I’m
not a Murderer
12
Un
passo per volta – e dieci al secondo
Avevano
deciso di uscire insieme, in un appuntamento vero.
Castor,
prima di lasciare che la portiera si chiudesse alle spalle di Max, lo
aveva
richiamato e gli aveva chiesto, con un’esitazione che non gli
era solita, se
avesse ancora voglia di uscire con lui, la settimana successiva.
Per
una
cena.
Max
aveva esitato.
Stava
per chiudersela alle spalle – se lo ricordava perfettamente,
come se ogni
secondo si fosse dilatato permettendogli di percepire ogni dettaglio
– dopo un
saluto veloce e un viaggio silenzioso.
Era
rimasto per ore ad ascoltarlo leggere, a sentire e vivere la storia di
Yuri
Stasov, un ragazzo come tanti che sceglie volontariamente di vivere un
inferno
per soddisfare il suo più grande desiderio. Si era perso
nella voce profonda
che disegnava, nella penombra del bar, di assassini
senz’Anima, fughe per la
Russia e relazioni segrete senza riuscire ad esprimere le sensazioni
che quella
storia gli aveva provocato.
Quando
l’aveva conosciuto, aveva avuto l’impressione che
fosse solo uno dei tanti
figli di papà che si divertono a ridicolizzare la gente; poi
aveva creduto che si
trattasse di uno stronzo figlio di puttana che si diverte a giocare con
il
prossimo. Ne aveva conosciuto un lato inaspettato, alla fine, quando si
era
precipitato da lui mentre era al capezzale di Bach, quando lo aveva
rassicurato
e lo aveva stretto tutta la notte. Era rimasto stupito quando aveva scoperto che non se n'era andato,
rimanendo ad aspettarlo
fuori dall’ospedale e si era sentito sciogliere il cuore
– come una maledetta
ragazzina, shit – quando,
esitante,
gli aveva chiesto una seconda possibilità.
Solo
una cena, aveva detto. Senza impegno, proprio come quel pranzo.
L’avevano
fissato per due sere successive e poi, senza un altro saluto, aveva
fatto
ripartire la macchina, lasciandolo in uno stato di perenne agitazione.
Dal
momento in cui mise piede sul pianerottolo – quando suo
fratello William lo
aveva superato a tutta velocità blaterando qualcosa su- no,
proprio non lo
ricordava – fino a quando Castor lo aveva chiamato per
mettersi d’accordo
sull’ora, era rimasto in uno stato di calma apparente, mentre
il suo cervello
continuava a ripetere le stesse parole a ciclo continuo.
Cosa
stava succedendo? Cioè, stava davvero
succedendo?
Ora,
Castor non sembrava aver mai dato l’idea di volersi impegnare
in qualche modo –
più o meno seriamente – ma il fatto che,
sorvolando sulla notte di… su quella
notte, lo avesse invitato ad
uscire per un appuntamento - un appuntamento vero - doveva pur
significare
qualcosa.
Max
non
era uno sciocco – sebbene una buona parte delle sue
conoscenze pensasse il
contrario – aveva capito di essere rimasto affascinato da
Castor.
Che
fosse un maschio non era mai stato un problema – insomma, era
stato cresciuto
in una di quelle comunità aperte sin da piccolo e riguardo
ai pochi dubbi che
si fosse mai posto prima, Castor li
aveva spazzati via, spiegandoglieli in modo molto pratico. Semmai le
sue
preoccupazioni erano legate ad altro. Il fatto che fosse la prima
relazione
seria da anni, che tutto stesse procedendo troppo in fretta. Persino
che si
trattasse di un ragazzone ricco e viziato poteva essere fonte di dubbi!
Dove
lo
avrebbe portato? Non aveva vestiti adatti per una serata.
Magari
sarebbero andati a fare un giro di shopping nel suo negozio, per farlo
preparare al meglio. Fece una smorfia, al ricordo.
Si
era
accorto che l’ansia aveva iniziato a raggiungere livelli
preoccupanti quando si
era reso conto di stare prendendo in considerazione la
possibilità di
introdursi a casa di Dorian – che aveva più o meno
la sua stessa taglia – e
fare incetta del suo armadio, ben più fornito.
