E più lo guardava, più voleva conoscere la sua storia."
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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PROLOGO
 
Cari lettori,
il mio nome è Carlo Marchetti.
Il mio nome è Carlo Marchetti e ho avuto cinquantaquattro anni.
Il mio nome è Carlo Marchetti, ho avuto cinquantaquattro anni, due mogli e tre figli.
Il mio nome è Carlo Marchetti, ho avuto cinquantaquattro anni, due mogli, tre figli e sono morto.
Già, sono morto. Sono polvere, sono stato cremato qualche ora fa, e ora, molto romanticamente, i miei figli stanno spargendo le ceneri sulle rive dell’Arno. Il mio corpo inerme è stato fuoco, e sì, finalmente nella mia vita mi sono sentito libero da ogni costrizione che l’esistenza mi aveva attribuito, di ogni peso che mi ha spinto a terminare volontariamente la mia vita.
Il mio nome è Carlo Marchetti e sono un suicida.
Già, sono così fiero di essere un suicida, di aver concluso quell’agonia esistenziale, fatta di sassi e di piombo che ogni giorno di più mi facevano sprofondare, quasi che volessero farmi trovare il fondo di un oceano o della stessa terra. E io li maledico, regalo alla mia prole tante ingiurie quante la mia prole starà augurando a me in questo momento, mentre  si libera delle mie ceneri nello stesso modo in cui io mi sono liberato di loro. Mi stanno augurando l’inferno, e so che presto lo giungerò e proverò pena per l’eternità, ma nessun inferno mi spaventa quanto mi atterriva quello della bella Firenze.
Il peso della vita, della mancanza di amore, la responsabilità di tre figli inconcludenti, deconcentrati, disavveduti, l’attrazione inesorabile per quella droga.
Ero un tossico, ero dipendente da quella droga, la droga più potente di tutto: il denaro. Ho fatto di tutto per Lui, ho addirittura preso la custodia dei miei figli contro la mia prima moglie, corrompendo qualcuno per offrirle un lavoro in Svizzera, per evitare di passarle gli alimenti, ho ricevuto prestiti per finanziare la mia impresa edile, ho fallito, mi son riempito di debiti e di tre figli che non ho mai voluto davvero.
Mi sono ucciso.
E sono così contento, oh, così contento, di aver lasciato quei bastardi con l’acqua alla gola, dopo il divorzio da mia moglie.
La più grande, Aurora, è un medico specializzando. Laureata in sei anni, aspirante neurochirurga, fidanzata da otto anni con un ingegnere, è pateticamente smielata, ottusa, misera, una sognatrice che potrebbe avere l’intero reparto in cui lavora in una mano se dedicasse un po’ del suo tempo, sempre impiegato tra amore per il fidanzato e dei fratelli, al lavoro. Potrebbe essere potente e già realizzata, ma preferisce dondolarsi con quei debosciati dei fratelli.
L’emblema del fallimento è  Italo, un inetto, stupido, dedito all’arte, vedendo in essa in chissà quale forma di sublimazione che mai ho visto applicare nella sua meschina vita. Venticinque anni persi nello studio di una stupida tela o una terribile chitarra, abbandonando gli studi di Economia Aziendale, abbandonando le sorelle e facendo il vagabondo, passando da una donna all’altra; cercavo me stesso non faceva che ripetermi quando tornava a casa dopo giorni di assenza, e allora cercavo di porre tutto l’odio possibile in quell’unico sguardo che gli rivolgevo; evidentemente ho fallito anche in questo, dati i suoi occhi atterriti e pieni di lacrime quando mi ha visto morto. È stato il primo a notare il mio corpo appeso al lampadario con la cinta di cuoio che sua madre mi aveva regalato prima del matrimonio. Ma non ha urlato, non ha mosso il più impercettibile muscolo: è stato paralizzato a fissare il mio corpo penzolante per due minuti o forse per un eternità, immobile, confuso, nichilista davanti alla morte. Italo è la più grande rappresentazione del nulla, del caos che è sostrato del mondo, della tortuosità. Ed in quel momento ha avuto talmente tante, infinite possibilità… da preferire il nulla.
Per questo non ho rimorso di averlo lasciato lì, ad annegare in quell’io ingombrante che lo soffoca e lo limita, che l’ha sempre reso ai miei occhi un bastardo.
