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Autore: HuGmyShadoW    29/11/2008    3 recensioni
[...]"Quel giorno mi svegliai. Dato che circa sei miliardi di persone ogni giorno trovano la forza di aprire gli occhi e di trascinarsi lungo la giornata la potrete ritenere un’informazione irrilevante. Il mio risveglio però non è un avvenimento così ordinario"
Una ragazza, lei. Un ragazzo, lui. Il loro particolare incontro, lì, in ascensore. Proprio Lei e Lui. Loro, insomma.
Genere: Generale, Romantico, Demenziale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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3^ parte



All’ennesimo scossone le mie gambe cedettero e caddi di peso sopra la piccola montagna di borse, le quali attutirono il colpo anche se non tanto quanto mi aspettavo. Provai a tirarmi su, ma i continui sussulti mi facevano perdere l’equilibrio, perciò mi arresi e decisi di aspettare, frustrata. Finalmente, la piccola gabbia di metallo cigolò lamentosamente un’ultima volta e si fermò. Mi rialzai sbuffante, tremando e barcollando, piegata in due dal dolore al mio povero sedere, più volte vittima di un’ennesima dimostrazione della giustezza della forza di gravità. Mi massaggiai il punto dolente lamentandomi e gemendo in maniera indecente per parecchio tempo prima di ricordare di non essere sola. Il mio compagno di viaggio, ovviamente, mi stava fissando. Che scena patetica, patetica!, pensai, rossa d’imbarazzo, tentando invano di ricompormi. Il misterioso passeggero non sembrava contrariato, o scandalizzato, anzi, mi osservava con curiosità, tranquillo, ostentando sul viso un sorrisetto malizioso.

“Anzi, irritante”, mi corressi. A uno così avrei volentieri dato una bella lezione in un parcheggio solitario, se solo non fossi stata bloccata in quell’ascensore che... Oh, giusto! L’ascensore!
Un brivido di panico mi scese giù per la schiena; come aveva potuto il semplice sorriso di uno sconosciuto farmi dimenticare tutto il resto?! Mantenendo a freno l’agitazione che mi scorreva nelle vene come adrenalina mi avvicinai alla pulsantiera (che, guarda caso, si trovava di fronte al mio passeggero) cercando il bottone di allarme.
«Proprio a me doveva capitare» borbottavo. «Come se oggi non fossi già abbastanza agitata di mio per il concerto e per Kat... Ma perché cazzo non c’è il bottone d’allarme?», urlai tirando un pugno alla parete dopo un ennesima perlustrazione dei minuscoli pulsantini scoloriti. Il mio misterioso compagno sobbalzò per la sorpresa. Nemmeno lo guardai.
In preda a una paura cieca, cominciai a schiacciare tutti i bottoni dai numeri indecifrabili, uno per uno, senza ricevere risposta. Oddio, se non fossi uscita subito da lì sarei impazzita! Ma dov’era, dov’era quel bottone fottuto?
Tirai un calcio alla parete ruggendo per il disappunto e improvvisamente due mani forti e grandi mi presero i polsi. Dietro il vetro protettivo degli occhialoni neri, il ragazzo mi guardò con tenerezza (era quello che potevo solo supporre) prima di chinarsi sulla pulsantiera con un’espressione impassibile e mettersi a studiarla con attenzione e sistematicità. Respirai forte, tentando di calmarmi mentre mi ripetevo ossessivamente che sarebbe andato tutto bene e che sarei uscita subito. Dopo qualche secondo il giovane sospirò e mormorò qualcosa che assomigliava a “scheisse” prima di voltarsi a cercare il mio sguardo e stringersi nelle spalle, allargando le braccia. Anche lui aveva fallito.
Lo stomaco mi precipitò fino alle caviglie. Le labbra cominciarono a tremarmi.
«Non è possibile. No... Non dirmi che rimarremo chiusi qui dentro! No! No! Non oggi! No! Non io!». Il respiro mi era diventato affannoso, le pareti mi comprimevano, sempre più vicine, sempre più vicine, il soffitto mi sembrava lontanissimo e la luce girava, girava, girava...
Caddi a terra, prendendomi la testa fra le mani. Un ronzio soffocante mi rimbombava nelle orecchie, quasi sovrastato dai miei stessi ansiti, pesanti e faticosi di nausea. Non immaginavo di essere claustrofobica, non lo sapevo. Cioè, gli ascensori mi avevano sempre messa a disagio, come le piccole stanze, i tunnel e gli sgabuzzini, ma non avevo mai creduto di poter arrivare a questo punto! Aria, avevo bisogno d’aria!
Il ragazzo si inginocchiò accanto a me, sinceramente preoccupato, facendomi vento con le mani. In pochi secondi riuscii ad aprire la morsa delle mia mani e a tornare a respirare quasi tranquillamente. Lo sconosciuto, più pallido di un cencio, mi sorrise, sollevato. Mi sembrava impossibile che un ragazzo con cui ero in ascensore da neanche cinque minuti e che non aveva ancora aperto bocca si preoccupasse tanto per me.
«Sto bene, sto bene» biascicai appoggiandomi al pannello metallico dietro di me per alzarmi. Vi abbandonai contro la testa e chiusi gli occhi, ansimando, il petto schiacciato da un peso troppo opprimente perché potessi sopportarlo a lungo.
«Are you ok?».
In un primo momento, credetti di aver solo immaginato quella voce calma e profonda al mio orecchio. Solo poi mi resi conto di aver udito parlare per la prima volta il ragazzo misterioso.
«Oh, you aren’t...! Sorry, I thought... Yes, I’m... fine» balbettai, troppo imbarazzata dall’aver conversato animatamente con uno straniero che non capiva un’acca dei miei vaneggiamenti per ricordare le nozioni fondamentali della lingua inglese.
«Are you English?» domandai timidamente per distrarmi dal dolore acuto che mi attorcigliava le budella. Lo sconosciuto sorrise, scoprendo due file di denti bianchissimi. Uno sfavillio metallico occhieggiò dal suo labbro inferiore.
«No, I’m German».
Con uno scatto di ingranaggi che finalmente cominciavano a girare per il giusto verso, il mio cervello si accese e in un nanosecondo fece due più due.
Ricapitolando. Il ragazzo era tedesco, non dimostrava più di diciotto anni, alto un metro e un lampione, vestiva abiti esageratamente larghi e aveva un piercing al lato sinistro della bocca.
I miei occhi si sgranarono all’inverosimile quando, tanto per completare il puzzle, da sotto il cappuccio mimetizzante della felpa-tendone, scorsi un rasta biondiccio.
Ok.
Ok.
Non. Era. Possibile.
Ok. Calma.
Lanciai un urlo che per poco non perforò le porte blindate dell’ascensore e che fece fare al ragazzo un salto all’indietro dallo spavento. Le ginocchia, già molli di natura, mi cedettero di nuovo e scivolai sul pavimento gelato.
«T-t-tu... tu...». Con il dito tremante indicai il poveretto. «Tu... tu sei...». La bocca mi rimase spalancata e cascante.
L’ormai non più sconosciuto sospirò, rassegnato all’inevitabile, e lentamente si tolse occhialoni e cappuccio.
Una pioggia di dread color miele cadde sulle sue spalle magre. Uno sguardo nocciola caramellato mi trafisse da parte a parte. E il piercing scintillò ancora, ancora e ancora, riflesso cento, mille volte dalle pareti, tutt’attorno a me.
Cazzo.
Ero bloccata in ascensore con Tom Kaulitz. Tom Kaulitz!
Ora sì che avevo bisogno d’aria.

