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Autore: AlexEinfall    02/02/2015    7 recensioni
Quando un eroe diviene il peggior nemico dell'umanità, quando ogni indizio conduce allo smantellamento di una maschera di bontà, quando è il cacciatore a divenire preda, chi potrà essere ancora dalla sua parte? Se Spencer Reid, un giorno qualunque, si risvegliasse con le mani sporche di sangue, chi potrebbe salvarlo dall'oblio? Tra lo spettro della dipendenza e qualcosa di molto diverso e più oscuro, la strada per la soluzione dell'enigma non potrà essere percorsa in solitudine.
Dal testo
Sangue. Nella nebbia della droga si era chiesto, tre o forse quattro anni prima, che odore potesse avere il sangue di un'altra persona sulla sua pelle. Possibile, si era chiesto, che le molecole odorose di qualcun altro, mischiate alle mie, possano dare come risultato un buon aroma? Soprattutto lo incuriosiva il pensiero che la morte, a contatto con la sua pelle, forse avrebbe avuto l'odore della vita.
Genere: Angst, Drammatico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Derek Morgan, Spencer Reid, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note: Prima di ogni altra cosa, devo ringraziarvi, sia per la pazienza sia per l'incoraggiamento. Secondo, devo annunciare che questo è il penultimo capitolo. Sì, lo so, avevo detto che sarebbe stato l'ultimo e che questa storia avrebbe avuto 11 capitoli, ma c'è stato un cambio di programma. Come detto all'inizio, ho scritto questa long un po' di tempo fa e, prima di pubblicarla, mi sono limitata a correggerla e sistemarla un po', lasciandola sostanzialmente inalterata. Eppure il finale non mi convinceva, così l'ho ampliato, modificato e rivisto. Quest'operazione ha comportato un po' di pagine in più, quindi ho deciso di staccare la chiusura in due capitoli. Non odiatemi - anzi, fatelo, ma non prendetevela con la storia :D
Saluti, Alex.


11
Lucas


Così non andremo più vagando,
Nella notte fonda
Anche se il cuore vuole ancora amore
 E la luna splende luminosa...
George Gordon Byron
 

   Penelope Garcia vorrebbe alzarsi dalla sua sedia, spegnere tutti i monitor e scappare. Sente l'instinto di chiudersi la porta alle spalle e non guardarsi più indietro, perché a volte la realtà è fin troppo dura, fin troppo vicina. Sono passati tre giorni da quando Reid è stato ospedalizzato e ha rischiato la vita, per l'ennesima volta. Il suo ruolo è quello di osservatrice distante, la persona incaricata di scovare il male e portarlo alla luce, di pregare che tutto vada bene e che la squadra scenda intera dal jet, varcando le soglie del BAU stanca ma viva. A volte, semplicemente, gli orrori sono troppi e nessun colore, nessun video virale o immagine carina può allontanarla da quei demoni. Ora essi hanno attaccato uno di loro e lei si è sentita impotente, ancora.
  Sente la porta aprirsi e chiude gli occhi, attendendo la stretta rassicurante di Morgan sulla sua spalla. Posa le dita sul dorso della sua mano e sorride, cercando di trovare conforto in quel gesto così semplice e normale. Derek si china sulla sua spalla e osserva la foto sullo schermo.
  «Lucas Carter» mormora, le mascelle serrate. «E' lui?»
  Garcia annuisce, digitando sulla tastiera per materiallizare tutte le informazioni che è riuscita a raccogliere. «Nato a Las Vegas il 10 Marzo 1979, la madre era Elisabetta Andres, padre ignoto. La donna è morta nel 1985, uccisa da un certo Victor Ortega. La cartella medica indica segni di abusi ripetuti sia sulla madre che sul figlio, ma la donna non ha mai denunciato il compagno. Dopo l'omicidio, Carter è entrato nel sistema ed è stato affidato ad una coppia del Texas, Elisabet e George Carter. I coniugi sono morti in circostanze sospette un anno fa nella loro casa.»
  «Li ha uccisi lui?»
