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Autore: aliasNLH    05/02/2015    1 recensioni
«Tu lo sai, vero, che quando un uomo compra dei vestiti alla propria ragazza, lo fa perché vuole toglierglieli personalmente?» mormorò, rispondendo finalmente all’interrogativo.
Max deglutì, improvvisamente accaldato per via del contatto di quella mano – per non dire altro, considerato il fatto che si trovava tra decine di corpi sudati e uno in particolare felicemente spalmato su di lui.
Molto felicemente, in effetti. Avvampò.
«M-ma… io non sono la tua ragazza» cercò di erigere una – blanda – difesa a quello che sembrava qualcosa di inevitabile.
«Questo è vero» gli sussurrò in risposta, sfiorandogli il lobo con le labbra «non sei una donna».
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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I’m not a Murderer


12
 
Un passo per volta – e dieci al secondo
 
    Avevano deciso di uscire insieme, in un appuntamento vero.
    Castor, prima di lasciare che la portiera si chiudesse alle spalle di Max, lo aveva richiamato e gli aveva chiesto, con un’esitazione che non gli era solita, se avesse ancora voglia di uscire con lui, la settimana successiva.
    Per una cena.
    Max aveva esitato.
    Stava per chiudersela alle spalle – se lo ricordava perfettamente, come se ogni secondo si fosse dilatato permettendogli di percepire ogni dettaglio – dopo un saluto veloce e un viaggio silenzioso.
    Era rimasto per ore ad ascoltarlo leggere, a sentire e vivere la storia di Yuri Stasov, un ragazzo come tanti che sceglie volontariamente di vivere un inferno per soddisfare il suo più grande desiderio. Si era perso nella voce profonda che disegnava, nella penombra del bar, di assassini senz’Anima, fughe per la Russia e relazioni segrete senza riuscire ad esprimere le sensazioni che quella storia gli aveva provocato.
    Quando l’aveva conosciuto, aveva avuto l’impressione che fosse solo uno dei tanti figli di papà che si divertono a ridicolizzare la gente; poi aveva creduto che si trattasse di uno stronzo figlio di puttana che si diverte a giocare con il prossimo. Ne aveva conosciuto un lato inaspettato, alla fine, quando si era precipitato da lui mentre era al capezzale di Bach, quando lo aveva rassicurato e lo aveva stretto tutta la notte. Era rimasto stupito quando aveva scoperto che non se n'era andato, rimanendo ad aspettarlo fuori dall’ospedale e si era sentito sciogliere il cuore – come una maledetta ragazzina, shit – quando, esitante, gli aveva chiesto una seconda possibilità.
    Solo una cena, aveva detto. Senza impegno, proprio come quel pranzo.
    L’avevano fissato per due sere successive e poi, senza un altro saluto, aveva fatto ripartire la macchina, lasciandolo in uno stato di perenne agitazione.
    Dal momento in cui mise piede sul pianerottolo – quando suo fratello William lo aveva superato a tutta velocità blaterando qualcosa su- no, proprio non lo ricordava – fino a quando Castor lo aveva chiamato per mettersi d’accordo sull’ora, era rimasto in uno stato di calma apparente, mentre il suo cervello continuava a ripetere le stesse parole a ciclo continuo.
