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Autore: Some kind of sociopath    04/02/2015    3 recensioni
Anno 1769: Haytham E. Kenway, dopo il suicidio dell'amico Jim Holden e la morte della sorella Jenny è tornato a Boston alla ricerca di Tiio. Lei è sopravvissuta all'incendio del villaggio, nonostante il figlio non lo sappia, e Haytham ha intenzione di ricucire la sua famiglia, quella che non è riuscito ad avere nella propria gioventù. Ma non ha messo in conto gli altri Templari, il suo vecchio Gran Maestro Reginald Birch e la piccola e fastidiosissima Confraternita degli Assassini...
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Il testo dei primi due capitoli è stato rivisto e modificato. Mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate al riguardo e quale "versione" preferite, ;)
 
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Achille Davenport, Altro personaggio, Connor Kenway, Haytham Kenway
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
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Me lo ricordavo bene, il momento in cui Tiio era sparita dalla mia esistenza. Non che fosse particolarmente piacevole, anzi, ma lo avevo sempre considerato il punto di chiusura della nostra storia. Non potevo più cambiare le cose, e nemmeno implorare pietà dopo anni passati lontani, solo... Chiedere notizie di mio figlio, magari, sapere se stava bene, ma dubitavo che avrebbe funzionato. Avevo provato comunque. E i risultati li conoscevo meglio di chiunque altro.
Il problema? Non era stato il nostro ultimo incontro.
Ne avevamo avuto un altro. Lì, tra la morte di Braddock e l'arrivo di quella maledetta lettera da Holden. Mi piaceva pensare che se non l'avesse aperta non saremmo mai partiti alla volta di Damasco e lui non sarebbe morto.
Holden, il caro e vecchio Jim Holden. Così efficiente. Così inglese.
No, no, non ho intenzione di farlo entrare nel discorso. Momento sbagliato. Discorso? Oh, be'. Ero tornato da Tiio con il cuore in mano e le ginocchia tremanti, appostato come un cacciatore infaticabile nel luogo in cui avevamo piantato la nostra ultima tenda. Non lo ricordavo, a dire il vero. Aveva dovuto indicarmelo Charles. Non aveva alcuna remora ad aiutarmi, a quei tempi. Non ero ancora scappato in Europa.
Perché avevo fatto visita a Tiio? Semplice. Non volevo arrendermi così facilmente. Non era da me. Stare lontani avrebbe soltanto peggiorato le cose, così rimasi là, le braccia incrociate e l'aria imperscrutabile mentre avanzava, silenziosa e letale come sempre.
Il suo sguardo era diverso. Venato d'ira e preoccupazione, come se soltanto vedermi lì fosse una minaccia alla sua incolumità.
L'inverno stava arrivando e io speravo di avere un'ultima possibilità. Non potevo gettare al vento la cosa più bella della mia vita per un solo dannatissimo errore.
Se solo gliel'avessi detto così. Forse avrebbe cambiato idea per davvero.
Eppure, c'era un presentimento gelido come un pugnale a scavare nella mia nuca. Ero un illuso, così suggerivano le vocette nella mia testa, ma volevo provarci lo stesso.
Allora non potevo saperlo, ma avrei soltanto peggiorato le cose.
«Un figlio?» La mia voce raschiava in gola e mi sembrava di avere del fuoco al posto del sangue, tutto il corpo che bruciava, come se con quelle tre paroline Tiio mi avesse spedito direttamente all’Inferno con un gran calcio nelle chiappe.
‘Sono incinta, Haytham.’
Una pugnalata al petto, lo sterno spaccato in un milione di schegge letali. «Un… figlio?» ripetei davanti alla sua espressione scocciata, gli occhi mezzi levati al cielo e il piede che batteva nervoso sulla terra. Non voleva essere lì. Non avrebbe neppure voluto dirmelo.
Però c’era.
Forse mi amava.
Sicuramente mi aveva amato. O così mi piaceva pensare. «Volevo solo che lo sapessi» grugnì prima di sollevare i palmi. «Tutto qui.» Mi scoccò un’occhiata affilata come una baionetta, poi si voltò.
Sarebbe sparita tra gli alberi, diretta al suo villaggio per restarci e crescere laggiù un bambino che era anche mio, ma senza di me.
Fu in quel momento che capii di essere sempre rimasto un orfano. Mi preoccupavo per una creatura che nemmeno esisteva, un affarino che cresceva dentro il suo ventre. Magari sarebbe somigliato a me. Però doveva avere gli occhi di Tiio. Sì. E il nome di mio padre. Avremmo festeggiato il Natale insieme, giù, per le strade di Boston a sentire i cori cantare e le campane suonare a festa.
Non solo mi avevano strappato i genitori, ma anche la dannatissima possibilità di essere padre. Non ero in grado di sopportarlo senza parlare. Senza ribellarmi. «Aspetta, aspetta, che significa?»
Tornò a guardarmi con quell’aria esasperata, stufa di me, dei miei errori, di tutto quello che avevamo sbagliato. Che avevo sbagliato. Era troppo difficile rimettere insieme i pezzi, ma non volevo crederci. Lo stava facendo davvero? Mi aveva detto di aspettare un bambino da me e mi aveva voltato le spalle? Come se non contassi niente, come se non avessi nessun ruolo in quella storia?
E si aspettava che non dicessi nulla. Oh, Dio. «Che torno al villaggio. Non lo farò crescere accanto a un uomo come te.» Mi era mancata. Non era passato molto tempo dal nostro ultimo incontro, quando mi aveva cacciato dalla tenda soltanto perché Braddock non era morto. Avevo deciso di avere fede e riprovarci. Che idiota.
Era solo una dannatissima causa persa. Non l’avrebbe fatto crescere accanto a un uomo come me, così diceva.
Cosa diavolo avevo di sbagliato? Che cosa? Non avevo il coraggio di rivolgerle quella domanda. Ne temevo la risposta, a essere sincero. Quindi evitavo persino di pormerla. «Uno che non mantiene le promesse e vede solo se stesso.»
Battei le palpebre come un idiota. Mi sentivo come se mi avessero appena sparato al petto. Squassato. Distrutto. Respinto da una forza più grande di me.
La verità. Non avevo bisogno di un esame di coscienza che me ne desse la conferma. Ai suoi occhi dovevo essere quello. Un dannato bastardo che l’aveva usata per trovare il Tempio – un’inutile, stramaledetta grotta dipinta – e non era riuscito nel suo unico compito, ammazzare un uomo.
I suoi occhi mentivano. Io non ero quel tipo d’uomo, e avrei fatto qualsiasi cosa per dimostrarglielo. «No» sussurrai, la voce che a malapena usciva dal petto. Avevo il presentimento – come un blocco di ghiaccio all’altezza dello stomaco – che avrei potuto fare di tutto e tirare fuori il miglior discorso in mia difesa, ma la sua idea non sarebbe cambiata. Se ne sarebbe andata per sempre, portando con sé il nostro bambino.
E i miei presentimenti, al contrario dei suoi, solitamente erano giusti. «Tiio… ti prego, cerchiamo di parlarne. Non è andata così.» Lei sollevò un sopracciglio, gli occhi carichi di disprezzo per il mio tono patetico. Non m’interessava di suonare sicuro o intelligente. Tutto ciò che volevo era discolparmi. Potevo essere un bastardo, un omicida, un invasore, ma non avevo lasciato vivere Braddock di proposito. Io odiavo quell’uomo almeno quanto lei! «Credevo... Credevo fosse morto. Lo giuro.»
Non le importava. Aveva sempre fatto tutto di testa sua, Tiio. «Mi hai usata per ammazzarlo. Per renderti la vita facile e privarti di due nemici in un colpo solo.» Mi puntò l’indice contro, pur tenendosi a debita distanza, e vedere quell’espressione accusatoria sul suo volto faceva più male di qualsiasi pugnalata.