  Penelope scrolla le spalle e non riesce davvero a rispondere. Quante vite simili ha visto attraverso il suo monitor? Quanti passati travagliati hanno attraversato quello schermo? Le storie spesso sono tragiche e si somigliano, intrecciandosi in una spirale di umiliazioni e abbandoni, dolori e solitudini. Poi c'è l'altro lato, quello che non ha più una voce: le vittime. Qualunque briciolo di pietà che lei potrebbe provare per le persone distrutte dal loro passato, dalle loro follie, si annienta di fronte alle immagini di corpi mutilati e volti rigidi, una volta sorridenti. Nei minuti che seguono, Penelope risponde a tutte le domande di Derek, così ansioso di sapere ogni macabro dettaglio di quella figura così misteriosa. Lei si ritrova a dirgli esattamente le stesse cose che ha detto alla squadra, ma non perde un dettaglio. Sa che Derek è appena tornato dall'ospedale, dopo aver accompagnato Spencer a casa, e sa che ora ha bisogno di focalizzarsi su qualcosa che può controllare, su informazioni che riesce a gestire.
   Così gli mostra tutti i successi accademici di Lucas Carter, diplomatosi con ottimi voti, laureato in psicologia, mai arrestato per alcun reato, neanche una multa. Ai suoi occhi sembra che Carter si sia impegnato a controllare i suoi istinti, costruendosi attorno una terrificante facciata di normalità. Tuttavia, intorno a lui cose strane erano accadute: animali scomparsi, ragazzi aggrediti e, nella sua cittadina, una serie di atti violenti senza alcun indiziato. Penolope si ritrova a rabbrividire per l'ennesima volta: chiunque sia realmente quest'uomo, è chiaro che ha intelligenza, conoscenze informatiche e nervi saldi sufficienti a renderlo irraggiungibile.
  Quando ha finito con il file di Carter, Penelope si abbandona allo schienale della sedia. Sospira e sente Derek rilassarsi, la stanchezza prendere il sopravvento.
  «Come sta Reid?» chiede alla fine, alzando lo sguardo su di lui. Derek abbozza un sorriso, poi scuote la testa. Sembra dominato da emozioni contrastanti, i lineamenti sfiancati dalle notti insonni e dalle preoccupazioni.
  «E' stata dura per lui.»
  Penelope lo ha visto in quel letto di ospedale, appena ricoverato. Da allora, è stata allontanata dalla sua stanza, come tutti gli altri. Reid li ha voluti tenere a distanza, non volendo che vedessero il suo calvario. La disintossicazione non è esattamente un momento felice e lei non riesce a evitare di pensare a Derek, seduto nel corridoio ad ascoltare le grida e i lamenti di Reid, impotente.
  Gli dona un sorriso che, date le circostanze, è un regalo che Derek accetta con silente gratitudine.
  Le stringe ancora la spalla ed esce dalla stanza.
 


   Il dottor Antonio Cruz siede alla sua scrivania, le spalle squadrate incorniciate dal crepuscolo di La Vegas oltre i vetri dell'ampia finestra. Davanti a lui c'è il fascicolo personale di quello che considerava il suo miglior tirocinante. Scioglie le mani giunte sotto il mento e le unisce ancora, sopra quel fascicolo. Gli occhi scuri incrociano quelli bui dell'agente Hotchner.
  «Non so come sia potuto succedere» ammette a se stesso. «Non avrei mai immaginato...se avessi saputo che una persona del genere era a contatto con i miei pazienti...è orribile.»
  Hotch studia il volto dell'uomo e il suo sguardo fermo. Non dubita che sia assolutamente sincero e, in quanto team leader, capisce perfettamente cosa l'uomo possa provare. «E' comprensibile che sia riuscito a imbrogliare anche lei. Stiamo parlando di uno psicopatico.»
  Il dottore annuisce, perdendosi a guardare il proprio attestato appeso orgogliosamente al muro. I suoi occhi tornano un attimo sul fascicolo, prima di incontrare ancora lo sguardo dell'agente.
  «Dottor Cruz, da quanto conosceva Lucas Carter?»
  Cruz sospira, raddrizzandosi sulla sedia. «Circa sei mesi. Ha ottime referenze, si è laureato con il massimo dei voti, mai alcuna pecca nella sua carriera accademica. Con il senno di poi, non mi meraviglia, persone come lui sono in grado di eccellere e rimanere nella normalità.»
   Hotch annuisce, lasciando al dottore il tempo per raccogliere le idee. Lo vede aprire la cartella e scutare la foto di Carter. «Ha sempre avuto un comportamente eccellente. Era sinceramente interessato a tutti i pazienti, voleva imparare il più possibile e continuava a studiare e ad aggiornarsi anche oltre l'orario stabilito. In particolare, seguiva il caso di Diana Reid.» Cruz alza uno sguardo duro sull'agente, prima di continuare. «Tre mesi fa mi ha chiesto un periodo di pausa, adducendo gravi motivazioni personali. Essendo così dedito al lavoro, ho acconsentito senza indagare. Avevamo concordato di sospendere il tirocinio fino al suo ritorno.»