_

{Per comodità, tutti i dialoghi descritti qui di seguito, anche se in lingua tedesca, li scriverò in italiano, essendo io l’esatto contrario di una poliglotta xD}

«E così...».
Non completai la frase. Troppa fatica.
«Già» rispose Tom.
Ce ne stavamo entrambi stesi a terra con la testa appoggiata al pannello metallico di fronte alla porta, indolenti. Era passata quasi un’ora da quando eravamo rimasti chiusi lì dentro e ancora nessuno si era fatto vedere. Dopo un’ennesima ispezione alla pulsantiera avevamo scoperto il pulsante d’allarme, un minuscolo bottoncino praticamente a livello soffitto che, ovviamente, era stato sfasciato da qualche irresponsabile teppista.
A un certo punto Tom aveva avuto l’illuminazione di tirare fuori il cellulare, che però, non appena aveva avviato una chiamata, si era spento. Batteria scarica. E il mio, per paura dei ladri al concerto, l’avevo lasciato a casa. Che sfiga bestiale.
E così, eccoci lì, in maniche corte, accaldati, sudati per la forzata permanenza sotto il calore della luce sopra la nostra testa, costretti ad appoggiarci alle pareti gelate per trovare un po’ di refrigerio. Almeno la nausea era passata.

Dopo i primi minuti di imbarazzanti gridolini, occhi sgranati e luccicanti, bavetta alla bocca e domande biascicate, reverenziali fino all’assurdo, a cui, fra l’altro, Tom aveva reagito piuttosto bene, io e il chitarrista di fama mondiale ci eravamo lasciati cadere a terra, vicini ma troppo sfiniti anche solo per alzare una mano.
Ogni tanto mi veniva in mente una domanda che non gli avevo ancora rivolto, gliela proponevo e lui decideva se rispondere (sempre esaustivo anche se senza entusiasmo), o tacere, facendomi capire di essermi permessa troppo.