    Cosa stava succedendo? Cioè, stava davvero succedendo?
    Ora, Castor non sembrava aver mai dato l’idea di volersi impegnare in qualche modo – più o meno seriamente – ma il fatto che, sorvolando sulla notte di… su quella notte, lo avesse invitato ad uscire per un appuntamento - un appuntamento vero - doveva pur significare qualcosa.
    Max non era uno sciocco – sebbene una buona parte delle sue conoscenze pensasse il contrario – aveva capito di essere rimasto affascinato da Castor.
    Che fosse un maschio non era mai stato un problema – insomma, era stato cresciuto in una di quelle comunità aperte sin da piccolo e riguardo ai pochi dubbi che si fosse mai posto prima, Castor li aveva spazzati via, spiegandoglieli in modo molto pratico. Semmai le sue preoccupazioni erano legate ad altro. Il fatto che fosse la prima relazione seria da anni, che tutto stesse procedendo troppo in fretta. Persino che si trattasse di un ragazzone ricco e viziato poteva essere fonte di dubbi!
    Dove lo avrebbe portato? Non aveva vestiti adatti per una serata.
    Magari sarebbero andati a fare un giro di shopping nel suo negozio, per farlo preparare al meglio. Fece una smorfia, al ricordo.
    Si era accorto che l’ansia aveva iniziato a raggiungere livelli preoccupanti quando si era reso conto di stare prendendo in considerazione la possibilità di introdursi a casa di Dorian – che aveva più o meno la sua stessa taglia – e fare incetta del suo armadio, ben più fornito.
    Dove diavolo avrebbe trovato un completo decente nella risma di maglie e jeans che affollavano i suoi cassetti?
    Era rimasto sorpreso, quindi, quando aveva ricevuto un SMS da pare di Castor in cui gli diceva di aver prenotato, chiedendogli di passare a prenderlo intorno alle sei.
    Strano era strano: in che locale avrebbero avuto il coraggio di presentarsi con la sua vecchia Ford? A giudicare dai bar che l’altro era solito frequentare, avrebbero fatto una figuraccia.
    Perciò – dopo essere rimasto almeno venti minuti (dico, venti minuti!) davanti ai cassetti per decidere cosa mettere – aveva guidato seguendo le indicazioni ricevute e aveva parcheggiato – Dear God, come si sentiva fuori posto – ai piedi del maledetto edificio, il cui attico era proprietà del suo appuntamento.
    Aveva riso tra sé; faceva strano sentire quei pensieri, persino nella sua testa.
    «Che hai da ridere?»
    La voce di Castor lo aveva riscosso e lui si era sporto per aprire la portiera – la maniglia esterna aveva il piccolo difetto di non sbloccarsi due volte su tre. Se si fosse aspettato di essere preso in giro per la sua mise, venne deluso. Castor lo aveva salutato, scostandogli un ciuffo ribelle, sorridendo, e chiedendogli cosa avesse fatto.
    Provando a rilassarsi, Max si lanciò in una dettagliata, quanto intricata, cronologia della settimana appena trascorsa.
 