Dove
diavolo avrebbe trovato un completo decente nella risma di maglie e
jeans che
affollavano i suoi cassetti?
Era
rimasto
sorpreso, quindi, quando aveva ricevuto un SMS da pare di Castor in cui
gli
diceva di aver prenotato, chiedendogli di passare a prenderlo intorno
alle sei.
Strano
era strano: in che locale avrebbero avuto il coraggio di presentarsi
con la sua
vecchia Ford? A giudicare dai bar che l’altro era solito
frequentare, avrebbero
fatto una figuraccia.
Perciò
– dopo essere rimasto almeno venti minuti (dico, venti
minuti!) davanti ai
cassetti per decidere cosa mettere – aveva guidato seguendo
le indicazioni ricevute
e aveva parcheggiato – Dear
God, come si sentiva fuori posto
– ai
piedi del maledetto edificio, il cui attico era proprietà
del suo appuntamento.
Aveva
riso tra sé; faceva strano sentire quei pensieri, persino
nella sua testa.
«Che
hai da ridere?»
La
voce
di Castor lo aveva riscosso e lui si era sporto per aprire la portiera
– la
maniglia esterna aveva il piccolo difetto di non sbloccarsi due volte
su tre.
Se si fosse aspettato di essere preso in giro per la sua mise, venne
deluso. Castor
lo aveva salutato, scostandogli un ciuffo ribelle, sorridendo, e
chiedendogli
cosa avesse fatto.
Provando
a rilassarsi, Max si lanciò in una dettagliata, quanto
intricata, cronologia
della settimana appena trascorsa.
°°°
Doveva
aver parlato con qualcuno. Ne era certo.
Bach
forse – quei due sembravano un po’ troppo amici per
i suoi gusti – oppure
Lionel. Persino Dorian o Brook sarebbero stati tra i sospetti, se solo
non si
fossero trovati a Oklahoma per un festival. Poi c’erano Jamie
e Joakim. E chi
altro?
Altrimenti
come avrebbe fatto Castor a sapere che quel ristorante – una
bettola che faceva
solamente carne alla griglia – fosse il suo preferito?
Lo
aveva scovato appena un mese dopo il suo arrivo a Philadelphia: memore
di aver
sentito un buon odore in quella via, la prima volta che ci era passato,
lo
aveva seguito fino a trovarsi alla porta del "Inner
Pub", con l'acquolina in bocca e il suo primo stipendio
in tasca.
Poi,
in
seguito, vi aveva portato tutti i suoi migliori amici e compagni di
squadra;
perciò… chi era stato? Con chi aveva parlato?
In
quel
momento, proprio mentre stava stilando un elenco di persone a cui
togliere il
saluto, Castor gli aveva allungato la lista e aveva fatto una battuta
sulla
grandezza delle costate. E che potevano dividerne una, se Max ne avesse
avuta
voglia. E che avrebbe chiesto solo peperoni come verdure grigliate,
niente
cipolle.
Da
quel
momento in poi tutto era diventato confuso, in modo incredibile.
Una
volta aveva provato una canna – okay, forse pure due o tre. E
un paio di
bicchieri di whiskey – e la sensazione di luminosa euforia
era più o meno la
stessa. Sebbene l’erba non avesse dato alcun effetto di
costrizione allo
stomaco e calore tremante alle mani.
Avevano
riso, parlato – davvero, non riusciva a ricordare di cosa – e avevano vissuto il
momento.
Tre
ore. Avevano passato insieme tre ore che gli erano sembrate appena
venti minuti.
Poi,
ancora una volta, erano saliti in macchina e, dopo una maldestra
manovra per
uscire dal parcheggio, si erano diretti verso casa di Castor.
I
sedici
minuti più lunghi della sua vita.
«In
fondo» sentì la propria voce spezzare il pesante
silenzio che era tornato,
appena rientrati in macchina «non è stato poi
così male».
«No,
non è stato male» concordò l'altro, con
un sorriso «mi sono divertito»
«Anche
io!» si affrettò dire, facendolo scoppiare in una
risata.