E infine Rachele, l’unica figlia della mia seconda moglie. Una sciocca sognatrice, incantata nel suo mondo fatato, pigra e maldestra, ridicola. Forse troppo fragile, ma talmente delicata che forse soffro un po’ di averla lasciata con quella strega di sua madre e con quei fratelli, con quel carattere debole e fiacco, sempre silenzioso. Forse avrei dovuto proteggerla di più, avrei dovuto proteggerla al liceo durante il quale aveva quasi perso la testa per via di quel ragazzo che tanto la rifiutava per via dei suoi fianchi esageratamente larghi e per la sua scarsa femminilità. Avrei potuto dirle qualcosa, parlarne con mia moglie, una donna amara, distratta dallo sperpero della mia eredità e dalla bella immagine, tanto da dare a nostra figlia un’istruzione rigida e severa, da trasformarla da zimbello impertinente in una bambola di porcellana.
Quella donna mi ha rovinato, ha prosciugato ogni singolo ottimismo esistenziale, ogni singolo conto in banca, ogni singola prospettiva di vita. La sua aridità, i debiti, dei figli che non sono mai stati come avrei voluto che volessero. Nessun sorriso, nessun  senso di miglioramento, nessuna ricchezza, nessun brillante futuro mi avrebbero mai salvato dal baratro, da tutto questo. L’unica soluzione è stata la titanica, onesta, disperata rinuncia alla vita: l’unica via d’uscita era il nulla.
E al nulla sono approdato.
E adesso merito la mia adorata pena, ciò che ho aspettato con bramosia per i molti anni in cui ho meditato di porre fine a tutto.
E adesso, suvvia, lasciatemi solo. Lasciatemi perire tra i miei peccati, lasciatemi agonizzante tra il fuoco ardente di passioni e avidità, tra il sangue della codardia e della violenza, tra l’immane peso di essere un suicida.
Siete curiosi di conoscere il loro futuro, lo ignoro, non m’importa, così come mai mi è importato nella mia ripugnante vita, non tormentate me.
Tormentate loro.
Lasciatemi pure tribolare in questo dolore eterno.


 
PRIMO MESE
 
Aurora Marchetti aveva deciso di trasferirsi a Roma, quando le era stata offerta la specialistica al Policlinico, sicura di poter cominciare a lavorare in uno degli ospedali più importanti d'Italia dopo esser diventata una neurochirurga. In lacrime, aveva abbandonato il suo Saverio, promettendogli che ogni weekend avrebbe preso il treno per Firenze e sarebbe tornata da lui. Lui, ancora più disperato di lei, le aveva perfino chiesto di sposarlo, ma lei aveva detto che forse quello era il momento meno adatto per parlare di matrimonio. Doveva prendersi cura della sua matrigna, di suo fratello e sua sorella, doveva semplicemente superare il lutto del padre. Non aveva avuto nemmeno il tempo di piangere,  disperarsi, di metabolizzare tutto quello che era successo dopo che Italo l'avesse trovato, era troppo ostacolato dall'incombente materialismo insito nelle conseguenze di quel suicidio per essere abbastanza acuta da riflettere sull'accaduto, sulla perdita, da capire che cosa lo avesse spinto a prendere la cintura di sua madre e ad avvolgersela al collo. Era stata troppo occupata a risolvere i problemi in cui l'aveva risucchiata, senza l'aiuto di nessuno. Sua madre era giunta al funerale, l'aveva abbracciata, coccolata, le aveva dato in paio di migliaia di euro e le aveva dato buona fortuna, affermando che sarebbe tornata non appena si fosse presentata un'avversità. Aurora non ci aveva nemmeno sperato: sua madre si era risposata e si era rifatta una vita,  ed era talmente lontana da lei da non averle dato nemmeno l'opportunità di conoscere per bene i suoi fratellastri. Non l'avrebbe mai aiutata.
Era sola, era completamente sola, eppure era necessario prendersi cura di tutti e proiettarli in una prospettiva diversa.
Andare avanti: quello era il motivo che l'aveva spinta ad accettare la proposta e a trasferire la sua famiglia a Roma. Italo avrebbe fatto lo scansafatiche tanto a Roma quanto a Firenze, per cui non gli cambiava nulla, mentre Rachele avrebbe iniziato l'università quell'ottobre, senza contare che lei negli ultimi mesi non andasse molto d'accordo con i suoi storici amici. Aveva bisogno di cambiare aria, di lasciare Firenze e la sua apparente bellezza per assaporare quella di Roma.
E Marisa, Marisa semplicemente seguiva l'odore del denaro. Non sarebbe stato difficile per lei trovare un lavoro come insegnante di matematica.