Braddock, vecchio bastardo. Sembrava quasi che l’avesse fatto apposta. Vinceva sempre lui, alla fine. Con i suoi sanguinari metodi l’Inghilterra aveva vinto la guerra, e se c’era una battaglia che il Bulldog non aveva intenzione di perdere era quella contro un ragazzino indisponente che era passato a tanto così dalla condanna per insubordinazione. Avrei dovuto aspettarmelo. «Non è andata così.» E poi perché diavolo avrei voluto tenere in vita il generale Braddock? Non aveva senso.
Ma non gliel’avrei mai detto. Ero troppo impegnato a ripeterle che no, no, non era colpa mia, maledizione, ascoltami, Tiio. A volte penso che sarebbe stato più utile zittirla con un bacio. Se solo fossi stato un uomo diverso, più sicuro di me. Non riuscivo a tollerare che mi venisse strappata via così, e seguire il filo tra quello che pensavo e quello che dicevo era sempre più difficile.
Come un duello con il miglior spadaccino del mondo.
«Smetti di giustificarti.» Stoccate veloci, continue, a cui puoi reagire solo d’istinto.
«Tu non sai com'è andata!» Parare fino a stancarlo, fino ad aprire una falla nella sua guardia. «Non sai quello che ho fatto e non hai idea di quanto sia realmente successo! Non puoi venire qui e dirmi che avremo un bambino per poi scappare nella foresta!» I grandi fendenti non servono a niente e tutta la furia che ribolle nel tuo sangue è sprecata. Solo, non te ne rendi conto.
L’unica cosa che potrebbe salvarti è la lucidità. E l’avevo persa nell’esatto istante in cui l’avevo vista venire verso di me, il passo sicuro e l’aria austera. Quindi attaccavo di potenza, o ci provavo, senza capire che avrei soltanto peggiorato le cose.
Forse fingevo di non capirlo. «Io avrò un bambino» replicò Tiio gelida. Giusto. Era il suo ventre. Le sue gambe. Il suo travaglio. «Tu non avrai niente.»
«Parliamone, per favore.» La mia voce era ridotta a un pietoso sussurro, il petto tremante per i singhiozzi che sicuramente mi sarebbero usciti di bocca. «È anche mio figlio.» Era solo questione di secondi. L’aria era spessa come fumo, impossibile da mandar giù. «È anche...»
«Non avrà nulla di tuo, Haytham.» Tutto in lei sembrava fatto per fermare i miei stupidi tentativi. La sua voce affilata e schietta, quella di sempre, le parole così dure, i suoi occhi neri affondati nei miei. Nessuna pistola poteva far tanto male, nessun proiettile, nemmeno gli interminabili anni d’addestramento con Reginald. E il modo in cui pronunciava il mio nome. Irremovibile e senza pietà.
Se l’avessi vista in quel modo allora, se non mi fossi fatto sopraffare dal panico di perderla per sempre e mi fossi reso conto di tutte le cose che me la facevano amare così tanto anche lì, in mezzo al nulla, mentre mi mandava al diavolo, forse le cose sarebbero andate diversamente.
Peccato che avessi paura, una paura fottuta. Non avevo il tempo e il sangue freddo per pensare a questo. Volevo solo trattenerla, restare al suo fianco il più a lungo possibile. «Allora perché sei venuta fin qui? Per farmi del male?» Anche se mi disprezzava. Anche se volevo farla sentire in colpa e sembrare il povero Cristo che non ero mai stato.
Prese un respiro che parve durare un’eternità, i pugni stretti lungo i fianchi e una vena di nervosismo a solcare il suo volto. «Perché hai fatto una promessa che non sei riuscito a mantenere.»
«Dunque è per ripicca!» sbottai, sollevando i palmi in un gesto teatrale.
Perché non lasciavo perdere, eh? Perché non mi ero fermato un attimo a pensare che poteva non essere l’atteggiamento giusto, che quella non era la risposta e non l’avrei mai convinta a restare con me? Continuavo a ignorare il semplice fatto che quella donna mi avesse capito, capito davvero. Sapeva come ero fatto, e io non volevo accettarlo. Speravo di poter cambiare.
Lo speravo ancora. Gran brutto guaio. «Non sei adatto a questa vita» brontolò, lo sguardo perso tra i rami della Frontiera, intrecciati sopra le nostre teste.
«Che ne sai?» replicai. Insomma, ne parlava come se fosse una cosa scontata. Pareva dire che non sarei mai stato adatto a quella vita. «Come fai a saperlo se non mi dai nemmeno la possibilità di dimostrarlo? Come puoi dire così, che cosa...»
«Tu sei un assassino!»
Ci fu una pausa. Una delle più intense e pesanti della mia esistenza.
Il sangue mi si gelò nelle vene, la lingua completamente asciutta e il petto che sembrava incapace di rialzarsi da sé. Trattenevo il fiato. Non c’era uno solo dei miei muscoli che riuscisse a muoversi. Ero in grado soltanto di guardarla, di ascoltare l’eco di quella sola parola nelle mie orecchie, assassino, con tutto ciò che essa comportava.
Quindi era quello il modo in cui mi vedeva. «Non permetterò alle tue battaglie di distruggere la nostra vita» sibilò, la voce piena di rimpianti. Aveva… aveva detto davvero così? La nostra vita? Di chi diavolo parlava? Di me e lei? O lei e il bambino? Meglio, di tutti e tre! Sì. Sicuramente.
Io non volevo rovinare la vita di nessuno, men che meno dell’esserino che stava crescendo dentro di lei, e avrei dato qualunque cosa per dimostrarlo, per non restare escluso da qualcosa di così bello e che non ero riuscito a godermi quando ne avevo avuta l’occasione.  
Così lo dissi. «Posso rinunciare.» Mossi il primo passo verso il tradimento che avrebbe istigato Reginald a impiccarmi. «Posso lasciar perdere i Templari, vivere con te e il bambino. Avere una vita normale.»
Che brav’uomo, eh? Con propositi così nobili, così coraggiosi. Chi avrebbe preferito vivere da sola? «Non puoi scappare da un Ordine come quello» ammise, schietta come sempre. Sembrava lo sapesse già. Aveva intuito che avrebbero usato lei, il mio sogno di una vita normale, per fottermi. E diceva la verità. Non puoi scappare dai Templari.
Nemmeno dagli Assassini, ma non era nelle sue intenzioni farlo. Facile, così. Rimasi a guardarla con la bocca mezza aperta, senza riuscire a credere a ciò che diceva. Cosa ne sapeva, lei? Non era una di noi, e non era me. Non sapeva a cosa avrei rinunciato pur di restare insieme.
Non riuscivo a spiccicare parola. Non ne ero più capace. Sospirò. «Ti sto salvando la vita, Haytham.»
Non le credevo. Non vedevo una logica nel suo discorso, ma un modo per tenermi lontano. Una scusa come tante altre. «Se volevi salvarmi la vita» ringhiai «non dovevi venire qui. Bastava restassi nell'ombra, come hai fatto in tutto questo tempo.» Avrei voluto non essere arrabbiato con lei e cogliere ciò che davvero voleva dirmi, il pericolo da cui aveva sempre cercato di tenermi lontano, ma io non ero come Tiio. Non lo sono mai stato. La verità è che non riuscivo a vedere più in là del mio naso, e c’era… C’era come una parte di me che la pensava in modo diverso, che aveva capito.
Non doveva trovarsi lì. Sicuramente non c’era la prima volta, quando era successo davvero. Era… una sensazione, ecco. Come una corda che cercasse di arrotolarsi intorno ai miei polmoni e fermare le parole iraconde che mi sgorgavano dalla bocca come un fiume in piena.
Era la ragione di un vecchio. Costellata di rimpianti e priva di quell’amore. «Non vuoi salvarmi la vita.» Vidi me stesso mentre glielo dicevo, la voce così colma di rabbia da incrinarsi. «Vuoi soltanto farmela pagare per Braddock.»