Il
moro
sorrise, chiedendosi come mai non si sentisse offeso per la palese
presa in
giro. Era tutta la sera che se lo chiedeva, veramente. All'inizio della
serata
si erano rivolti la parola con cautela, quasi con circospezione, come
se
temessero di mancare di rispetto o rovinare quella seconda e
inaspettata
occasione. Poi, poco a poco, le battute e le insinuazioni scherzose
avevano
cominciato a prendere piede fino a quando non si erano trovati a non
poterne
fare a meno, prendendosi in giro a vicenda.
Gli
sarebbe mancata quell'intesa.
Aveva
ancora quel sorriso sulle labbra quando si sentì chiamare
dal finestrino
abbassato.
«Max».
Il
moro
si sentì quasi patetico nel lanciarsi verso il sedile del
passeggero, in attesa
che Castor dicesse altro.
«Si?»
domando, schiarendosi la voce nel tentativo di mostrarsi calmo.
Il
rosso
parve esitare prima di chinarsi verso di lui.
«Vuoi
salire?»
°°°
In
piedi, accanto alla porta d’ingresso, Max si chiese ancora
una volta cosa diavolo si fosse
messo in testa. Le voci
che l’avevano tormentato per tutti e due i giorni precedenti
erano tornate
prepotenti, facendogli riconsiderare il proprio livello di idiozia e
masochismo.
Cosa
diavolo si aspettava, ancora? Che dopo la seconda notte –
perché era certo che
ci sarebbe sta una seconda notte, glielo dicevano le sue gambe
tremanti, il
nodo allo stomaco e il calore nel bassoventre – lo avrebbe
trattato un po’
meglio, alle luci rivelatrici dell’alba?
Osservandolo
armeggiare con le due serrature e il codice di blocco – non
era solo blindata,
era anticarro, quella porta! – osservò la schiena
di Castor.
Era
una
delle cose che aveva notato di lui (sorvolando sui vestiti e i capelli
cangianti) visto che al loro primo incontro il rosso era di spalle. Non
erano
particolarmente larghe, non come quelle di un nuotatore, ma erano solo
la
sommità della lunga curva della schiena, fasciata in una
camicia aderente e
temporaneamente nascosta da una giacca in pelle camoscio.
Ma
da
quando cavolo conosceva il colore camoscio?
Aveva
pensato sin da subito che fosse attraente, ma al tempo non aveva avuto
idea del
carico di emozioni e coinvolgimento che sarebbero seguiti.
Per
un
attimo ebbe la tentazione di domandargli cos’altro
nascondesse dietro quel bel
corpo e la faccia da schiaffi.
«Mi
dici una cosa?» chiese invece, giocherellando con la cerniera
della giacca «Chi
ti ha consigliato quel posto?»
«Nessuno,
pensavo solo ti sarebbe piaciuto. E ho avuto ragione» gli
sorrise fugacemente,
distogliendo appena lo sguardo dalle chiavi.
«No,
dai. Sul serio»
«Guarda
che dico davvero» rise, decisamente più rilassato
«ci sono capitato per caso
qualche anno fa. Stavo lavorando al primo romanzo e avevo dimenticato
le chiavi
in casa e stavo morendo di fame! Avevo passato l’intera
giornata al pc, in un
parco, e stavo letteralmente sbavando. Poi ho sentito questo delizioso
profumino di carne che… ti lascio immaginare!»
Con
uno
scatto l’ultima serratura venne aperta e Castor la
spalancò per farlo passare
per primo.
«Avanti»
lo esortò scherzosamente.
Nel
passargli accanto, Max percepì distintamente
l’odore di more e pelle
caratteristico dell’uomo e strinse i pugni in una morsa,
sentendosi attratto
come non mai. Cercando di calmarsi lo imitò posando la
giacca all’ingresso e
seguendolo in cucina.
«Vuoi
qualcosa da bere?» diede una pacca allo sgabello
più vicino, chiedendogli
implicitamente di sedersi.
«Ho la
gola secca» confermò, accomodandosi.
«Ecco,
tieni» gli passò un bicchiere, pieno di un liquido
ambrato.
«Whiskey?»
domandò diffidente. Ricordava vagamente l’ultima
volta in cui aveva bevuto. Nel
senso che ricordava di aver bevuto ma non di come si fosse ritrovato
rantolante
in bagno.
«Sherry».
«Ah,
beh» annuì scettico, rigirandoselo tra le mani e
prendendone un sorso. Buono.
«Scusa,
tu non bevi?»