Il tempo passava e io avevo sempre più sete e fame. Il luccichio delle paillettes che adornavano la mia maglia m’ipnotizzava, rendendo difficile tenere ancora gli occhi aperti.
«Come conosci il tedesco?».
Ancora una volta, quella voce setosa, baritonale, così piacevole all’udito, mi fece rabbrividire e battere fortissimo il cuore.
Deglutii e la lingua secca mi raschiò la gola.
«Mio padre è di Berlino. Quando si è sposato è venuto a vivere qui, in Italia, anche se a malincuore. È stato lui che fin da piccola insisteva per farmi apprendere il tedesco. Amava troppo la sua città, però, e troppo poco mia madre. Dopo qualche anno, quando mamma era incinta di mio fratello, svanì nel nulla».
Raccontai di mio padre senza tristezza né rimpianti, mantenendo senza fatica la voce ben ferma. Per me, quell’uomo era solo un bastardo che non meritava nemmeno di essere chiamato genitore: lo odiavo.
«Mi dispiace» mormorò Tom voltandosi a guardarmi.
«A me no». Il sussurro che mi scivolò fuori dai denti suonò come un ringhio. Lo odiavo. Lo odiavo. Lo odiavo!
Fissai le mie scarpe da ginnastica fino a renderle sfocate e indistinte, cercando di concentrare l’odio che mi bloccava la mascella nei miei occhi, fino a friggere i lacci delle sneakers; ovviamente non ci riuscii, allora mi calmai.
«Anche mio padre non era il massimo, sai?», disse Tom. «Ha lasciato mamma quando io e Bill eravamo piccoli».
«Lo so» sorrisi debolmente.
«Ah, già. Tutti sanno tutto, ormai». Fece una smorfia. «Dici che cronometrino anche quanto tempo passo in bagno?» e mi abbagliò di un altro sorriso mozzafiato. Dopo qualche secondo, indispensabile per riprendere a respirare, sorrisi:
«Magari ci stanno provando!». Entrambi ridemmo sommessamente.
«Mi parli ancora un po’ di tuo fratello e dei tuoi amici?» supplicai, bruciante di curiosità. Tom sbuffò, ma bonariamente, e anche se probabilmente aveva la gola più secca della mia, si lanciò nel resoconto completo della loro ultima tappa a Roma.
Ad un certo punto, com’è normale, cambiò posizione, e la sua spalla sfiorò la mia. Il cuore mi andò a mille, facendomi rimbombare il sangue nelle orecchie. Mio Dio, potevo sentire il suo profumo... sapeva un po’ di sudore, dopo tutto quel tempo sotto il neon, ma era indescrivibilmente buono.
Ignorando il caldo soffocante, anch’io mi spostai impercettibilmente più in là, trovando la sua mano proprio sotto la mia. Trattenei il fiato, combattuta se spostarla o no: osavo troppo? D’altronde, un’occasione così non sarebbe mai più capitata. A liberarmi dal peso dei dubbi ci pensò Tom, il quale si zittì, osservò con curiosità le mie dita posate sulle sue e sorrise dolcemente; poi riprese a raccontare come se nulla fosse accaduto.
Non spostò la mano di un centimetro.
In quel preciso momento, ebbi la chiara e travolgente sensazione di essere la persona più felice del mondo.

«Ma ancora non mi hai detto che ci fai qui, in questo centro commerciale sperduto e desolato. Non hai un concerto fra poche ore?» gli domandai per non cominciare a costruire troppi castelli in aria. Tom si batté una mano sulla fronte.
«Merda, il concerto! Me ne stavo dimenticando!».
«Come puoi dimenticarti di dover fare un concerto?». Ero piuttosto scettica all’idea che ciò fosse possibile.
Il ragazzo mi guardò come se fossi una contadinotta che non sapevo nulla di show business (ed effettivamente era vero) prima di fare una smorfia buffissima.
«Quando devi salire sul palco un giorno sì e uno no non è poi così difficile confondersi con le date o sperare di avere una serata in più di riposo. Anche se, a dire la verità, sei stata tu a farmi dimenticare tutto: sto troppo bene qui con te per pensare ad altro».
Il viso mi si colorò all’istante di una sfumatura violacea. Aria, aria, aria!
«Guarda che non mi incanti con le tue belle frasi fatte» balbettai con decisione, nonostante la mia espressione gridasse a lettere lampeggianti il contrario.
«Dico sul serio» rincarò Tom sorridendo sornione. «Sei la persona più piacevole che mi è capitato di incontrare nelle ultime ventiquattr’ore, e anche di aspetto non sei affatto male». I suoi occhi scivolarono lungo il mio corpo rannicchiato, scintillanti di una fame che non sarei mai riuscita a saziare. Gli schiaffeggiai lievemente il braccio.
«Perdi tempo a flirtare con me, bello: non riuscirai a portarmi a letto». Di nuovo, la mia espressione di venerazione non troppo nascosta smentì tutto lampeggiando ancora più luminosa.
«Scommettiamo che prima che vengano a recuperarci ti avrò convinta?» mormorò con voce di velluto il ragazzo facendosi più vicino. Come reazione io mi allontanai, stringendo le mascelle per resistere all’istinto bruciante di avvicinarmi che, nascosto in un parte imprecisata del mio stomaco, mi tirava dall’altra parte. Se qualcuno non fosse arrivato subito, mi sarei spezzata in due, era sicuro!
«Provaci» mugugnai a denti stretti. Tom ridacchiò, tranquillissimo, e scivolò lungo la parete fino a trovarsi all’angolo opposto contro il quale mi ero raggomitolata io.
«Non mi sforzerò neanche, tanto sarai tu a venire da me». E rise, cristallino.