Schioccò la lingua. La sua reazione a qualsiasi cosa, su per giù. La stessa che aveva ereditato suo figlio. Nostro figlio. L’ammasso di carne che le occupava il petto e di lì a qualche mese sarebbe stato stretto nelle sue braccia, senza di me. «E poi dici che sono io a non sapere niente» replicò senza nemmeno guardarmi in faccia. Non c’era paura nei suoi occhi. Evitava di puntarmeli addosso perché sapeva esattamente che cosa colmasse il mio sguardo. L’ira. La paura di perderla, di perdere la mezza famiglia che ero riuscito a mettere in piedi. Aveva già colto tutte quelle cose, così come aveva già deciso di ignorarle.
Aveva scelto. E la sua scelta non ero io. «Non sono così meschina, Haytham. Credevo fosse giusto dirtelo.»  
«Dirmelo» brontolai con la testa incassata tra le spalle. Pensavo che dirmelo non significasse un bel niente. Sembrava un pettegolezzo, una di quelle notizie date tanto per parlare di qualcosa. “Pessimo raccolto questa primavera, eh? A proposito, sono incinta e ho intenzione di crescere nostro figlio senza di te. Cos’è che stavi dicendo del tuo pollaio?”.
Non sopportavo che lo desse così per scontato. Dovevo aspettarmi che avremmo avuto un figlio, e che l’avrebbe voluto tenere lontano da me. Però non ce la facevo. «Dammi almeno una possibilità» mormorai, cercando di non suonare troppo patetico. Avrei dato qualsiasi cosa per restare con lei e nostro figlio e avere una vita decente. Avrei dato la mia anima. Non mi era mai passato per la testa che ai suoi occhi non dovevo nemmeno possederne una. Un approfittatore come me. Uno che usa le povere donne native per ingannarle e farsi portare nei luoghi sacri della sua tribù.
Era sbagliato. Era tutto sbagliato, e io volevo uscirne. Peccato che non potessi.
Tiio scosse la testa piano. «Una possibilità? La vita non è fatta di allenamenti.» Aveva piantato gli occhi nei miei, finalmente, e il suo sguardo non mi era mai sembrato più ferreo. «Quando una cosa è rotta lo è per sempre.»
Odiavo quel modo di ragionare. Tipico di chi non ha mai fatto un errore nella sua vita. E Dio solo sa quanto sia facile parlare in quelle situazioni. Quando ancora non hai perso nulla e credi di avere il mondo in mano. «Puoi provare a ripararla» le dissi in un ringhio, ma suonava più come una supplica.
«Già» sospirò. «Ma non sarà mai come prima. Tu non sei fatto per riparare le cose. Sei bravo solamente a distruggerle.»
Una pugnalata.
Come un fuoco ad avvolgere le viscere, fiamme e vecchi chiodi, il dolore più grande che un uomo possa provare lì, incastrato nel petto, tra il cuore e lo stomaco. E all’inizio preghi che resti lì perché hai paura, paura che possa fare ancora più male e ucciderti. Non vuoi che si muova. Temi che si propaghi e ti ammazzi, ma arrivi a un punto in cui il dolore è troppo, non ce la fai più, e devi smetterla di contrarre i muscoli per tentare di arginarlo. Lo lasci scorrere. Su per la spina dorsale e giù, giù lungo le gambe. Ti si annida nelle ginocchia e dietro gli occhi e poi esplode, insieme e tutto in una volta, come una polveriera.
La mia testa saltò in aria. Non ne rimase che un ammasso dolorante di carne e ossa affondato nelle mani, gli occhi sgranati e secchi. Sembrava che quelle dannate fiamme avessero prosciugato tutto ciò che c’era dentro di me.
Le gambe cedettero nello stesso istante, ancorate nel terriccio come quelle di un mendicante che implora la pietà altrui. Non andartene, avrei voluto dirle, ma non riuscivo a spiccicare parola.
Faceva troppo male. Allungai le mani nella terra umida della Frontiera, fresca e fertile, buona per piantare le tende ed essere felici. Le lacrime non volevano saperne di sgorgare, i miei singhiozzi bloccati in fondo al petto, come sassi gettati in fondo al mare.
La parte di me che sapeva sarebbe successo non aveva niente da dire. Non mi avrebbe compatito. Non avrebbe fatto niente. Che cosa puoi fare in situazioni del genere, se non aspettare che passi?
Aspettare… che passi. Sì.
Udii la sua voce un’ultima volta, fredda e calma e venata appena di dispiacere, ma non era sufficiente. Non bastava a salvarmi, a salvare noi. «Addio, Haytham» disse soltanto.
Si allontanò. Io abbassai le palpebre su quei grossi sassi sbeccati che mi sembrava di avere al posto delle palle degli occhi. Non riuscii a piangere, nonostante tutto.
Solo a urlare.
La rividi anni dopo, prima della mia esecuzione. Avrei preferito fosse stato davvero quello il nostro ultimo incontro. Avrebbe fatto meno male, forse.
Non lo so. Non sapevo più niente. Potevo soltanto gridare e gridare e continuare a chiamare il suo nome più forte che potevo, fino a strapparmi la gola, fino a morire soffocato per quel continuo trattenere il respiro.
Urlare.

 
Aprii gli occhi con la trachea arsa da una manciata di chiodi incandescenti, l’aria incagliata tra uno e l’altro, incapace di scendere nei polmoni, e la spina dorsale fatta a pezzi. Nel mio petto c’era soltanto la rombante sensazione di star urlando, il fiato a graffiarmi il palato come artigli di una bestia feroce.
Niente demoni.
Non importava quali suoni uscissero dalla mia bocca, nemmeno li sentivo. Non riuscivo a fermarli. Era quello a colmarmi lo spazio tra una costola e l’altra, il panico, la gelida paura di continuare così per sempre, con gli occhi sgranati fissi sulla grande chiazza bianca che era il mondo intorno a me.
Ero morto. Senza alcun dubbio. Cosa poteva essere quella, se non la mia discesa agli Inferi? La luce candida, il corpo circondato dalle fiamme, fatto di fiamme. Urla disperate agganciate ai polmoni, o a ciò che ne restava.
Catabasi.
Oh, no, pietà.
Che cosa avevo fatto di male per meritare quella morte?
Domanda sbagliata, suppongo.
– E che cazzo, piantala!
Uno strillo acuto. In tutta onestà, non sembrava nemmeno la mia voce.
Il sipario bianco che avevo davanti agli occhi fu squarciato da una scomposta chiazza nera. Un proiettile in mezzo agli occhi.
Dovevo essere morto davvero. Non potevo vivere un’altra volta quel particolare momento della mia vita – sentire di nuovo la voce di Tiio, ascoltare le sue accuse velenose e accettare il fatto che mi avesse lasciato per sempre, nostro figlio nel grembo e il cuore traboccante astio – e sopravvivere.
Caddi all’indietro, la schiena poggiata su qualcosa di duro e freddo mentre, davanti ai miei occhi, qualcosa cominciava a diventare più chiaro. I rami degli alberi, lunghi e ritorti attraverso il cielo della Frontiera, appena illuminato dal chiarore che seguiva l’alba. Una ciocca di capelli appiccicosi dondolava sulla mia palpebra sinistra mentre l’aria tornava lentamente a strisciare nei polmoni, giù per la gola ancora bruciante.
Emisi uno sbuffo, ricacciando i capelli indietro sulla fronte. Ero vivo. Maledizione. Lo ammetto, una parte di me non poté fare a meno di pensare per quale diavolo di motivo fossi ancora lì. Perché? Dopo tutto ciò che l’Occhio dell’Aquila mi aveva fatto vedere, la notte passata a correre dietro i fantasmi del mio passato… e quelle voci, poi, che continuavano a ripetermi le stesse cose. Non era una prova. La parte difficile sarebbe arrivata dopo.
Forse era per quello che speravo di essere morto. Mi avevano detto che la vita era una scala continua, a volte in salita e a volte in discesa. Non per me. La mia discesa sembrava non arrivare mai, e sentivo che se avessi affrontato un altro maledetto gradino verso l’alto le mie gambe avrebbero ceduto come quelle di un vecchio infermo. Non era proprio il momento che aspettavo da tutta la vita. – Ah – gemetti, stupito di riuscire a spiccicare parola. – Cristo.
