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Autore: Kyuri_Zaoldyeck    03/02/2015    0 recensioni
Perchè ci fanno questo? Perché siamo diversi? Ma forse di emozioni ne abbiamo, e più di loro …
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Uta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il bagno caldo mi rilassa … l’acqua mi arriva fino al naso, respiro, immersa nel fumo che esce dall’acqua.
Quindi queste stanze colme di oggetti fanno parte di quel mondo al di fuori del distretto? Questo è il mondo che ho tanto sognato.

Immergo la testa completamente, adesso non vedo niente, se non la condensa dell’acqua e lo scorrere dei miei pensieri. Non ho mai fatto bagni come questo nel ghetto … c’era soltanto una povera doccia chiusa da una tenda ormai a brandelli, ed usciva esclusivamente acqua fredda, come il ghiaccio. Certe docce fredde erano insostenibili in inverno.
L’inverno nel ghetto era duro per tutti noi, in tutti i sensi.
Immerso nell’acqua si materializza il ricordo delle persone che tornavano con grandi pellicce calde dopo una battuta di caccia, e i loro vestiti erano “trofei di caccia”, e ricordo mia mamma che avrebbe voluto andare a caccia per noi, ma la malattia la aveva fermata. Ricordo bene quelle malattie che, sebbene fossero letali, non ci uccidevano. Ricordo noi bambini, gelanti in mezzo ai vicoli, abbracciati per condividere quel poco calore umano, e i “cacciatori” che mostravano a tutti pantaloni, maglioni e spesso anche cappotti.
Avevo degli amici … saranno morti. Perdo il fiato e riemergo.

Strizzo i capelli e mi asciugo. Ora il mio corpo è decisamente più pulito, e anche più bianco. Prendo la maglia grigia che Lee mi ha lasciato lì. È lunga, lunga fino alle ginocchia.

Torno nella sala più grande, intimidita dai possibili avvenimenti. Ma non riesco a proferire parola, chissà com’è la mia voce? … attualmente non la ricordo.
“Non hai asciugato i capelli?” asciugarli? Che domande, non si possono asciugare … almeno credo.
Mi propone di asciugarmeli lui stesso, io annuisco, anche se non ho idea di come possa fare. Ma come immaginavo, tira fuori un altro strano strumento dal mondo, un grosso aggeggio che faceva un baccano osceno, dal quale però usciva aria calda.

Perché una Colomba è così premurosa con il mostro che dovrebbe cibarsene?

Scorro le dita tra i ciuffi di capelli bianchi, son setosi e incredibilmente lisci. Ogni volta asciugavo i capelli all’aria, e non ottenevo mai un risultato del genere. Infine li lega con una coda alta, per far sì che non mi diano noia.

Forse dovrei parlare … è stato così gentile … :

-Ciao- dico, anche solo per provare che abbia ancora la voce, funziona e la mia vocina risuona nella stanza silenziosa: lui si volta sorridendomi:

-Ciao! Hai proprio una bella voce, sai? Come ti chiami?- La mia voce è acuta, come si rispetti per la mia età.

-Haru- dico timidamente, lui sorride. Haru è il mio nome, amo la primavera, ma il mio nome non ha in sé niente di giapponese, bensì coreano, e significa “giorno”.

Lo ringrazio, lui tira fuori dal forno quella che sembra essere una lasagna, chissà quanto deve essere buona, eppure il mio stomaco la ripudia. Mi porge un piatto e mi chiede se esiste qualcosa che posso mangiare. Scuoto la testa, avvilita … vorrei tanto mangiare altri alimenti …

Mi chiede cosa desidero,e  io rispondo la cosa più ovvia che mi viene in mente, caffè.
Se non altro amavo il caffè, ma più ne bevevo e più aumentavano le ore di veglia.
E quando ero nel ghetto divenne un giochetto divertente: passare il giorno a bere caffè, così da poter restare sveglia la notte, e girovagare per il ghetto, vuoto e silenzioso. Amo la notte, da quando sono nata, poiché venni al mondo per la strada, nella notte più fonda.