Il tempo passava e i suoi occhi erano sempre lì. Non mi lasciavano un istante, mi tenevano loro prigioniera, gentili di una cieca brutalità, pesanti come pietre, ammalianti come cristalli dalle più lucenti sfaccettature.
Ed erano sempre lì.
Come poteva restarsene immobile per così tanto tempo? Non sembrava nemmeno battere le palpebre, come fosse stato una statua dai lineamenti angelici, immutabile quanto bella. Era irritante!
«Hai intenzione di fissarmi e non dire niente ancora a lungo?» sbottai dopo fin troppo tempo passato a cacciarmi di nuovo giù in gola quella domanda. Tom sorrise e non rispose.
«Sarebbe carino ribattere se qualcuno ti interpella». Tom non rispose e sorrise.
«Sto parlando con te, sai. In un’altra circostanza magari potresti fare finta di nulla, ma qui e ora no» sibilai, altezzosa.
Tom sorrise. E basta. I miei occhi si tinsero di rosso sangue.
«Che cazzo c’è da ridere, coglione che non sei altro?» strillai facendo per alzarmi in piedi ed andare a suonargliele. Minaccia gettata al vento. La statua-Tom non batté ciglio.
Perché non si muoveva, non parlava, non dava segno di vita? Perché?!
Mentre gli ingranaggi del mio cervello lavoravano per trovare una risposta, una freddezza non mia s’impadronì a poco a poco del mio corpo irrigidito, spingendomi gentilmente a sedermi. Ed ecco, il suo piano mi si delineò nella mente.
Altro che coglione, quel tipo era una vera e propria macchina!
“Non mi sforzerò neanche, tanto sarai tu a venire da me”.
Quella frase non era stata buttata lì a caso: lui sapeva.
Se mi fossi avvicinata, gliel’avrei data vinta, e io non volevo, oh no, mai.
Non avrei ceduto, a costo di impazzire. Mai.

{Poco tempo dopo}

«Parla, porca puttana!» strillai tirando un pugno alla parete; mi feci male, ma ciò che più mi irritò fu la vibrazione ridondante del metallo, un suono tanto potente da farmi tremare la cassa toracica. Ringhiai, e prima di aver solo finito di pensarlo, ero in piedi. Cercai di sfogare la mia rabbia camminando avanti e indietro, ma ad ogni giro dello stretto cubicolo, questa aumentava. Ero in trappola. Ero in trappola!
«Voglio uscire, cazzo! Non ce la faccio più, fatemi uscire!». E ancora pugni e calci dati alla cieca alle pareti, al pavimento, alle porte dell’ascensore serrate come tenaglie. La testa riprese a girare, il respiro a farsi sempre più secco e doloroso. Aria, aria, ARIA!
Stavo perdendo le forze, non mi rimaneva più niente oltre alla sete che mi lacerava la gola, un improvviso senso di freddo e il ronzio ovattato del mio ansare.
E ad un certo punto, anche l’aria finì.
Non quella presente nell’ascensore, ce n’era ancora in abbondanza, finì invece quella nei miei polmoni, incapaci di incamerarne di nuova.
Boccheggiai a caddi a terra. Il dolore alle ginocchia non era niente, niente a confronto del bruciore raschiante della mancanza d’ossigeno nel mio petto e nella mia gola. Tutto era appannato e distorto.
Allora presi la mia decisione.
La mia inutile dignità, il mio stupido orgoglio, il mio corpo, la mia mente... avrei gettato tutto in pasto a una belva feroce se solo questa avesse potuto liberarmi. E lo feci.
Con gli occhi pieni di lacrime strisciai fino all’angolo dov’era inginocchiato Tom, teso e pronto a venirmi in soccorso.
Ero troppo stanca, troppo sfiancata, troppo debole per lottare ancora.
Non ebbi esitazioni nel gettarmi fra le braccia della fiera affamata, m’importava solo di veder sciolte le mie catene, solo questo. Ero troppo stanca, troppo...
Mi lasciai cadere fra le sue braccia, nuda ed inerme, pregavo. E la belva mi sorrise.
Il suo petto era caldo, le sue braccia forti ; gli occhi scintillavano, il profumo mi stordiva.
«Ti prego...» mormorai aggrappandomi alla felpa enorme del ragazzo. Vedevo le sue labbra muoversi, ma nessun suono riusciva a sovrastare il fischio che mi trapanava le orecchie. Nemmeno io riuscivo a sentirmi.
«Ti prego... Fuori. Bisogno... aria», biascicai. Mi ero arresa. Mi ero arresa a lui.
Inspirare, espirare, mi ripetevo. Inspirare, espirare, inspirare, espirare, inspi...
Annaspai alla cieca in cerca d’ossigeno. Le labbra che ormai percepivo solo come una forma sfocata, ripresero a contorcersi in grida mute. Forse chiamavano il mio nome, lontano lontano. E come danzavano le luci sul soffitto...
Qualcosa dietro i miei occhi esplose e tutto divenne buio.