– C-capo?
Sollevai appena la testa, il collo teso come un ramo secco. Thomas Hickey se ne stava schiacciato contro il tronco di un albero, piegato su se stesso come un ragazzetto impaurito. Sollevai un sopracciglio quando mi caddero gli occhi sul suo piede sinistro, fasciato solo da un vecchio calzino bucato. – Il tuo stivale? – Dio, la mia voce somigliava terribilmente al gracchiare di una cornacchia. Lasciai ricadere il capo sulla terra, respirando con la bocca aperta e le dita che sfioravano appena il suolo.
– Il mio stivale, dici? – Non avevo mai sentito Tom parlare così piano. Con così tanta paura nella voce. Arricciai l’angolo delle labbra in un sorriso al ricordo della pistola che gli avevo puntato contro solo poche ore prima. – Non ti ricordi proprio un cazzo, vero?
Non so se dalla sua posizione riuscì a coglierlo, ma feci spallucce. Ricordavo Reginald, e il signor Fayling, e Tiio che mi dava dell’assassino prima di sparire nella Frontiera e lasciarmi solo come un cane in mezzo al niente, strillando il suo nome come un pazzo.
Nient’altro. – Sii più chiaro, ti spiace? – Intrecciai le mani sul petto in attesa di una risposta. Non avevo nessuna fretta. Il gelo della terra sulla schiena e l’aria che scorreva dentro e fuori dai polmoni non mi erano mai sembrati tanto piacevoli. Avrei fatto qualsiasi cosa pur di rimandare l’inevitabile.
Perché era lì. Lo sentivo nell’odore dell’aria e del fango in cui affondavo i talloni, nei versi degli uccelli, anch’essi intrisi di timore reverenziale. Li percepivo, come una raffica di vento dritta in faccia. Quella zona della Frontiera era intrisa del potere dei Precursori, un dettaglio che avevo ignorato la prima volta che vi avevo messo piede.
C’era un altro tipo di potere, quella volta.
Le dita di Tiio strette nel mio palmo.
Il cuore in pace. – Più chiaro – brontolò Thomas, la voce distante alle mie orecchie. – Come vuoi. Ti sei messo a parlare da solo per tutta la Frontiera. – Buttai fuori il fiato attraverso il naso. Mai che la Prima Civilizzazione mi facesse sembrare una persona normale, eh? – È abbastanza chiaro per te?
– Cristallino. – Mi tornò alla mente un altro paio di cose. Ricordavo di aver abbracciato un albero, o di esserci andato a sbattere, convinto che fosse lei. Oh, chissà quante risate si stavano facendo quei tre, dovunque essi fossero. – E la scarpa? L’hai venduta a un commesso viaggiatore per un servizietto?
– A-ah, quanto sei divertente. – Thomas zampettò verso di me, le labbra contratte in una smorfia schifata ogni volta che il suo piede sinistro affondava per metà nella terra morbida, e si chinò a raccogliere qualcosa accanto al mio corpo.
Pregai fosse il sasso con cui mi avrebbe sfondato il cranio.
– Dio – sibilò tra i denti, in precario equilibrio sulla gamba destra. – Eccolo qua. – Gli lanciai un’occhiata mentre sventolava verso di me il vecchio stivale con un buco nella suola. Oh. Peccato. – Vuoi sapere che c’ho fatto, capo? – ringhiò con una strana ombra negli occhi, come uno spavento dal quale non si fosse ancora ripreso del tutto. – Ho dovuto tirartelo addosso.
Lo calzò con noncuranza. Sembrava rinato all’idea di avere di nuovo tutt’e due i piedi al sicuro dentro le scarpe, ma forse non avevo capito bene quello che mi aveva detto. Inarcai un sopracciglio. – Mi hai tirato uno… – Sbuffai. La strana chiazza nera che mi ero visto danzare davanti agli occhi, ecco cos’era. Come lo strillo da ragazzina che avevo sentito prima ancora. Mi era parso strano venisse da me. – Ah.
– Ah? – Si passò le mani tra i capelli, reclinando il capo in una di quelle sue risate roche e isteriche. – Tutto qui? È tutto quello che sai dire?
– Se hai tu qualcosa da dire dillo e basta, Tom – replicai con calma, troncando sul nascere ogni sua voglia di sputare stronzate da quella bocca.
Si piegò sulle ginocchia, i palmi poggiati sulle cosce e il capo inclinato da una parte. – Vuoi sentirlo mentre sei sdraiato lì o devo aspettare che tu segua l’esempio di Nostro Signore e risorga?
Roteai gli occhi. Non credevo che sarei riuscito a sopportare le sue battutine ancora a lungo. La verità è che non avevo voglia di alzarmi in piedi. Sentivo le ginocchia deboli come quelle di un poppante e la schiena ancora dolorante, come se qualcuno si fosse divertito a smontarla pezzo per pezzo e rimetterla insieme in un ordine diverso, seguendo il criterio artistico di un folle. – Quando vorrò cambiare posizione sarai il primo a saperlo.
Thomas si rimise in piedi, ridendo così forte da suonare fuori luogo. Mi mordicchiai le labbra pensando che in fondo lui era sempre fuori luogo, qualunque cosa dicesse. Non si trattava certo di una novità. – Porca puttana, capo, pensavo avessi perso solo la testa, mica pure il senso dell’umorismo. Siamo messi male, qui.
Avrei voluto vedere lui. Provaci, Tom. Prova a vivere quello che ho vissuto io, vediamo se trovi qualcosa da ridere in tutto questo schifo. Ancora non riuscivo a credere che Minerva e Giunone l’avessero fatto davvero. Una specie di viaggio spirituale nel mio passato. Una vera commedia. Così gli lanciai un’occhiataccia e sperai che capisse. – Ti ho trovato svenuto, o addormentato, non lo so. – Hickey prese a camminarmi attorno come il dannato avvoltoio che era, passandosi un proiettile da una mano all’altra come fosse un giocattolo. – Mi sa che stavi dormendo, perché parlavi. Cioè, cazzo, urlavi. Mi hai messo addosso una paura fottuta.
– Urlavo, dici? – Storsi la bocca in un sorriso triste. Niente di strano, ripensando a quello che mi aveva detto Tiio.
– Oh, altroché se urlavi. – Anche Tom sorrise, ma il suo sembrava più un sogghigno da predatore. Il solito. – Come se c’avessi il diavolo in corpo. Non facevi altro che ripetere il suo nome.
Feci finta di nulla, non so esattamente perché. Non volevo sentire ancora il suono di quell’unica sillaba, forse, o non mi andava che capisse quanto tenessi a lei nonostante fosse sepolta in chissà quale buco della Frontiera. – Sai, no, dell’indiana.
– Però – esclamai puntellandomi sui gomiti così da poterlo guardare in faccia senza problemi. Sporsi il labbro inferiore in una smorfia stupefatta e lo fissai con il capo inclinato da una parte. – Le hai persino chiesto come si chiamasse, prima di fotterla. I miei complimenti.
Ridacchiò, il figlio di puttana, guardandomi mentre mi tiravo su con un balzo scomposto, ben lontano da quelli di una volta. Le cose cambiano. Mi bastava ripensare alla cavalcata verso Fort Duquesne, quella in cui il vecchio Braddock era quasi morto – quasi, Tiio, quasi, maledizione – e noi eravamo così ben organizzati, tutti e sei uniti per un solo obiettivo, ammazzare quel traditore. Tutti e sei in quelle stesse terre, quando ancora ci fidavamo l’uno dell’altro e pensavamo di essere immortali, di poter imporre il nostro controllo sulle Colonie senza alcuna resistenza.
Se solo Tiio avesse ucciso Washington. Se avessi ucciso Braddock.
Sarebbe stato tutto completamente diverso.
Eppure io avevo continuato a sbagliare, e niente era cambiato. Costanti e variabili. Altro che scale, la vita era fatta di quello. Costanti e variabili.