«No,
cioè, bevo certo. Ma non reggo molto»
ridacchiò, prendendone un altro, le
guance improvvisamente rosate «anzi, non reggo per
niente».
«Sarebbe
divertente starti a guardare» Castor ammiccò,
prendendogli il bicchiere e
bevendo un sorso, ignorando il mormorio risentito che gli
rifilò Max. Era stata
una cosa stupida, si disse restituendoglielo, poggiare le labbra dove
un attimo
prima erano state quelle dell'altro.
«Affatto»
lo contraddisse, vuotando il rimanente prima di posarlo sul bancone
«sono stato
malissimo. Un bicchiere o due posso anche reggerli, ma se vado oltre mi
ritrovo
a vomitare nel bagno più vicino».
«Allora
vediamo di evitare» Castor lo prese e lo mise nel lavandino,
facendo sparire la
bottiglia in qualche anfratto della cucina «è
stata una bella serata fino ad
ora, non vogliamo rovinarla, no?»
Per
un
attimo Max rimpianse di non avere più tra le mani qualcosa
che lo facesse
sentire meno idiota. Non sapeva cosa farsene, con tutte e dieci le dita
libere.
Castor
sembrò provare un perverso piacere nel vederlo a disagio,
nel suo territorio.
Una sorta di piccola vendetta per quello che era stato costretto a
passare
nella settimana precedente.
Max
non
si rendeva conto – che diamine, lui stesso non riusciva a
rendersene conto! –
dell’effetto che gli faceva. Lo vedeva sedere rigido e poteva
avvertire il
movimento dei muscoli sotto la maglia scura e il serrarsi delle gambe,
poteva
percepire il contrarsi dei fasci nervosi delle cosce – aveva
un preciso ricordo
di quelle cosce, strette attorno ai suoi fianchi – nascosti
dai jeans lisi. Si
leccò le labbra.
Persino
da quella distanza sentiva il cloro, penetrante nelle narici.
Era
stata una tortura tenere le mani a posto, mentre rideva e scherzava con
lui
durante la cena. Era stato felice, in quelle ore, ma non completo.
Avrebbe
voluto stringergli le mani mentre si tormentava le dita, leccargli via
lo
sbaffo di ketchup dalle labbra mentre mangiava e chiudergli la bocca
con la
propria mentre scoppiava ridere.
Chissà
se gli avrebbe dato il permesso di farlo, prima o poi, anche se questo
avrebbe
significato più di una semplice relazione fisica, molto di più.
Guardandolo
di sottecchi si chiese se Max avesse preso in considerazione quel di
più,
nell’accettare un altro appuntamento,
e
anche il motivo per cui la cosa gli facesse piacere.
Poi
si
accorse che l’attenzione del moro era rivolta verso la porta
più vicina, socchiusa, dalla
quale si intravedeva un
bracciolo chiaro. Con una fitta lo vide scendere dallo
sgabello e
muovere qualche passo verso la porta, come ipnotizzato.
«Me lo
ricordo» il tono di Max sembrava appena più roco
del solito, mentre entrava nel
salotto – che la colf aveva diligentemente riordinato un paio
di giorni prima –
e si spostava verso un mobile grande quanto una piattaforma per
elicotteri,
foderata di tessuto pregiato «il divano».
Castor
sorrise, chiudendo istintivamente gli occhi, e lo seguì, pur
rimanendo a
distanza.
«L'ho
fatto arrivare dall'Italia» mormorò piano,
accarezzando uno dei cuscini, senza
perderlo di vista «mi è costato una fortuna, ma ne
è valsa la pena».
«Esagerato»
anche Max tenne la voce bassa «il mio l'ho comprato usato da
qualche
rigattiere, ma mi piace lo stesso».
«Mi
piacerebbe provarlo».
Trattenendo
il fiato, Max si sedette al centro del divano, sprofondando nella
morbidezza
dei cuscini e sentendo tra le dita la trama morbida e liscia delle
fodere.
«Ne
rimarresti deluso, a confronto di questo».
Stargli
lontano stava diventando quasi doloroso e Castor odiava il dolore; si
mosse
dalla postazione tenuta fino a quel momento, alle spalle, per
arrivargli di
fronte.
«Come
mai?»