_


Nella mia testa si stavano affollando tante cose. Per lo più si trattava di masse indistinte di luci, colori e suoni, anche se ogni tanto uno di loro emergeva per pochi secondi, mi passava davanti e poi si dissolveva nell’oscurità. A tratti udivo il mio nome, un sussurrio così debole da poterlo scambiare per un soffio di vento se solo non avessi saputo di trovarmi nella mia mente, e lì dentro di aria non ne poteva circolare.
Non è che si stesse male, no, affatto, ma tutto quel buio cominciava a stancarmi, perciò con fatica provai a dirigermi verso l’agglomerato pulsante di pensieri. Pareva di camminare nel fango, ero invischiata nei ricordi... A poco a poco lo raggiunsi, e quando lo toccai con una mano un’immagine ben precisa mi esplose davanti, la stessa immagine della “visione” che avevo avuto ore prima. La contemplai, stupefatta, e capii. In quel momento, tossendo e inspirando forte, ripresi i sensi.

_


La prima cosa che vidi aprendo gli occhi fu il soffitto dell’ascensore, decisamente troppo lontano; quindi ero ancora intrappolata là dentro. Merda. Sospirai, abbattuta.
La seconda cosa che entrò a forza nel mio campo visivo fu il viso meraviglioso di Tom.
«Meno male che ti sei svegliata» mormorò affannosamente. Chissà se era a causa delle luci che mi abbagliavano o davvero era così pallido...
«Sono stati i dieci secondi più lunghi della mia vita» confessò accennando un sorriso. Ancora disorientata, battei le palpebre un paio di volte per scacciare il torpore che mi impediva di afferrare il senso delle sue parole. Ad un certo punto mi accorsi di essere racchiusa tra le braccia gentili del ragazzo, perciò, imbarazzata, mi liberai della sua stretta per alzarmi a sedere. Non appena mi mossi le pareti argentate cominciarono a vorticarmi intorno.
«Scusa» biascicai prendendomi la testa tra le mani: che male mi faceva! Mi schiarii la gola troppo secca e ci riprovai.
«Scusa. Non sopporto la tensione, e i luoghi piccoli e chiusi mi terrorizzano; lo so che avrei dovuto cercare di controllarmi, ma è stato più forte di me, e...».
Tom mi posò un dito sulle labbra.
«Non devi scusarti di nulla. Sarebbe capitato a chiunque» e sorrise.
Lo fissai. Davvero voleva cavarsela così?
«Ok, ok, odio dirlo ma adesso mi sembra necessario se non voglio finire bruciato vivo da quello sguardo» e finse di tremare di paura. Non mi mossi di un centimetro e lo fissai più intensamente. Finalmente, dopo qualche esasperante secondo di tentennamento, Tom abbassò lo sguardo e soffiò:
«Scusami tu, non dovevo comportarmi così, è stata colpa mia. Ecco, sei contenta?» sbuffò voltandosi per sfuggire al mio sguardo troppo vicino; un leggerissimo rossore gli colorò le guance. Ammutolii. Wow, non mi aspettavo lo facesse davvero... Questa sì che era una vittoria! Risi:
«Aspetta, aspetta, aspetta! È uno scoop! “Tom Kaulitz chiede scusa”, me lo vedo già su tutti i giornali. Ha! Chi l’avrebbe mai detto? Puoi ripeterlo di nuovo davanti ad una telecamera, stavolta?».
«Mai» borbottò il ragazzo alzandosi e trascinandosi fino al lato opposto dello stretto cunicolo, dove mi diede le spalle.
«Dai, cercavo di sdrammatizzare» esclamai. Ancora aspettavo a dirgli della promessa della mia resa totale a lui, perché sapevo che l’avrebbe rispettata, in qualunque modo.
Provai ad alzarmi a mia volta, ma con mio disappunto scoprii di non riuscirci: non appena mi muovevo la testa mi girava come una trottola. Rimasi seduta.
«Senti» cominciai, strascicando ogni lettera. «Credo di doverti dire... grazie. Per... prima» balbettai. Tom non si voltò.
«Intendo, durante la mia “crisi”» e mimai le virgolette con le dita, oltre che con la voce. «E ancora prima, per essere riuscito a sopportarmi». Pronunciando ultima parola feci una smorfia. La schiena del ragazzo, però, rimase muta. Imperterrita, io continuai.
«Sei stato molto gentile con me, davvero, non me lo sarei mai aspettata da...»
«Da uno come me?» concluse Tom voltandosi a guardarmi. Non era arrabbiato, anzi, pareva divertito, ma in un suo particolare modo perverso.
«Non intendevo...».
«Dovresti sapere ormai che quello che scrivono le riviste non è tutto vero» m’interruppe ancora, e stavolta non riuscii a ribattere: un bagliore magnetico, acceso, vivo, che ora definirei felino mi fece perdere il filo del discorso.
«È questo che più odio di questa vita, tutti credono di sapere tutto di me, credono di poter prevedere ogni mia mossa, ogni mia parola, ogni mio comportamento basandosi solo su quello che io ho deciso di mostrare loro, perché tanto ormai sono un cliché, roba vecchia... e invece cosa sanno? Niente» esclamò tutto d’un fiato.
Rimasi interdetta, sconvolta da questa sua confessione inaspettata.
«Io non ho mai pensato di poterti conoscere solo da...»
«Tutti lo pensano, l’hanno pensato e continueranno a pensarlo, perché mai tu non dovresti essere come loro?».
«Perché io sono diversa».
Per un momento vidi i suoi occhi sgranarsi e mi chiesi se non l’avesse già capito da sé; poi però il suo viso ritornò una maschera impassibile, e all’istante persi ogni sicurezza.
Il silenzio, pesante, ci avvolse. Fu Tom a romperlo per prima dopo un infinito gioco di sguardi.
«E in cosa saresti diversa, di grazia?», mi schernì.
«Beh, se non te ne sei ancora accorto, temo di non potertelo spiegare» ribattei, stizzita. All’istante volli tapparmi la bocca: da dove cavolo saltava fuori quella sicurezza?
Un’aria superba deformava i lineamenti semplici e dolci del ragazzo. Quasi sicuramente, la sua espressione era lo specchio della mia.
Ci stavamo ancora guardando in cagnesco quando l’ascensore ebbe uno scossone e di nuovo, fra cigolii e lamenti, prese a salire.