Lanciai un'occhiata di sottecchi a Thomas, tutto intento a passarsi il palmo della mano sulla guancia, come nel tentativo di cacciare una vecchia macchia difficile. Che si fosse pentito o meno di quel che le aveva fatto non m'importava. Mi era bastato rivederla in quel sogno e in quelle strane allucinazioni nel mezzo della Frontiera, insieme a Reginald, Fayling e mia madre. Non giudicarmi male. Per favore. Credevo che sentire ancora parlare di lei mi avrebbe fatto solo sentire peggio, e non avevo bisogno di un'infermiera incapace che riaprisse le mie ferite al momento sbagliato. Il passato era passato, e i morti erano morti. Costante. Non esiste un modo per variarle, le costanti. – Devi continuare a guardarmi così ancora per molto? – brontolò Thomas tra i denti sbarrati. Teneva la mascella contratta e il corpo teso, pronto a scattare in qualsiasi momento. Forse temeva che lo picchiassi. 
Non distolsi lo sguardo, in attesa che smuovesse la situazione con una di quelle sue battute stupide, qualcosa del genere "Che c'è, mi trovi carino?" o "Se vuoi una sega sono tre scellini, per un lavoro di bocca saliamo a dieci", invece niente. Per qualche attimo nessuno dei due mosse un muscolo né spiccicò parola, e furono alcuni degli istanti più sereni della mia vita da Dio solo sapeva quanto tempo. Non sapevo se Tom avesse effettivamente paura di me, non rientrava nelle mie priorità, ma i suoi occhi scorrevano lenti dalla mia testa all'altezza della cintura, scavavano tra i vestiti pregando silenziosamente di scorgere la canna della pistola al sicuro nella sua fondina.
Sogghignai. L'avrebbe capito persino un idiota. Era ancora – Dio, probabilmente lo era sempre stato – terrorizzato all'idea di morire. E a essere sincero, be', vorrei dire che la sua era idiozia o... Chiusura mentale o qualche stupida cosa di questo genere, ma la paura è l'unica cosa che salva un uomo nei momenti veramente difficili. Ti dice quando scappare, dove scappare, ti aiuta a restare zitto e mantiene le gambe agili, i pensieri veloci, animali. 
Non puoi avere paura di lui, sussurrò una vocetta nella mia testa. Non puoi entrare lì dentro avendo ancora paura di lui. Buttai fuori tutta l'aria dal petto in un sospiro. Non avevo avuto paura del suo fantasma, ma quello non era Reginald. Era il mio modo di vedere Reginald. Una storia leggermente diversa, no? Eppure la mia testa aveva ragione. Non potevo lasciare che la paura mi guidasse. 
Spostai gli occhi da Thomas, e mi parve quasi di sentirlo finalmente prendere fiato. – Grazie – bofonchiò mentre si scostava il colletto della camicia dalla pelle bianca e solcata di vasi, come fiumi e strade sulla mappa che non avevo minimamente pensato di portare. – Allora? – proseguì a mezza voce. – Hai idea di dove sia questo Tempio, adesso? 
Incrociai le braccia sul petto, il peso che passava lentamente da un piede all'altro. – Mi hanno lasciato qui. Dev'essere vicino. – Studiai il paesaggio come un cacciatore – un predatore –, come mi aveva insegnato Birch quando ero ancora un ragazzino. Il terreno piatto della Frontiera s’inclinava in un piccolo crinale pieno zeppo di cespugli. L'unico sentiero percorribile girava intorno a tutte quelle erbacce e scendeva, proseguendo verso ovest. A nord, invece, proprio lì, oltre l'ansa del sentiero e i cespugli intricati, c'era qualcosa di terribilmente simile a un gigantesco mucchio di rocce, come la cima di una montagna fatta crollare giù dal cielo nel posto sbagliato. 
– Quindi è stato qualcuno a portarti qui. – Thomas schioccò la lingua contro il palato. Quando mi voltai a guardarlo si stava sturando un orecchio per poi osservare con straordinaria attenzione il suo contenuto. – Pensavo fossi semplicemente pazzo. 
Gli feci un sorrisetto di circostanza e mi portai una mano alla tempia, a schermo degli occhi. – Che razza di luce – sibilai tra i denti mentre pregavo che l'Occhio dell'Aquila tornasse per un secondo, un secondo soltanto, il tempo necessario a scorgere l'ingresso del Tempio. – Andiamo – li implorai, – forza. 
– Cerchi di cagare? 
Lo colpii con una sberla dietro le orecchie senza nemmeno il bisogno di guardarlo. Presi a battere le palpebre più velocemente, le labbra che si muovevano rapide in una muta preghiera alla Prima Civilizzazione. È qui, chiedevo, so che è qui. Per favore. Datemi solo modo di capire dove. Lo ripetevo a quei tre con la paura nel cuore, le ginocchia che per miracolo ancora reggevano il peso del corpo. Dovermi rivolgere ai Precursori con quei toni supplichevoli era come gridare a un chirurgo di tagliarti via una gamba solo perché ferita. Sul momento ti sembra un atto di carità perché vuoi solo stare meglio, non sei preoccupato di quanto male farà segarla e vivere senza. Non ti importa. Urli e preghi e implori senza più dignità di agire, agire adesso, per favore. 
Io non sapevo se e quanto le azioni di quei tre bastardi avrebbero effettivamente giovato alla mia condizione, ma pregavo. Pregavo lo stesso. 
Fu come una saetta. Apparve per un brevissimo, singolo istante, proprio lì, tra un masso e l'altro, un piccolo alone dorato in mezzo a un mondo blu-grigiastro. L'ingresso del Tempio. Un buco. Nient'altro che la solita, stupida grotta dipinta. 
– Lì – sussurrai, stranito dall'intonazione eccitata nella mia voce. – È là in mezzo. 
– Come indicare un ago in un mucchio di aghi, capo. Inutile. 
– Oh, zitto. – Era proprio laggiù, a nord, dritto davanti a me. Doveva essere quello il luogo in cui Reginald si sarebbe infiltrato insieme a Charles, convinto di tendermi un'imboscata da manuale. – Seguimi – ringhiai tra i denti. Cercavo di formulare un piano, magari uno che funzionasse. Se avessi sbagliato qualcosa non avrei più avuto altre possibilità. 
Una possibilità? La vita non è fatta di allenamenti!
Oh, Tiio, per piacere, che qualcuno la facesse stare in silenzio cinque minuti, cinque contati. Provavo a ignorare l'eco della sua voce, ma proprio lì stava il problema. Non era l'imitazione storpia creata dalla mia mente – oh, quella mi chiedeva di baciarla –, ma lei, la vera lei, con le sue esatte e reali parole. 
Scrollai il capo mentre camminavo nella maniera più silenziosa possibile tra gli arbusti. Forse la Prima Civilizzazione, con la sua presenza così forte nell'aria, mi avrebbe dato una mano a mettere in piedi un piano. Dovevo rifletterci. Il mio solo desidero era aprire quel dannato Tempio, vendicarmi di Reginald, salvare Charles e vivere in maniera decorosa quel po' di vita che mi restava, ma senza il Frutto dell'Eden era tutto inutile. Il primo punto della lista era già bellamente superato con un balzo a piè pari. Odiavo me stesso per quel che provavo, ma volevo davvero entrare in quella caverna. Dovevo sapere perché ci attirasse così tanto, noi come gli Assassini, che cos'avesse di tanto speciale. 
Non volevo che la vendetta fosse il solo scopo della mia vita. Prima che Birch rovinasse tutto io avevo un sogno. La tregua. E i Precursori mi avevano detto che si nascondeva lì dentro, che avrei avuto una risposta. 
Sbuffai indispettito mentre mi ravviavo i capelli con le mani. Non potevo mettere piede lì dentro. Senza nemmeno la Chiave, poi. Bastava mancassero quegli stupidi manufatti perché il Grande Tempio non fosse altro che un'inutile grotta con le pareti pitturate. 
Lanciai uno sputo oltre la spalla e ripresi a scendere il fianco della conca, la redingote che si impigliava ogni due passi in un qualche cespuglio. – Scendiamo? E dove? – biascicò Thomas. C'era una nota scettica nel suo tono. 