«Il mio
è bitorzoluto e più… duro»
Max esalò le ultime sillabe con un sospiro eccitato,
scombussolato dalla vicinanza dell'altro e dal suo profumo, che era
tornato a
riempire le sue narici come quella notte, prepotente e intossicante.
Persino
guardarlo lo faceva sentire agitato: le pupille erano dilatate e
lucide,
nascondendo completamente l'iride e la bocca era socchiusa, come in
attesa che qualcuno
la chiudesse.
«Mi
piace» anche la sua voce era diventata scura, ruvida e roca,
mentre gli si
avvicinava di un altro passo, come non riuscisse a stargli lontano
«mi
piacerebbe provarlo» ripeté
«sprofondarci».
Max
serrò le palpebre. Non stava più parlando del
divano.
«Hai le
pupille grandi come piattini da the» a quelle parole il moro
si costrinse ad
aprire gli occhi e a fissarlo sconvolto «mi piace come mi
guardi, mi piace
vederti seduto nel mio salotto. Mi piace averti ancora qui».
«Castor…»
provò a dire, tirandosi leggermente indietro.
«Cosa,
Maximillian?» senza accennare a fermarsi, Castor si
chinò su di lui, posando un
ginocchio sulla fodera tra le gambe socchiuse di Max.
L’altro
aprì e chiuse le labbra, completamente dimentico di quanto
avesse provato a
dire prima. La bocca era troppo vicina, gli occhi fissi nei suoi e il
fiato
bollente che s’infrangeva sul proprio.
Se
Castor aveva trovato difficile stargli lontano in precedenza, ora lo
trovava
totalmente irresistibile. Poteva avvertire il tremore
dell’altro tanto quanto
il proprio quando alzò le mani per sfiorargli la maglia,
facendo scorrere le
dita sulle cuciture delle maniche prima di afferrargli l’orlo
e sfilargliela,
facendo scorrere le nocche sulla pelle tesa.
Sotto
non portava niente.
«Castor»
tentò nuovamente, umettandosi le labbra e sporgendosi in
avanti. La tensione
stava diventando insopportabile e se il rosso non lo avesse baciato
subito,
sarebbe impazzito. Ma l’altro sorrise e gettò
l’indumento a terra, continuando
la lenta tortura con cui lo stava accendendo. Le dita pallide
continuavano a
scorrere, una per bloccargli la spalla e impedirgli di muoversi e
l’altra per
premere inaspettatamente sul cavallo teso dei suoi pantaloni.
Per
poco Max non si lasciò sfuggire un urlo.
«Ssh»
gli soffiò direttamente sulle labbra, pur continuando a non
toccarle. Lo
avrebbe torturato finché avesse avuto la facoltà
mentale per farlo e poi, solo
poi, avrebbe baciato fino a fargli perdere il respiro e la ragione. Gli
avrebbe
persino fatto dimenticare il suo nome, da quanto lo avrebbe fatto
godere.
Si
bevve ogni singolo gemito, singulto e tremito mentre gli sfilava i
jeans con
lentezza, facendo scorrere la lingua nell’interno coscia,
slacciandogli le
scarpe e sfilandogli le calze. Lasciò cadere il tutto,
tornando a far scorrere
i palmi sulla pelle man mano che risaliva, in una rude carezza.
Posò
con delicatezza le labbra sul mento, premendo leggero, donandogli poco
più di
una pressione. Gli mise le mani sulle spalle, sentendo le dita di Max
stringersi di riflesso sulle proprie, e si allontanò lo
spazio necessario per
tornare ad appoggiare nuovamente la bocca su quella pelle bollente,
lungo il
collo, centimetro dopo centimetro.
Leccò
con forza l’incavo della gola, facendogli emettere un gemito
profondo. Castor
gli sorrise sulla clavicola, aspirando quel suo odore che tanto lo
aveva attirato
quella volta, nel camerino, quella che sembrava una vita prima.
Tornò a
muovere le mani – mentre quelle dell’altro
rimanevano ancorate alle sue spalle
– facendole scorrere sulla pelle liscia, lungo il petto,
sfiorando appena i
capezzoli. Scese delicato lungo ogni costola, sulla linea del fianco,
posandosi
con maggiore forza sul sedere. Strinse le dita e lo baciò
sull’addome.