*


«Allora? Non sono semplicemente p-e-r-f-e-t-t-a?».
Sorrisi.
«Sei bellissima, Kat».
La mia amica fece una piroetta davanti allo specchio, ammirando l’effetto svolazzante della gonna nera che da quando aveva addosso non riusciva a smettere di stropicciare.
«Però la gonna ancora non mi convince... E nemmeno questa bandana rossa al polso. Sei sicura che sto bene così?».
«Ma certo. Sei semplicemente p-e-r-f-e-t-t-a!» le risposi facendole il verso e una linguaccia. Kat rise, poi, una volta calma, si accigliò.
«Davvero non vuoi venire, stasera?» mi chiese fissandomi intensamente coi suoi occhioni azzurri cerchiati di nero. Annuii.
«Sono molto stanca, non me la sento. E poi ho già avuto la mia dose di Tom Kaulitz, direi che sono a posto per tutta la vita» scherzai.
Kat alzò gli occhi al cielo.
«Avercela avuta una fortuna simile! Se fossi stata in te non l’avrei più lasciato andare!» e zompò ad afferrarmi la gamba. Ridendo, mi liberai della sua stretta e saltai giù dal letto.
«Non è così mitico come tutti ne parlano, anzi» mugugnai mentre afferravo la borsa sulla scrivania, di spalle alla mia amica.
«Che hai detto?» mi chiese quella distogliendosi dalla contemplazione del proprio riflesso nel grande specchio a muro della mia stanza. Mi raddrizzai con un sorriso stampato in faccia.
«Ho detto che devi muoverti se vuoi arrivare in tempo al concerto, su!» e le diedi una pacca sulla gamba alla quale lei rispose con entusiasmo, fin troppo.
Due minuti dopo ero già alla guida della mia Peugeout e sfrecciavo verso Parco Novi a tutta velocità per poter stare dietro ai miei pensieri.