Avrebbero iniziato una nuova vita, e sarebbe andato tutto per il meglio. Quello che però Aurora non aveva incluso nei calcoli del suo progetto per la possibile felicità era che suo padre gli avesse lasciato solo debiti. Aveva venduto la casa e ripagato parte di quelle somme, ma con quel poco che le era rimasto certamente non avrebbe potuto vivere in qualche appartamento vicino al Policlinico o al Centro.
Il massimo che era riuscita ad ottenere era l'affitto ad una periferia di Roma, Tor Ordinaria*; quando aveva realizzato che avrebbe portato la sua famiglia dal triste lusso fiorentino allo squallore dell'estremo degrado romano e che avrebbe visto sua sorella diventare una donna in quell'ambiente, aveva pianto silenziosamente.
Rachele, mentre stava impacchettando i suoi vinili dei The Smiths, aveva sentito i suoi tristi e silenziosi lamenti, ma aveva scelto di non dirle nulla della sua presenza e di continuare la sua catena di montaggio.
Rachele non sapeva cosa aspettarsi da quella vita. Forse perché, dopo diciannove anni passati tra due genitori infelici, un fratello ribelle e irresponsabile e una sorella rigorosa che mai si era permessa di avere del tempo libero, non aveva molte altre aspettative.
Non sapeva nemmeno cosa provare riguardo la morte del padre: forse non aveva ancora compreso a pieno, non aveva ancora realizzato che suo padre si era tolto la vita anche a causa sua, che non avrebbe avuto più alcun vestito portato da Harrods o da Parigi. Sì, perché suo padre era stato talmente assente nel corso della sua vita da aver cercato di comprare il suo affetto con vestiti e scarpe, cofanetti di serie tv e tanti libri,  senza mai preoccuparsi di passare il tempo con lei o con sua madre. Le poche, intere giornate durante le quali era a casa le passava a litigare con sua madre o con Italo, con urla e vomiti di parole mai dette, amare e perforanti. Quando sua madre parlava con lui non faceva altro che dargli un po' di quel veleno che tanto la caratterizzava, quell'aridità affettiva che mai aveva mancato a dimostrare.
Sua madre l'aveva spinta al Liceo Scientifico nella speranza che lei avesse intrapreso qualche carriera informatica o ingegneristica, dimenticando la propensione della ragazza alla storia e alla letteratura, portandola allo strenuo delle forze per avere voti altissimi, anche nelle materie scientifiche. Si era diplomata con 100 e lode, ma non era mai stata felice della cura e dello sforzo con cui si era dedicata allo studio. E sua madre, insegnante di matematica, non lo aveva mai capito.
Nonostante tutto, insieme ad Aurora, Marisa era l'unica famiglia che e restava e si doveva sforzare di voler loro bene.
Sì, perché si era talmente inibita che quello per lei era uno sforzo immane: mostrare sentimenti ed evitare di farsi risucchiare dallo spleen che tanto la caratterizzava. Il suo obiettivo romano era, forse, cercare di sentire qualcosa in quel corpo che aveva perso ogni singola sensazione. Ricordando il periodo adolescenziale, Rachele era gioiosa, sognatrice e divertente;  forse un po' troppo maldestra e inadatta, tanto da risultare buffa, ma pur sempre sveglia. Invece ora era astratta, quasi irreale nella sua freddezza. Il suo obiettivo era rompere il ghiaccio che la ricopriva, rimuovere quella maschera di rigorosità e lasciarsi andare.
In fondo non era nemmeno poi così difficile, perché lei aveva i suoi ideali, credeva ancora nella libertà, nella musica, nell'amore, nonostante avesse ricevuto più due di picche di un cartomante. In fondo non poteva smettere di crederci, perché se avesse davvero smesso di nutrirsi di poesia e amore, probabilmente sarebbe morta realmente. Doveva solo sforzarsi - sì, sforzarsi - di esternare quella volontà di vivere e di danzare sotto la pioggia che erano insite in lei. E lo avrebbe fatto frequentando l'università di Lettere Moderne.
Quando erano arrivati  in quella palazzina che era al limite della legalità, Rachele aveva pensato che forse davvero avrebbe iniziato a vendere le sue borse di Gucci o Versace Jeans, i suoi vestiti di Harrods dalla taglia sbagliata e qualche agio di troppo. Forse si sarebbe un po' dispiaciuta per i suoi gioielli di Tiffany, ma pur di mangiare avrebbe fatto a meno di quegli oggetti lussuosi che ormai appartenevano alla loro vecchia vita.