  «Ha legato con qualcuno in particolare nell'istituto?»
  Cruz scuote energicamente la testa. «Andava d'accordo con tutti, dalle infermiere agli altri tirocinanti. Aveva un buon rapporto con i pazienti e con me era rispettoso, ma non si è fatto esattamente degli amici. Non credo che riuscirete a spillare molto da queste mura.»
  Hotch se lo aspettava. Da quando Garcia è riuscita a rintracciare Lucas Carter, l'uomo che si è finto Philip Edwards, lui ha capito che non sarebbe bastato. Lucas Carter è un ragazzo dalla vita tranquilla, un buon appartamento -pulito e ordinato al limite del maniacale- e nessuna relazione stretta. Nei luoghi che frequentava, tutti lo ricordano come un ragazzo a posto. Persone come lui non destano sospetti, mantenendo senza sforzo la loro facciata di normalità.
   «Quando ha lasciato l'istituto?»
   «L'ultimo turno che ha servito è stato tre giorni fa. Era appena tornato a Las Vegas e sembrava del tutto tranquillo. Alla fine del turno ha salutato, è andato via e non è più tornato.» Cruz prende una pausa, accigliandosi. «Lei sa dov'è ora?»
  Hotch valuta se rispondere. Lo sguardo di Cruz sembra sinceramente interessato, come se avesse bisogno di una conferma che l'uomo non tornerà mai più nella sua vita. «Ha lasciato gli Stati Uniti con un passaporto falso.»
  Il dottore sembra colpito dalla risposta, e Hotch non può dargli torto. Lui stesso ne è rimasto sorpreso. Lucas Carter ha avuto la freddezza di tornare a Las Vegas, riprendere il tirocinio e pochi giorni dopo sparire. Ha preso un volo per Madrid, da lì è ripartito per la Croazia, poi il Cairo e lì le sue tracce si sono perse. Garcia non è stata in grado di rintracciarlo. Lucas Carter sembra essere sparito nel nulla.
  «Vorrei poter essere utile» ammette il dottor Cruz. Hotch prova sincera simpatia per l'uomo e gli regala uno dei suoi pochi leggeri sorrisi. Gli stringe la mano, alzandosi e raccogliendo il fascicolo di Lucas Carter.
   «Lo è stato, dottor Cruz. La ringrazio.»
   Hotch si volta e ha già una mano sulla maniglia, quando l'uomo lo richiama. «Saluti il dottor Reid da parte mia. Spero sinceramente che stia bene.»
  Anche io, vorrebbe dire Hotch.



   Erin Strauss passa lo sguardo tra il fascicolo sul legno pregiato della scrivania e l'agente Hotchner. Dopo un lungo silenzio, prende un grosso respiro e congiunge le dita. «Aaron, non ti nascondo che non apprezzo il modo in cui quest'indagine è stata gestita.»
   Hotch la fissa senza proferir parola. Se lo aspettava.
   «Ma riconosco che le circostanze erano fuori dal nostro controllo.»
   «E' così.»
   La donna gli lancia uno sguardo duro, prima di aprire il fascicolo e sfogliarlo in fretta. Hotch sa che sta solo cercando di trovare le parole giuste e, quando sembra soddisfatta, ricongiunge le mani e lo scruta. «Non sappiamo nulla del movente di Lucas Carter? Voglio sapere quali sono le tue ipotesi.»
  Hotch incrocia le braccia. «Sarò sincero. Io non credo che Daniel Ronald e Carter fossero una classica squadra omicida. Il profilo ricavato dagli omicidi si adatta perfettamente a Roland, anche alla luce delle valutazioni psichiatriche antecedenti i fatti. Ma, come sappiamo grazie al dottor Reid e alle successive analisi della scientifica, non è stato Roland l'esecutore materiale degli omicidi.»
  «Uno guardava mentre l'altro eseguiva» conclude Strauss. «Mi pare non sia un profilo anomalo.»
  «No, infatti. Ma qualcosa non quadra: Carter è molto più metodico, organizzato, sadico. Ha torturato psicologicamente Reid, quando per incastrarlo ciò non era necessario. E' un puro psicopatico. Gli omicidi, invece, calzano con il profilo di Roland.»
  «Cosa sta cercando di dirmi?» chiede la donna, sporgendosi in avanti.