_


«Tom, sei pronto?».
Alzai la testa dalla mia chitarra, infastidito.
«È la terza volta che me lo chiedi, Bill, e la risposta è sempre quella: per niente».
A quella risposta, mio fratello riprese a torcersi le mani camminando avanti e indietro lungo quei due metri per tre di camerino; dopo cinque passaggi tentò anche di fare qualche vocalizzo, ma ciò che gli uscì fu una specie di lamento stridulo perciò si limitò solo a passeggiare, o meglio, a girare in tondo.
Io pizzicai distrattamente le corde della mia Gibson ripensando a quel pomeriggio: sarebbe venuta davvero? L’avrei rivista? Speravo tanto di sì.
Giusto per farmi ancora del male, ricordai la sua espressione vuota quando aveva perso i sensi in ascensore, alla paura appiccicosa che avevo provato durante quei maledetti dieci secondi... Era per il terrore istintivo di vedere qualcuno star male o il panico cieco causato dal veder star male lei? Probabilmente la seconda opzione. Cazzo, in che casino mi ero cacciato...

Per distrarmi ripensai a quando, finalmente, qualcuno si era accorto di noi, poveri ragazzi, bloccati in ascensore da ore. Forse, se non avessimo cominciato a litigare così forte, la donna delle pulizie che passava in quel momento non avrebbe nemmeno notato la lucina rossa che disperatamente lampeggiava dalla pulsantiera esterna dell’ascensore, e a quest’ora saremmo stati ancora lì dentro. In poco tempo erano stati radunati tecnici specialisti che avevano fatto ripartire l’ascensore e noi eravamo stati tirati fuori.
Mi risparmiai la scena a dir poco stucchevole del ricongiungimento con Bill, prontamente avvisato dalla polizia, e volai subito a riassaporare il dolce viso di Lisa. Lisa, Lisa...
«Tutto bene?» le avevo chiesto sedendomi accanto a lei, appoggiata alla vetrina del negozio di alimentari; osservava l’andirivieni dei tecnici con un’aria spiritata, assente.
«Sì. Adesso sì» e mi aveva sorriso. Riconoscevo i segni della fatica sul suo viso e nei suoi occhi, ma non feci commenti.
«Ascolta» avevo cominciato, titubante. Gli smeraldi che aveva al posto degli occhi si erano posati immediatamente sul mio viso: difficile concentrarsi con quei fari addosso. Deglutii.
«Ascolta, mi chiedevo se per caso tu non volessi venire al nostro concerto, stasera... Ci terrei a rivederti, in una situazione un po’ meno drammatica, magari» risi, sfregandomi le mani sudate sulle cosce foderate di jeans. La sua risposta poteva significare vita o morte.
«Avevo intenzione di venirci, in effetti». M’illuminai.
«Però sono davvero molto stanca, non credo...». Il mio viso si adombrò. Lei lo notò e sospirò.
«E va bene. Verrò lo stesso, visto che ci tieni tanto» acconsentì facendo la sostenuta. Che balzo fece il mio cuore, in quel momento! Ricordavo benissimo la sensazione, era stato un momento meraviglioso.
«Come mi riconoscerai in mezzo a quel marasma?» continuò abbracciandosi le ginocchia. Già, come avrei fatto? Ci pensai su.
«Che ne dici di legarti al polso una bandana rossa? Basta che alzi il braccio durante l’esibizione, i miei bodyguard ti riconosceranno e ti accompagneranno nel mio camerino. A fine concerto, naturalmente». Sorrisi della genialità della mia idea.
«D’accordo».
In quel momento, una specie di tornado dai lunghi capelli biondi ci interruppe piombando addosso alla ragazza senza smettere di singhiozzare e strillare brandelli di frasi senza senso. La scena tragica non durò che qualche interminabile minuto, e prima ancora che me ne rendessi conto Lisa era scomparsa, trascinata via da quella sua amica. Di lei, era rimasta solo la debole scia del suo profumo.