Avevano salito le scale tortuose e scricchiolanti e arrivarono al terzo piano, dove era recato l'appartamento: aveva tre stanze da letto, una cucina abitabile e un bagno. Il corridoio era stretto e buio, talmente tanto da fare paura. La casa puzzava di chiuso e aveva una macchia di muffa all'ingresso; non appena Aurora ci aveva messo piede, aveva cominciato a sospettare che in giro ci fosse qualche blatta; fortunatamente questo sospetto era rimasto tale, ma ci era voluto molto tempo di pulizia prima di iniziare il trasloco. Aurora divideva la camera con sua sorella,  lasciando una singola a Italo e Marisa. Rachele e Aurora avevano decorato la loro stanza al meglio, dandole quel tocco di felicità che forse mancava davvero in ciascuna di loro. Se non altro, si sforzavano di essere positive.
Il quartiere era caratterizzato da stradine piene di buche, a stento asfaltate e polverose, palazzine a cui al piano terra di alternavano bar malfamati, un piccolo ristorante simile ad un McDonald, negozi di vestiti cinesi e case al piano terra. Tutto ciò che il centro di Firenze in cui abitavano non era: degrado, sporcizia, povertà. Era un quartiere abitato da gente umile, operai, impiegati, baristi e donne con piccole imprese quali lavanderia o qualche colf, ma anche da qualche pappone o spacciatore. In effetti, Tor Ordinaria era un quartiere gravido di un circolo di droga, di delinquenza e prostituzione,  quasi che era impossibile per una donna camminare da sola. Erano frequenti atti di vandalismo, bullismo tra giovani aspiranti delinquenti, brutalità di ogni genere.
Aurora di questo aveva paura. Lei, cresciuta in un ambiente sano ed esasperatamente ricco, con un'istruzione altolocata e con un'aspettativa di vita ancora più elevata - la professione del medico era ancora più classista delle stesse origini della giovane donna -, non era mai stata a contatto dall'altra faccia della medaglia: la povertà e ciò che la povertà comportava. Quasi pensava a Ignoranza e Povertà,  i miserabili bambini-simbolo di Canto di Natale di Dickens, quando guardava quei bambini parlare solo romano e praticare atti violenti sin da quella tenera età: era dall'avidità della classe come quella a cui Aurora aveva sempre appartenuto, quella di suo padre, che nasceva dalla povertà,  era dalla povertà che nascevano l'ignoranza e la rabbia, era dall'ignoranza e dalla rabbia che nasceva la violenza. E poi il degrado, tanto sociale, quanto culturale, quanto morale: alcuni ne avevano abbastanza dell'onestà.
Rachele invece era quasi affascinata, da quel mondo caotico in cui era appena entrata a far parte. Come forse pensava deformata dall'amore per il pensiero pasoliniano, la povertà, il degrado, la borgata, erano comunque sintomo di spontaneità,  verità, priva dell'ipocrisia borghese,  lontana dalla falsità e dall'ossessione per il rispetto. Quel mondo la proiettava in una dimensione primordiale, violenta, ma vitale, concreta, tanto cruda quanto affascinante, forse allettante proprio perché così estranea al mondo candido di porcellana di cui Rachele aveva fatto parte e per cui aveva sofferto. Un mondo sporco, ma privo di maschere, un mondo che le piaceva osservare nei minimi dettagli.
In poco tempo aveva imparato ad adattarsi,  a evitare di girare con borse o cose troppo costose, a cercare di non passare per certe strade e di non stare troppo a guardare la gente. Ingenua, aveva tratto le conclusioni troppo in fretta e aveva creduto che non fosse poi così difficile.
Quella sera aveva deciso con Aurora di andare a mangiare in uno sporchissimo ristorante della zona. Italo era in giro a fare chi sa cosa con chi sa chi, mentre Marisa non aveva fame per cui egoisticamente aveva deciso di non cucinare, mentre Aurora, dopo aver dato l'ultimo esame della sessione di Settembre, era troppo stanca per cucinare.