  «Che Daniel Roland era solo una pedina nelle mani del Carter. Lo ha tenuto sotto controllo non lasciandogli la possibilità di uccidere, ma gratificandolo con il voyerismo, sfogando al contempo il suo stesso desiderio di uccidere. Sapeva che le prove avrebbero portato a Reid e che, in caso di necessità, la colpa sarebbe potuta ricadere su Daniel Roland. Carter si è assicurato due capri espiatori e un piano di riserva.»
  «Una messa in scena? E' questo che crede?»
  «Sì, è ciò che credo» afferma sicuro Hotch.
  «Mi scusi, ma non ne vedo lo scopo. Perché rischiare tanto?»
  Hotch sa che non esiste una risposta semplice a questa domanda. Il tipo di accanimento mostrato da Carter indica motivazioni personali. Garcia ha scavato a fondo nella vita dell'uomo, ma non ha trovato alcun legame con Reid.
  «Per narcisismo. Ha avuto la squadra nel suo pugno e ha dimostrato di essere più intelligente e furbo. Ha montato gli omicidi, manomesso le prove e mosso le sue pedine solo per dimostrare che poteva farlo. In questo modo, ha anche evitato di lasciare prove che lo collegassero direttamente a lui. Alla fine si è tradito, ha commesso un errore ed è fuggito.» Fa una pausa e gli occhi gli cadono sul fascicolo. «Ora che ha soddisfatto questo suo appetito, passerà un certo periodo di latenza prima che torni a colpire.»
  Il capo Strauss fa una smorfia involontaria. «Aaron, devo essere sincera, l'idea che l'uomo che è entrato impunemente in una stazione di polizia e ha cercato di uccidere un mio agente, e che è riuscito a raggirare il sistema, sia ancora a piede libero, non mi piace.»
  «Neanche a me» ammette Hotch. «La mia squadra ha fatto il possibile.»
  «Ne sono certa.»
  Hotch non le crede, ma tiene per sé le proprie considerazioni, limitandosi a scrutarla. Il tono della donna cambia, ma il suo linguaggio del corpo continua a trasmettere nervosismo e disapprovazione.
  «Per quando riguarda il dottor Reid, ho deciso di non prendere provvedimenti. A quanto ne so, non ha commesso errori. La sparatoria è stata giustamente motivata dall'autodifesa, un'azione accidentale. Daniel Roland lo ha ingannato, e non c'è prova che il dottor Reid potesse agire in modo diverso e migliore. Dal rapporto del dr Reid risulta che Roland lo abbia sequestrato e sottoposto a iniziezione forzata di idromorfone.» Strauss alza gli occhi dal fascicolo, scrutando l'agente. «E' corretto?»
  Hotch annuisce. Mentire al proprio capo è sempre una scelta che può avere conseguenze inattese, ma Reid non merita d'esser punito da una persona che, meno degli altri, può conoscere e comprendere lo stato emotivo che lo ha portato a quel punto.
   «Quanto alla sua richiesta, approvo in pieno. Il dr Reid merita del tempo per riprendersi da questa situazione traumatica. Generalmente l'ammissione di una dipendenza, da qualunque sostanza, comporta gravi ripercussioni sulla carriera di un agente, ma in questo caso credo si possa dire che le azioni del dr Reid non fossero soggette alla sua volontà.» Per la prima volta Hotch ha la netta sensazione che Erin Strauss sappia quanto del rapporto sia vero e quanto no; ancor più sorprendente è che la donna abbia deciso di fingere il contrario. «Ha qualcuno che si occupi della riabilitazione?»
  «Lo farò io personalmente.»
  Strauss lega i loro sguardi e sembra sul punto di dire qualcosa che, Hotch lo sa, non gli piacerebbe. Ha un ripensamento, chiude il fascicolo e lo pone su una pila. «D'accordo, Aaron, sono certa che saprai gestire al meglio la situazione.»
  «Grazie, Erin» dice Hotch, alzandosi. «Se è tutto, io tornerei dalla squadra.»
  «Certo, vada pure. Data l'assenza di tracce, posso considerare il caso momentaneamente chiuso.»
  Hotch lo considera ancora aperto, almeno nella sua mente. E sa che la squadra continuerà a pensarci, a tenere gli occhi e le orecchie aperte in attesa di possibili sviluppi. Ma altri killer vanno presi e altre vittime salvate, che sia dalla morte o, ormai tardi, dall'oblio.