Lui mi prepara il caffè, io gli sorrido, lui mi sorride: da questo momento ha inizio la mia nuova vita, il mio ingresso nel mondo.

 
I molteplici aghi perforavano la pelle con quel solito, lieve e ripetitivo rumore.
Stavo eseguendo l’ennesimo esperimento sul corpo del mio cliente preferito. L’unico che si fidasse e apprezzasse ogni mio schizzo.

Lui era un ghoul, un “mostro” come me, che viveva nella società, ben nascosto ma ci viveva, mentre forse io mi mettevo troppo in mostra. Ormai, Uta poteva sembrare un ghoul in pensione.

Stavo lavorando ad un cuore, l’organo del cuore, avvolto da ombre dall’aspetto tribale.
Trattai quel disegno che feci nel pieno della notte come un simbolo dell’impurità che avvolge il nostro cuore, e ci rende dei mostri affamati, ma anche come una potente ombra che protegge il nostro cuore dalle rigide leggi della società, e da quelle fecce che ci vogliono morti.
Quel tatuaggio rappresentava per me la metafora della nostra vota, per questo motivo, il giorno dopo lo chiamai per mostrarglielo, e lui lo volle subito, poco sotto la sua clavicola destra. Sarebbe stato bello farlo in corrispondenza del cuore, ma lì c’era già un altro dei miei esperimenti.

Ricordai di avergli detto una volta di non essere nata lì, nel mondo, ma di averlo scoperto dopo. Gli raccontai che ero nata in un ghetto, e di come fossero disagevoli le condizioni di vita.

Facevamo lunghe chiacchierate di ogni genere, sotto quella forte luce e accompagnati dal rumore della mia preziosa macchinetta.
Ma non capitò mai che mi chiedesse come ero arrivata fino a qui, nel mondo … in realtà non avrei più voluto raccontare di nuovo la lunga storia di Lee … l’avevo già raccontata due volte davanti al giudice, in processo e in corte d’appello.

Fu un succedersi di ricordi, belli e brutti, stupendi e drammatici. Oggi non avrei questo carattere se tutto quello che è successo non fosse successo.

Non ero sicura di volerlo raccontare, così finsi di dover cambiare l’inchiostro.

Mi guardai nello specchio eroso dal tempo. Mi abbassai a risvoltare l’orlo dei pantaloni neri, era caldo e anche solo la canottiera nera mi opprimeva. La tirai su fino a poco sopra l’ombelico. Sciolsi i capelli bianchi, lunghi fino al fondoschiena e li rilegai ancora più stretti, in modo che mi dessero meno noia, in una coda alta. Girai la lunga coda attorno all’elastico e fermai il tutto con una penna.

Sospirai, specchiandomi ancora per quel che ero, la mia mente tornò inevitabilmente alla mia infanzia frastagliata, ero molto simile ad allora, tranne che per il viso più adulto e le forme più sviluppate, e ovviamente l’altezza.

Sospirai ancora, cercando di scacciare il mio passato, come se già non fosse abbastanza ricorrente durante il sonno.

Tornai a lavorare sul grande cuore malato e protetto, come lo chiamavo io.
Pensai che in fondo, la presenza di Uta era spesso come una seduta da uno psicologo per me, e che forse, se avessi condiviso con qualcuno il mio passato, sarei stata compresa, e non più compatita, così presi a raccontare.

Raccontai tutto dall’inizio … il primo rastrellamento con la morte di mia madre, quando avevo 9 anni … il secondo e il terzo rastrellamento … e infine quello più importante, dove uccisero molti ghoul, anche se molti fuggirono.

Raccontai di Lee, del lembo di carne con cui aveva placato la mia fame, della nuova vita nel mondo.

Raccontai ogni gioia passata con lui, di come avevo iniziato a chiamarlo Papà, non avevo mai avuto un papà … raccontai di come la felicità riempì ogni nostra giornata, i miei 4 compleanni con lui, i giochi, le passeggiate, e anche i suoi continui sacrifici di carne umana per sfamarmi.

Poi decisi di iniziare a raccontare anche come questa gioia, piombata all’improvviso nella mia vita, mi fu portata via …
   
 
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