Max
si
dimenò appena, sentendo un calore improvviso salirgli dal
ventre. Si sentiva alla
grande. Si sentiva accaldato.
Incapace di mantenersi dritto,
rovesciò la testa indietro e il corpo la seguì.
Seguendo il movimento
dell’altro, Castor lo fece adagiare sulla schiena e
spazzò via i cuscini con un
braccio, senza staccare la bocca dall’ombelico, affondandoci
ritmicamente la
lingua e facendolo gemere. I ricordi della loro prima volta gli si
ficcarono in
testa, rendendogli impossibile smettere di gemere, ricordare e godere
quanto
Castor gli stava donando.
Poi
la
sua bocca iniziò a vagare decisa dallo stomaco al ventre,
stringendolo piano.
Seguendo
il suo istinto, Max gli infilò una mano nei capelli,
tirandoli e gridando a
pieni polmoni il suo nome.
Fu
un
attimo: Castor tornò alla sua altezza e gli
afferrò la nuca, facendo finalmente
combaciare le loro labbra e insinuandovi con prepotenza la lingua tra
quelle
martoriate di Max. Lo costrinse a chinare la testa
all’indietro per la foga del
bacio e lo approfondì senza freni, lasciando che un rivolo
di saliva scendesse
lungo le loro gole, sui loro petti. Gli si schiacciò addosso
infilando una
gamba tra le sue e strusciandosi su di lui.
Si
sentiva perdere il controllo e la cosa gli stava bene. Si sentiva
soffocare e
quell’odore di cloro lo faceva delirare al punto tale da
desiderare di fondersi
con quella pelle bollente e leggermente ruvida.
Max
si
mosse nelle sue mani, contro il suo petto e tra le sue labbra, e Castor
perse
quel poco di raziocinio che gli era rimasto. Aveva bisogno –
doveva sentirlo
ancora su di sé. Doveva – voleva
sentire solo lui.
Erano
passati giorni dalla prima volta in cui aveva assaggiato il suo sapore,
e non
riusciva più a farne a meno.
Senza
aspettare un secondo di più gli afferrò alla
cieca l’elastico dei boxer e glieli
sfilò fino alle ginocchia, trovando insopportabile
l’idea di staccarsi da quel
bacio, fosse anche solo per liberarlo da quell’unico
indumento che ancora lo
separava da lui.
«Castor»
Max mugolò nel riprendere respiro, tornando ad aprire gli
occhi, lucidi di
piacere.
L’altro
non gli permise di aggiungere altro e strattonò
l’indumento fino a quando non
riuscì a sfilarlo del tutto, lanciandolo da qualche parte
alle spalle e
salendogli a cavalcioni, curvandosi in avanti per approfondire
ulteriormente il
contatto tra le loro lingue.
Riprendendo
fiato, Castor leccò della saliva che era colata sulla
guancia di Max.
Vedendolo
tanto accaldato, aperto e pronto per lui – con
quell’espressione di vacuo
desiderio e perso nei suoi occhi –, Castor lo
abbracciò di slancio, affondandogli
le mani nei capelli e il viso nell’incavo della spalla.
«Finalmente».
Suo.
Ancora.
…
Ahehm, hi dears!
Ora,
sorvolando sull’immane ritardo per
l’uscita di questo capitolo e farò del mio
meglio con il prossimo… vorrei dire che-
Va bene, lo
ammetto, mentre sto scrivendo queste righe, sto
anche guardando un episodio di The Mentalist e mi sono appena
distratta,
dimenticando irrimediabilmente cosa avessi voluto dire con la frase
precedente.
Che idiota
vero?
Non so
esattamente cosa volessi dire. Forse una qualche
sviolinata sul fare meglio per il capitolo successivo, oppure che il
rating è
arancio e non rosso e quindi temo che non ci sarà un seguito
dettagliato su
quanto appena interrotto qualche riga sopra. O magari era per
comunicare che ho
intenzione di rivedere e correggere la storia che ho scritto un paio di
anni fa
(guarda caso, proprio quella citata, il cui protagonista è
Yuri Stasov).
Non ricordo
con sicurezza.
Chiedo
perdono.
Perciò
ora… chiudo qui. Buona serata cari e care XD
baci
NLH