Se la sorella maggiore aveva scelto un'insalata - era vegana, per carità! - Rachele aveva scelto un hamburger con contorno di patatine particolarmente fritte. Notò i volti dei cuochi, dei camerieri e dei clienti del locale: facc, ma talmente delicata che forsechiaie, occhi bassi e facce scure.  I loro capelli erano tutti spettinati - o nel caso di alcuni uomini, quasi assenti - e le loro espressioni erano spente, negate dal turgore della speranza nella vita. Doveva essere così imbarazzante per le due sorelle avere la pelle candida e grandi occhi verdi, talmente incuriositi e innocenti da parere fuori luogo nel locale in cui persino la quattordicenne meno trascurata aveva il volto più segnato del loro. Era gente che sapeva cos' era la vita, e non la vita agiata a cui loro erano abituate, ma la vita vera fatta di fatica e delusioni, di un eterno ritorno e un ripetersi continuo di giornate tutte uguali. Era gente che non aveva speranze nel futuro, e nemmeno la ragazzetta magra e ben desiderata dai giovani rozzi del quartiere aveva una prospettiva di vita diversa da quella di farsi mettere incinta in tre anni e finire a fare le pulizie in qualche casa lussuosa del centro di Roma. Erano volti caratterizzati da rassegnazione, eppur caratterizzati da una bellezza tutta particolare, una bellezza che trasmetteva la loro storia,  la loro vita, che si nascondeva dietro quelle rughe, quelle macchie, quelle occhiaie. Rachele era affascinata da quel mondo, dalle loro storie. Loro certamente avrebbero più cose da raccontare, e avrebbero stimolato la sua fantasia, avrebbero fatto sì che lei vagasse con la mente fuori dal mondo burocratico a cui apparteneva.
Voleva davvero conoscere cosa si nascondesse dietro quei visi.
Uno in particolare.
Il giovane cameriere era come gli altri abitanti di quel quartiere: un volto allungato, un fisico asciutto e mani lunghe e nodose. Aveva una maglia larga a maniche corte, le braccia pelose, un tatuaggio tribale sul polso. Ma era il volto che rendeva Rachele quasi instabile. Era stretto e magro, quasi deperito, con una mandibola definita e aguzza, le labbra carnose e chiare, il naso grande ma diritto. Gli occhi erano scuri come chicchi di caffè, come la legna bruciata, e forse, a guardarli troppo, Rachele bruciava. Erano contornati da ciglia nerissime e folte, che gli garantiva uno sguardo perso, annoiato. Aveva una criniera di riccioli scuri tenuti da una fascia nera e bianca, che mostrava come la parte inferiore della testa fosse rasata. Di carnagione scura e con rada barba, aveva l'espressione disgustata della sua gente; eppure, in quel volto dai tratti così violenti, duri ed emblematici di un'intera classe sociale, Rachele ci vide speranza. Forse anche lui era un sognatore, un ragazzo che credeva in qualcosa, sebbene l’ambiente da cui provenisse già glielo impedisse. E più lo guardava, più voleva conoscere la sua storia. Non riuscì a calcolare il tempo in cui lo scrutò e cercò di decifrare quel volto così complesso, ma capì di essere stata imbambolata da abbastanza tempo quando sua sorella le diede un gomitata e dalle labbra del ragazzo uscì un gutturale - Oh? -
Rachele rinsavì e maldestramente fece rovesciare il portafoglio a terra. - Oh cielo - balbettò.
Lui senza dir parola glielo raccolse e glielo porse, forse con un velo di fretta e disturbo.
- Grazie. - tentò di accennare un sorriso, sentendosi stupida.
- Prego. - fece indifferente. Poi, osservando il taccuino che aveva in mano disse - Allora? 'Sta ordinazione? -
Rossa in faccia, la piccola Rachele si accinse a dirgli l'ordine, e non appena finì il ragazzo lo portò alla cucina, si tolse il grembiule e uscì dal locale: aveva concluso il turno.
E Rachele aveva trovato a una nuova storia a cui pensare.

*Tor Ordinaria è un quartiere fittizio.


Vorrei spendere qualche parola per questa storia.
Il prologo è sopra le righe, lo so. Il contrasto tra tempi e persone tra il Prologo e il Primo capitolo è stato creato appositamente.
Con questa storia voglio raccontare il più possibile i drammi personali di questi anni Dieci: la crisi, la povertà, i sogni mancati, l'eccessivo pragmatismo, la paralisi, ma anche accenni ad altro che vedremo più in là come la droga. La scelta di Roma come città una scelta puramente casuale, non è realismo e non intendo offendere nessuno rendendola lo sfondo della storia.
Essendo il primo capitolo, quic'è un'introduzione generale ai personaggi e alle loro mancate reazioni a ciò che è accaduto, che ovviamente verranno esplorate nei prossimi capitoli.
Spero che vi aggrada, sarei contenta di conoscere qualche parere.
Un affettuoso saluto,
takemeouttonight.
   
 
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