– Giù – replicai in maniera più che esauriente. – Verso il Tempio. 
Hickey mi affiancò di corsa, una strana scintilla a brillargli negli occhi scuri. – Sul serio? – sbottò, felice come un bambino in vista del Santo Natale. – E che si fa? Si entra?
Scrollai il capo in una risatina. – Magari. – Gli feci cenno di stare giù e proseguimmo a camminare piegati in due come degli idioti – o dei cacciatori, predatori –, le mie ginocchia e la schiena che ancora opponevano una certa dolorosa resistenza, ma almeno eravamo certi di essere totalmente nascosti dalla macchia. – Adesso si aspetta, Thomas – sussurrai mollandogli una pacca sua schiena. – Adesso si aspetta.
Così aspettammo. – E quale sarebbe questo Grande Tempio? – chiese Tom pochi minuti dopo che il sole aveva cominciato a illuminare, anche se parzialmente, la ripida parete di roccia. Se ne stava lì, in piedi con un ramoscello in bocca, a scrutare i sassi come se non ne avesse mai visto uno.
Aspettammo molto. – Quella specie di bocca laggiù, sotto quel grosso ramo ancorato nella terra. L'hai visto? – Avevo studiato e tenuto d'occhio il buco per tutto il giorno, in attesa di vedere Reginald e Charles entrare lì dentro. O uscirne. Bastava si facessero vivi. 
– Ah. Ah, sì, credo di sì. – Tom si sedette di nuovo a terra, le gambe incrociate e le spalle incurvate verso le ginocchia. – Credi che siano lì dentro? 
No. Non lo credevo, ne ero quasi certo. Eppure gli risposi facendo spallucce. Non mi andava di dar voce alle mie peggiori paure e insicurezze proprio davanti a lui. – Allora perché ce ne stiamo qui? Non potremmo ucciderlo e basta?
Roteai gli occhi con una smorfia scocciata appiccicata sul viso. – Non credo che Connor sarebbe d'accordo – sibilai tra me e me. – La Mela ce l'ha lui. Se vuole ancora aiutarmi devo... Sono quasi in debito con lui. Sarebbe scorretto. E poi non sappiamo quanta gente ci sia effettivamente in quella grotta. – Avevo pensato anche a quello, l'evenienza che Reginald si fosse portato dietro un esercito, ma non era un'ipotesi cui davo molto credito. La sua strategia era sempre stata quella del "pochi, ma buoni". Il rito coloniale aveva contato al massimo sette, otto membri, e gli Assassini eravamo riusciti ad ammazzarli lo stesso. 
Una delle soddisfazioni della vita, eh? – Uhm. – Thomas si sbracò con i talloni e i gomiti affondati nel fango, neanche fosse lì ad aspettare da tutta la vita. – Questo è vero, ma aprire il Tempio dopo che sarà crepato dovrebbe essere più facile, no? Perché aspettare? 
Sbuffai ancora. – Perché voglio entrarci davvero, Thomas, e se per puro caso Reginald avesse nascosto la Chiave in qualche buco sconosciuto potrei perdere per sempre anche l'unica possibilità che ho. – Abbassai lo sguardo sulle mie ginocchia. Non avevo voglia di parlargli di quelle cose. Pensavo non avrebbe capito. – Dobbiamo farla insieme. Questa cosa, intendo. Altrimenti...
– Ah – m'interruppe Tom, – sei ancora convinto che noi e quei ragazzini incappucciati possiamo collaborare, giusto?
Gli scoccai uno sguardo indispettito. – Non si tratta di esserne convinto – replicai. – È il mio scopo. Il mio piano. 
Le sue labbra si arricciarono in un ghigno. – Ma pensi davvero che possa funzionare? 
Sì? No? Dio mi fulmini. Non riuscivo a trovare una risposta. – La pace è ciò che entrambi vogliamo. Devo essere onesto, Tom? Al diavolo il controllo sulle Colonie e su questa gente, che se lo tenga Washington. Io sono vecchio. Sono uno stupido vecchio che ha sprecato la propria vita ad ammazzare convinto che ci fosse una qualche utilità, un fine. Apri bene le orecchie, ragazzo, perché non è così. Niente di ciò che abbiamo fatto servirà mai a soggiogare dei contadini che vogliono farsi una nuova vita da questa parte del mare. Sono già controllabili. Lo siamo tutti, lo siamo da sempre. Con noi al potere le cose andrebbero meglio? Non lo so. Non riesco nemmeno a pensarci. Tutto quello che so è che la disputa tra noi e gli Assassini è inutile. Basta che uno apra bocca per farsi puntare una pistola alla testa dall'altro. Invece di esaminare le nostre ragioni e ciò che potremmo trovarvi di buono ci spariamo addosso in base alle nostre armi o agli anelli che indossiamo. Ci stiamo fregando con le nostre mani, Tom. E io non lo tollero.
Chinai il capo, la fronte soppesata nel palmo della mano, e rimasi a guardare la terra tra le mie gambe con una smorfia. Ecco. Gliel'avevo detto. Pensavo che l'Ordine avesse uno scopo, e non era proprio una bugia. Aiutava a capire meglio gli uomini, come ragionano, cosa vogliono. Era diventata una guerra priva di senso, la nostra. Presto sarebbe arrivata un'altra generazione di Templari, e magari loro sarebbero riusciti a portate l'ordine nel mondo e far inchinare tutti alla Croce, ma non era quello che volevo, e non era nemmeno quel che voleva Reginald. 
Il vecchio bastardo voleva me. Voleva Thomas e voleva Charles, dei burattini da mandare in giro per il Nuovo Mondo a spargere sangue e propaganda. Chi pensavamo di controllare se eravamo i primi a obbedire a degli ordini solo in quanto tali? 
Ucciderlo. Pensare a una tregua. E se ci fossero stati problemi avremmo trovato una soluzione. Insieme. 
Una scintilla d'orgoglio s'accese nel mio petto. Una tregua. Non c'era mai riuscito nessuno, e mi sentivo così vicino a quel risultato da esserne quasi commosso. – Altre domande?  
Quando sollevai lo sguardo su di lui vidi che aveva tirato fuori dalla testa una vecchia fiaschetta di latta. Gesù Cristo, pareva non riuscisse a muovere un passo senza la sua dose quotidiana di alcolici. – Una ce l’avrei – sussurrò con un ghigno. – Sicuro che te lo possa chiedere? – Allargai le braccia, come a dire che provare era sempre lecito. Al limite gli sarebbe arrivato un pugno in faccia o, perché no, una pallottola tra gli occhi. Per davvero, questa volta. Rimasi lì a guardarlo, in attesa di ascoltare il suo misterioso interrogativo. Thomas aveva gli occhi accesi, vivi, le labbra poggiate alla fiaschetta e l'espressione scaltra che gli campeggiava in viso sempre più di frequente da quando ci eravamo piazzati davanti al Grande Tempio. Dovranno uscire di lì, prima o poi, pensavo di tanto in tanto, osservando la bocca della caverna circondata dalle fronde cadenti come i capelli unticci di una vecchia zingara. Dovranno pur farsi vedere. E ogni secondo che passava ero più frustrato, irritabile e stufo. Non ce la facevo più, maledizione. – Di' pure – grugnii stropicciandomi gli occhi con le mani.  
Tom si sistemò più comodo, un braccio intorno alle ginocchia. La vista di quel suo sorrisetto furbo fece venire voglia di bere anche a me, così gli intimai di passarmi la fiaschetta agitando una mano. Prendila così. Se Reginald decidesse di giocare con te saresti già più che rilassato, no?
Strinsi forte i denti, sperando che il dolore bastasse a scacciare i pensieri, e Thomas mi allungò il contenitore metallico con una smorfia soddisfatta. – Che farai quando esaurirai il tuo repertorio di bestemmie e loro saranno ancora lì dentro? 