 


   Tre giorni prima
      
   Poggiato al muro bianco di questa clinica asettica, ripenso a quanto mi mancherà Las Vegas. E' una città fatale e illusoria, come una grande maschera su un volto scheletrico. Il deserto del Mojave è Las Vegas, e Las Vegas è piante forzate nel terreno, luci abbaglianti per nascondere il cielo, edifici pieni di gente e vita per combattere il vuoto. Chi viene qui, spesso, vuole solo scomparire. Mi piace Las Vegas, avrei voluto crescere in questo posto, non nel Texas. Un'altra differenza tra la mia vita e quella del caro Spencer.
  Il Texas è deserto e verità. Quale che sia, questa verità, è solo un'altra illusione.
  Diana Reid è seduta sulla sua poltrona come ogni crepuscolo, le lunghe dita strette tra loro e lo sguardo sognante rivolto alla finestra. E' una bella donna e conserva negli occhi la vivida luce dell'intelligenza. Penso a William Reid e un moto di disgusto sorge dal mio stomaco. Penso a Spencer e a quanto somigli poco a suo padre, eppure hanno una parte di DNA in comune.
  Non ho nulla contro Diana, la trovo affascinante in una certa misura. Avrei voluto essere suo figlio. Mia madre, chissà dov'è seppellita, era solo un altra anima persa di Las Vegas. I miei genitori adottivi avevano grossi sorrisi e braccia spalancate per abbracciarmi. Mi dissero, quando avevo sei anni e uno zaino in spalla, che loro mi avrebbero amato, che nessuno mi avrebbe più fatto del male. Mi portatono in Texas e io non piansi.
  Mantennero la promessa, ma non è amore che mi serve. Così li ho uccisi, un anno fa. Li ho uccisi perché...bhe, perché potevo.
  «Diana?»
  La povera donna si volta e mi sorride. «Oh, Lucas» sussurra. E' in uno dei suoi giorni buoni, lo vedo dal modo in cui guarda accigliata la borsa sulla mia spalla. «Vai già via?»
  «Il mio turno è finito, Diana» le dico ricambiando il sorriso. So che il mio è caldo e rassicurante. Eleonor, la donna che pretendeva di amarmi e non ferirmi, me lo diceva sempre. Quando l'ho uccisa, sorridevo così.
  «Resta ancora un po'. Ti leggo un'altra lettera del mio Spencer.» Dal cardigan tira fuori un foglio ripiegato. Porta sempre con sé l'ultima lettera che ha ricevuto e di solito lo fa quando lui non le scrive da un po'. Il mio sorriso interno diventa un ghigno. Povera donna.
  Diana si sporge e batte un palmo sul cuscino della poltrona accanto alla sua. «Siedi, vuoi?»
  Accenno un sì e poggio a terra la tracolla, sedendomi come un paziente davanti alla finestra. Mentre ascolto lei leggere le stesse parole che ho già ascoltato una settimana fa, la guardo con cura.
  Spencer ha la sua stessa bocca. Ha lo stesso fisico sottile e grazioso. Ha la stessa luce negli occhi, almeno quando lei è lucida. Mentre legge, sorride e ogni tanto scuote la testa, divertita. Lei lo ama.
  Ripenso al giorno in cui ho trovato il mio vero certificato di nascita. Dodici mesi fa, giorno più giorno meno. Quella stronza della donna che mi ha messo al mondo ha fatto un favore a un polizziotto, che le ha restituito un certificato di nascita finto come il suo amore per me. Elisabetta Andres, questo il suo nome, è stata picchiata a morte da uno dei suoi uomini. Io avevo sei anni. Eleonor e George mi dissero che loro mi avrebbero amato. Così va la vita.
  Diana ama davvero Spencer. Chissà cosa si prova.
  Spencer ha metà DNA di Diana e metà di William.
  Io ho metà del corredo genetico di William e niente a che fare con Diana, eppure provo più stima per questa donna folle che per tutto il resto del mondo. Curioso, vero? Non parlo di affetto, per cortesia, ma di un legame intellettuale. Diana finisce di leggere la lettera e la stringe al petto, il sorriso malinconico e gli occhi gentili si spostano su di me.
  «Il mio Spencer è un bravo ragazzo» dice.
  Le stringo la spalla e lei posa la sua mano fredda sulla mia. «A domani, Diana.»
  Mi volto e so che non tornerò più. Vorrei ringraziarla per tutte le informazioni che mi ha dato, ma non credo apprezzerebbe.
  
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