«Tom, è ora!».
Sospirai, nervoso. L’avrei rivista. Non potevo crederci.
Imbracciai la mia chitarra e seguii Bill fuori dal camerino col cuore che pompava molto più sangue del normale. Già da lì si sentivano gli strilli isterici delle centinaia e centinaia di fan; non appena aprirono la porta, tutto l’entusiasmo di un palazzotto stracolmo di adolescenti ci stordì. Per noi era un’unica massa viva e vibrante, non erano tante ragazze, bensì un’unica ragazza che possedeva mille volti, sorrideva con mille sorrisi diversi e ci guardava con mille occhi lucidi e cangianti. Fra i tanti volti che si mescolavano in quella sola entità io ne scelsi uno, l’unico al quale quella sera mi sarei rivolto e l’unico al quale avrei dato tutto me stesso.
Sistemai gli in-ear monitor, controllai la tracolla della chitarra, sistemai i jeans, raddrizzai il cappello e senza sapere come o perché mi ritrovai a correre, no anzi, a fluttuare lungo il palco sconfinato fino alla mia postazione, sempre con il sorriso sulle labbra e le mani che già si muovevano da sole, domando il plettro. Magicamente, le prime note di “Break away” scivolarono lungo le corde della mia Gibson e si amplificarono in tutto lo stadio fino alle ultime file, e mano a mano che la melodia raggiungeva le ragazze, queste urlavano, saltavano, piangevano. Un’unica entità.
Durante il concerto cercai forsennatamente quel piccolo spruzzo di rosso che mi avrebbe dimostrato che ciò che quel pomeriggio era successo non era stato solo frutto della mia immaginazione, invano.
Le canzoni si susseguivano una dietro l’altra e neanche a farlo apposta, nemmeno una delle ragazze nelle prime file indossava qualcosa di rosso; strizzavo gli occhi fino a dove la luce arrivava, ma nemmeno una delle migliaia di mani alzate portava la bandana rossa.
E poi, quando meno me lo sarei aspettato, la vidi.
Dovevo cominciare a suonare gli accordi di “Forgotten Children” e mi stavo spostando verso la pedana, quando quel bagliore scarlatto che tanto avevo cercato quella sera aveva scintillato verso di me, piccola macchia di colore in mezzo a quell’oceano di nero e grigio a contrasto col biancore etereo della pelle del braccio, di quel braccio. Non avevo dubbi, era lei.
La mia felicità in quel momento fu indescrivibile, travolgente, irresistibile, e così forte come mai l’avevo provata in una volta sola! Con un cenno della testa attirai l’attenzione di Tobi, appostato discretamente dietro le quinte, e gli mimai con le labbra di andare a prendere la ragazza in quarta fila col fazzoletto rosso legato al braccio. Lui capì immediatamente, abituato com’era ai mie capricci, annuì e scivolò via come un’ombra.
Un fascio di luce accecante mi venne puntato addosso perciò capii di dover contenere momentaneamente la mia euforia e trasferire quella sensazione di adrenalina pura nelle dita. Questa canzone la dedicavo a lei, solo a lei...
Con la luce puntata in viso non riuscivo a vedere nulla più in là del mio naso, perciò provai ad immaginare il suo sorriso mentre Tobi le chiedeva di seguirlo, il suo cuore che batteva forte; e quelle braccia pallide, quei capelli morbidi, quel piercing praticamente invisibile al lato sinistro della bocca, quegli occhi disarmanti... E presto sarebbe stata mia per sempre. Non poteva che finire così, con un lieto fine.
Sorrisi, e risi, e mi sembrò di impazzire di felicità: ce l’avevo fatta. Ce l’avevo fatta!
Avevo catturato la mia sirena dagli occhi smeraldo.


*


Così ora conoscete com’è andata.
Immagino ormai abbiate capito di che trattava la mia visione. Lo so che può sembrare impossibile, però io avevo previsto ogni cosa, dal pulsante d’allarme rotto, alle luci al neon troppo calde, alle pareti scintillanti, fino all’abbraccio di Tom. Ovviamente, essendosi trattato di un secondo, non avevo fatto in tempo a decifrare i segnali, almeno finché non ero entrata dentro la mia testa e avevo potuto rivedere il tutto. Non so come sia successo, non so perché a me, non so chi sia stato, so solo che è successo. Punto.
Vi starete chiedendo se mi sono pentita di aver mandato Kat al concerto al mio posto. No, non mi sono pentita di aver mandato Kat al concerto al mio posto, se proprio volete saperlo, nemmeno per un secondo. Lei si meritava di incontrare i Tokio Hotel, era da sempre il suo sogno; e poi l’espressione di Tom quando aveva scoperto che la ragazza dalla bandana rossa non ero io... posso facilmente immaginarla, e vi assicuro che ogni volta scoppio a ridere.
Stesa a letto, lo sguardo inquieto che vaga lungo il soffitto incapace di prendere sonno, ripenso alla telefonata isterica di Katia di solo poche ore prima: mi aveva raccontato di essere stata chiamata nel backstage e che non appena Tom l’aveva vista aveva cominciato a inveire contro le sue guardie del corpo e a blaterare che lei era la ragazza sbagliata.
«Lisa, dimmi la verità, aspettava te?» mi aveva chiesto Kat.
«Non credo proprio» avevo risposto io sorridendo sotto i baffi.
Dopo poco, la mia amica era stata lasciata andare, frastornata e sconvolta, con in mano un cd autografato da tutti e quattro: immagino volesse dire che doveva tenere la bocca chiusa su quello che era successo.
I fari di una macchina sfiorano la mia finestra e poi scivolano via come se nulla fosse. Le stelle occhieggiano qui e lì sotto la coltre sfilacciata di nuvole. Mi giro su un fianco per incontrare gli occhi patinati dei Tokio Hotel appesi accanto al letto, e sorrido nel buio.
Povero Tom. Quasi mi dispiace per lui. Pensava di avermi finalmente acciuffato, e invece.. Chissà se verrà alla mia ricerca, poi.
Oh, lo so che mi sono fatta una promessa, e ho giurato che la rispetterò. Ma perché proprio stanotte?


Fine.



   
 
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