Levai gli occhi al cielo della Valle Mohawk, i raggi del sole che facevano capolino dalle macchie di alberi alle nostre spalle. Speravo che la tranquillità di quell’ambiente e l’alcool mi aiutassero a mantenere la calma fino all’arrivo di Connor. Fino alla resa dei conti. – Ne inventerò di nuove, suppongo. – Inclinai la fiaschetta sulle labbra e mandai giù un lungo sorso di liquore, asciutto e bruciante lungo la gola. Gin. Era incredibile pensare quanto quella roba sapesse di casa. – Birch e Lee hanno già un vantaggio fin troppo grande, fidati. – Mi sarebbe piaciuto avere l’effetto sorpresa dalla mia parte, ma ero giunto alla conclusione che più tempo passavamo lì in attesa di Connor e più Reginald si sarebbe insospettito, strappandomi dalle dita anche l’unica arma che mi era rimasta.
Gli cedetti la fiaschetta con un brivido che galoppava rapido su per la spina dorsale. Volevo essere il più lucido possibile, quando avrei messo piedi nel Tempio. – Fantastico! – Tom se la riprese e schioccò la lingua, soddisfatto. – E per quanto riguarda il bastardo e il suo ritorno a casa? – Tentennò, pronunciando le parole seguenti con più cautela. – Voglio dire... Se ci avesse mollati qui alla faccia della sua incrollabile moralità? 
Oh, Gesù, perché non smetteva di essere così pessimista? – Be' – replicai incrociando il suo sguardo. Un sorriso mi si stava formando sul volto, un po' come quando in gioventù ammazzavo un bersaglio che avevo cercato con tutta la fatica e la passione dell’allievo ansioso di mettere in pratica le proprie competenze. – Potremmo sempre andarlo a cercare e farlo al forno con la Mela dell'Eden in bocca. Oppure, mah, potresti chiudere quella cazzo di bocca e pensare a un piano.  
Si strinse nelle spalle e levò i palmi al cielo. – Ehi, ehi, io te l'ho proposta un'idea. 
– Piazzarmi con i calzoni abbassati davanti all'ingresso non è un'idea, Tom. – Strinsi la base del naso tra due dita e reclinai la schiena contro il cespuglio dietro il quale ci eravamo appostati, i rami appuntiti che mi pugnalavano alla schiena come bastardi traditori. – È solo un'altra delle tue stronzate. 
Scoppiò a ridere. – Io dico che funzionerebbe. – Lo fulminai con un’occhiata e cambiò rapidamente discorso. Saggia decisione, amico mio. – D’accordo. D’accordo. Piuttosto, che ne dici una sega? 
– Tom. 
– E dai, Haytham, che cazzo vuoi ora? Siamo soli in mezzo al niente, senza nulla da fare e nulla da perdere. – Sollevò la fiaschetta al nulla e si grattò una crosta sul collo, in corrispondenza della vecchia ferita di Achille. Quando ancora pensavo di non essere l’unico idiota a volere la pace tra le nostre due fazioni. Ah, i bei tempi andati. – Io dico sega.
Che il diavolo se lo portasse. – Scordatelo, Tom – bofonchiai scuotendo la testa. 
– Allora, allora, allora... Facciamo così. – Mi mostrò i denti, sfilando un vecchio coltellaccio male affilato dallo stivale. – Io ti faccio un'altra domanda e tu mi rispondi sinceramente. Dai un'ultima occhiata alla bocca dell'inferno o quel che cazzo è e poi ci facciamo una sega. Una piccola. – Socchiuse gli occhi e ritrasse le labbra, facendo schioccare la lingua in una smorfia preoccupata. – Su, capo, non dire che non ne hai bisogno. 
Sbuffai. – Le tue idee non hanno senso. Non ne hanno mai. – Ma d'altronde non mi resta niente di meglio, no? Sollevai gli occhi e le mani al cielo, cercando di raccattare tutta la mia pazienza e usarla come uno scudo dalle sue idiozie. – E sia. – Come se, in fondo, non avesse ragione lui. Una mano sull'uccello mi avrebbe calmato, forse. 
– No, no, ehi, attento. Prima la domanda. 
– È una domanda seria, Tom? 
Si premette il palmo sul cuore, come quando aveva giurato fedeltà al Re. Prima di partire per le Colonie, unirsi ai Templari e attentare un paio di volte alla vita di George Washington. – La più seria che mi uscirà mai di bocca. 
Allora è tutto dire. Gli feci cenno di proseguire, e quello si poggiò il mento sulle mani come una comare di paese ansiosa di sapere le ultime nuove sulla moglie di questo o quel tale. – Tu non ci hai mai portati qui – esclamò con un cipiglio indagatorio in viso. – Non hai mai fatto vedere a nessuno di noi il maestoso sito dei Precursori. Ora. – Drizzò la schiena e unì le punte delle dita in un gesto teatrale. – Avevi paura che beccassimo le macchie di sperma? 
Si prese uno scappellotto senza nemmeno essene avvisato, ma non riuscii a trattenere una risata convulsa e silenziosa. Solo un uomo con il suo stupido senso dell’umorismo sarebbe riuscito a dire una cosa del genere in quel momento, con il rischio di morire rintanato in una caverna a un centinaio di passi da dove ci trovavamo. – Cosa ti fa pensare che io scopassi lì dentro? – E con chi, poi?
Si strinse nelle spalle, già pronto a sfibbiarsi i calzoni. – Boh. Sai, come idea aveva una certa atmosfera. – Si prese l’uccello in mano con un gesto fulmineo e stese le gambe, il retro dei calzoni che ormai doveva essere completamente imbrattato di fango e altre schifezze. – Su. Avevi promesso, capo.
Roteai gli occhi e mi voltai, dando le spalle al Grande Tempio mentre cercavo con gli occhi un punto in cui la terra non grondasse acqua stagnante. Dio, nonostante fossimo appena alla fine dell’estate c’era talmente tanta umidità nell’aria da farmi rimpiangere gli inverni passati nella Frontiera e le meravigliose traversate sull’Aquila in compagnia del costante mal di mare di Tom.
Anche quand’ero stato lì per la prima volta era estate, ora che ci pensavo. Luglio. – Capo? Si comincia? – Tom mi diede di gomito, ma lo ignorai apertamente. Lo vidi con la coda dell’occhio fare spallucce, sputarsi su una mano e cominciare a muoverla, il bicipite contratto e i piedi che sciaguattavano nel fango.
Stavo pensando a Tiio, il cuore bloccato nella trachea e incapace di schiodarsi di lì. Erano passati ventitrè anni. Ventitrè maledettissimi anni, e c’erano cose di lei che non riuscivo più a ricordare. Piccoli dettagli. Non importava in quanti sogni o visioni potessi ammirarla, ero convinto che qualcosa di lei in quei ricordi non fosse vero. C’erano macchie sulla sua pelle, nei e lentiggini di cui mi ero dimenticato? E le sue mani? Il suo collo? L’idea di portare nel cuore un’immagine di lei sfuocata e distora mi scombussolava. C’era qualcosa di sbagliato in me, nel mio assurdo modo di amarla. Tiio non era la donna giusta da immaginare con una mano dentro i calzoni. Il nostro non era quel tipo d’amore. Per quanto cercassi di ricordare le nostre conversazioni e i momenti in cui eravamo felici, quelli sembravano sfuggirmi dalla testa o sostituiti da pallide e banali imitazioni degne di un romanzetto da due soldi, e i nostri ultimi momenti, quando il suo astio mi aveva colpito doloroso come una mazzata nelle reni, erano più vivi che mai. Potevo ignorarli, fingere che niente di tutto ciò fosse mai accaduto, ma sapevo benissimo che non era la verità, così come lo sapeva la Prima Civilizzazione. E potevo scommettere tutti i miei miseri averi che avrebbero usato quella parte del mio passato contro di me. Sarebbero stati stupidi a non farlo, mi ripetevo, così come io ero stato un idiota a nasconderli come macchie su una camicia.
– Tom.
– Uh. – Schiuse un occhio, l’altro prepotentemente serrato mentre la mano destra continuava a salire e scendere imperterrita. – Che c’è? – sussurrò, la voce strozzata.
– A che stai pensando? – Era una domanda imbarazzante, diavolo, ma se non a lui a chi potevo rivolgerla? Connor? Washington? Un sasso? Piuttosto mi sarei tagliato la mano.
Strizzò di nuovo le palpebre e sussultò. – Un paio di tette e una che si versa una birra addosso prima di farsele succhiare. – Mi scrutò come prima, solo da una parte, e scoppiò a ridere davanti alla mia espressione stranita. – Che c’è? Ognuno ha la sua fissa, no? – Si diede una strizzata all’uccello, come se solo parlandomi l’erezione rischiasse di sfuggirgli di mano. – Di certo Reginald non ti accoglierà a braccia aperte quando saremo lì dentro. Non fare lo schizzinoso, cazzo, potrebbe essere l’ultima occasione della tua vita.   
Confortante, cazzo. – E va bene – esclamai esasperato, gli occhi agli alberi intrecciati sopra di noi. Era una questione di fantasia, giusto? Fantasia. Non mi veniva in mente nulla di eccitante. Ero sempre stato un realista, l’immaginazione non era esattamente il mio forte, nemmeno in momenti come quelli.
Lanciai un’occhiata in direzione del Grande Tempio. Soprattutto in momenti come quelli, forse. Da un altro punto di vista, Thomas aveva ragione. L’eventualità di morire in quella caverna mi alitava sul collo come un cane da caccia, e continuare a pensarci non mi avrebbe aiutato in nessun modo. Quindi, be’, tanto valeva provarci. Sfibbiai i calzoni con le dita intorpidite, quel tanto che bastava per infilare una mano nelle mutande. Poi chiusi gli occhi e mi umettai le labbra, cercando di pensare a qualcosa che non riguardasse…
…due gambette striminzite e l’enorme sagoma di Reginald alle mie spalle, le mani serrate intorno al mio bacino e la bocca schiusa nell’espressione del piacere più assoluto…
…il terrore che colma il mio petto mentre mi passo le mani sulla faccia e mormoro che non succederà più, non succederà mai più, e nello stesso momento lui torna, s’inginocchia accanto a me e mi poggia una mano sul ginocchio, come avessi ancora dieci anni. La fa scorrere lungo la gamba e sussurra che andrà tutto bene. “Sei stato bravo”, sibila con quella maledetta voce viscida che odio, ma di cui non posso fare a meno perché è l’unica cosa che mi resta. E il palmo scorre verso il cavallo dei miei calzoni, impiega una frazione di secondo a infilare la mano sotto la stoffa e stringere, facendomi irrigidire fino alla punta dei capelli. “Meriti una ricompensa”, ma questa non è una ricompensa, è una punizione, è paralizzante. Muove quella maledetta mano su e giù mentre mi mordicchio le labbra con le lacrime agli occhi e tiro su col naso, preda dei sensi di colpa. Perché è una cosa terribile, diavolo, ma fa sentire caldo. Quel tipo di calore piacevole che non posso ignorare. “Datti una rinfrescata.” Il tipo di calore che mi fa correre nella toeletta con una mano sulla bocca appena la porta della mia stanza si chiude di nuovo e affondare la faccia nel catino pieno, aspettando che le bolle smettano di turbinarmi attorno e l’intero mondo, quell’orrore là fuori che continua a ferirmi come se non ne avessi già passate abbastanza, svanisca.
Quando tiro la testa fuori dall’acqua i polmoni hanno troppo bisogno d’ossigeno per sprecarlo in singhiozzi e lacrime o in qualsivoglia pensiero. Scivolo a terra e cerco un punto fisso nel muro di fronte a me, qualcosa da fissare che non faccia male, che non abbia alcun contatto con la mia vita e possa aiutarmi a resistere un altro giorno, perché posso avere sedici anni, ma non sono un idiota.
Se metto piede fuori sono morto. Mi daranno la caccia e mi riporteranno qui dicendo quanto sia stato un cattivo ragazzo e un pessimo allievo. E se le ricompense di Reginald mi fanno questo non posso pensare alle punizioni.

Resistere un altro giorno. Solo uno, con la sua voce che continua a tormentarmi.
“Datti una rinfrescata”, mi risuona in testa.
Mi alzo in piedi a fatica, le gambe che mi reggono per miracolo.

Solo un altro giorno…
…la vecchia vita, insomma.
Tom venne nello stesso istante in cui mi alzai in piedi, piegato in due come un giocattolo rotto. – Oh, sì. – Oh, Dio, no. Sentivo il fiato scorrere denso e a fatica nella trachea, neanche stessi cercando di buttare giù della lana. Nel frattempo Thomas tirò un paio di respiri cauti, come fosse stata la migliore scopata immaginaria della sua vita.
Oh, Dio. Non avevo mai avuto un ricordo simile prima di allora. Strofinai le mani sulla bocca con un singhiozzo, incanalando tutta l’aria che i polmoni riuscivano a contenere. Il ventre mi bruciava, infiammato dal dolore di quelle immagini, i muscoli come contratti tutti insieme a una velocità paranormale. Le gambe sembravano volersi torcere su loro stesse e farmi crollare di nuovo a terra, nel fango da cui ero venuto, e tutto il mio corpo si consumava nelle fiamme dell’orrore che avevo vissuto. Strizzai le palpebre sugli occhi infiammati e asciutti e afferrai due ciocche di capelli sulle tempie, rischiando di strapparle via, per impedire a quello schifoso ammasso di ossa, muscoli, tendini, cervello e memorie di saltare in aria, esplodere e spargersi sull’erba fangosa, sulle foglie ancora verdi, tingendole di rosso e bianco e nero.
Che altro colore potrebbe avere quella vita?
– Capo… – No, no, zitto, Tom, zitto, per carità di Dio, lasciami in pace. Non mi vedi? Non vedi che sto impazzendo? – Tutto bene? – Non vedi tutto il male che ho fatto? Serrai le palpebre, ma le lacrime non volevano saperne di uscire. Come allora, avevo bisogno di un punto nel vuoto in cui guardare, qualcosa che mi aiutasse a tirare avanti un altro po’. Il necessario e niente di più. Diavolo, Tom, non vedi tutto il male che ho dovuto sopportare?
– Lasciami… solo – riuscii a sussurrare. – Tu e le tue idee del cazzo. – Non mi venne nient’altro da dire e rimasi bloccato in quella posizione, facendo scendere lentamente le mani verso le tasche, le palpebre che si aprivano lentamente. C’era un sassolino con la forma precisa della Scozia lì, incastonato nel fango accanto ai miei piedi.  
Tirare avanti un altro po’. Non era questa grande pretesa, in fondo.
Mi lasciai cadere all’indietro, piano, le braccia strette intorno alle ginocchia. Lanciai uno sguardo all’ingresso del Tempio, sopra la spalla e oltre i cespugli, i pugni serrati e traboccanti odio.
Era lì dentro. Doveva essere lì dentro, perché se fosse stato in mezzo alla Frontiera, come noi, con il cannocchiale puntato su di me e sulla mia patetica disperazione per trarne… cosa, di preciso? Gioia? Soddisfazione? Piacere? Non importava. Il semplice fatto che mi osservasse in attesa di vedermi crollare era sufficiente ad aizzare la rabbia che covavo nel petto. Reginald Birch non era un brav’uomo, anzi, era probabilmente uno dei più crudeli che avessi mai conosciuto, e nessun’azione avrebbe mai potuto renderlo peggiore. Aveva già toccato il fondo, e io ero lì per rispedirlo al Creatore.
Chi avrebbe mai potuto creare spontaneamente una persona così? Un Dio che manda sulla terra uomini con una mente del genere meritava di essere considerato tale? Se fosse esistito, be’, se lo sarebbe dovuto riprendere proprio come lo aveva plasmato, perché l’avrei ucciso.
Non c’era nessun altro pensiero che potesse farmi sentire vivo. Nessuna maledetta sega, nessun alcolico o interrogativo esistenziale.
Solo quella che era sempre stata la base della mia routine quotidiana. L’omicidio.
  
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