°°°
 
    Doveva aver parlato con qualcuno. Ne era certo.
    Bach forse – quei due sembravano un po’ troppo amici per i suoi gusti – oppure Lionel. Persino Dorian o Brook sarebbero stati tra i sospetti, se solo non si fossero trovati a Oklahoma per un festival. Poi c’erano Jamie e Joakim. E chi altro?
    Altrimenti come avrebbe fatto Castor a sapere che quel ristorante – una bettola che faceva solamente carne alla griglia – fosse il suo preferito?
    Lo aveva scovato appena un mese dopo il suo arrivo a Philadelphia: memore di aver sentito un buon odore in quella via, la prima volta che ci era passato, lo aveva seguito fino a trovarsi alla porta del "Inner Pub", con l'acquolina in bocca e il suo primo stipendio in tasca.
    Poi, in seguito, vi aveva portato tutti i suoi migliori amici e compagni di squadra; perciò… chi era stato? Con chi aveva parlato?
    In quel momento, proprio mentre stava stilando un elenco di persone a cui togliere il saluto, Castor gli aveva allungato la lista e aveva fatto una battuta sulla grandezza delle costate. E che potevano dividerne una, se Max ne avesse avuta voglia. E che avrebbe chiesto solo peperoni come verdure grigliate, niente cipolle.
    Da quel momento in poi tutto era diventato confuso, in modo incredibile.
    Una volta aveva provato una canna – okay, forse pure due o tre. E un paio di bicchieri di whiskey – e la sensazione di luminosa euforia era più o meno la stessa. Sebbene l’erba non avesse dato alcun effetto di costrizione allo stomaco e calore tremante alle mani.
    Avevano riso, parlato – davvero, non riusciva a ricordare di cosa – e avevano vissuto il momento.
    Tre ore. Avevano passato insieme tre ore che gli erano sembrate appena venti minuti.
    Poi, ancora una volta, erano saliti in macchina e, dopo una maldestra manovra per uscire dal parcheggio, si erano diretti verso casa di Castor.
    I sedici minuti più lunghi della sua vita.
    «In fondo» sentì la propria voce spezzare il pesante silenzio che era tornato, appena rientrati in macchina «non è stato poi così male».
    «No, non è stato male» concordò l'altro, con un sorriso «mi sono divertito»
    «Anche io!» si affrettò dire, facendolo scoppiare in una risata.
    Il moro sorrise, chiedendosi come mai non si sentisse offeso per la palese presa in giro. Era tutta la sera che se lo chiedeva, veramente. All'inizio della serata si erano rivolti la parola con cautela, quasi con circospezione, come se temessero di mancare di rispetto o rovinare quella seconda e inaspettata occasione. Poi, poco a poco, le battute e le insinuazioni scherzose avevano cominciato a prendere piede fino a quando non si erano trovati a non poterne fare a meno, prendendosi in giro a vicenda.
    Gli sarebbe mancata quell'intesa.
    Aveva ancora quel sorriso sulle labbra quando si sentì chiamare dal finestrino abbassato.
    «Max».
    Il moro si sentì quasi patetico nel lanciarsi verso il sedile del passeggero, in attesa che Castor dicesse altro.
    «Si?» domando, schiarendosi la voce nel tentativo di mostrarsi calmo.
    Il rosso parve esitare prima di chinarsi verso di lui.
    «Vuoi salire?»
 
°°°
 
    In piedi, accanto alla porta d’ingresso, Max si chiese ancora una volta cosa diavolo si fosse messo in testa. Le voci che l’avevano tormentato per tutti e due i giorni precedenti erano tornate prepotenti, facendogli riconsiderare il proprio livello di idiozia e masochismo.
    Cosa diavolo si aspettava, ancora? Che dopo la seconda notte – perché era certo che ci sarebbe sta una seconda notte, glielo dicevano le sue gambe tremanti, il nodo allo stomaco e il calore nel bassoventre – lo avrebbe trattato un po’ meglio, alle luci rivelatrici dell’alba?
    Osservandolo armeggiare con le due serrature e il codice di blocco – non era solo blindata, era anticarro, quella porta! – osservò la schiena di Castor.
    Era una delle cose che aveva notato di lui (sorvolando sui vestiti e i capelli cangianti) visto che al loro primo incontro il rosso era di spalle. Non erano particolarmente larghe, non come quelle di un nuotatore, ma erano solo la sommità della lunga curva della schiena, fasciata in una camicia aderente e temporaneamente nascosta da una giacca in pelle camoscio.
    Ma da quando cavolo conosceva il colore camoscio?
    Aveva pensato sin da subito che fosse attraente, ma al tempo non aveva avuto idea del carico di emozioni e coinvolgimento che sarebbero seguiti.
    Per un attimo ebbe la tentazione di domandargli cos’altro nascondesse dietro quel bel corpo e la faccia da schiaffi.
    «Mi dici una cosa?» chiese invece, giocherellando con la cerniera della giacca «Chi ti ha consigliato quel posto?»
    «Nessuno, pensavo solo ti sarebbe piaciuto. E ho avuto ragione» gli sorrise fugacemente, distogliendo appena lo sguardo dalle chiavi.
    «No, dai. Sul serio»
    «Guarda che dico davvero» rise, decisamente più rilassato «ci sono capitato per caso qualche anno fa. Stavo lavorando al primo romanzo e avevo dimenticato le chiavi in casa e stavo morendo di fame! Avevo passato l’intera giornata al pc, in un parco, e stavo letteralmente sbavando. Poi ho sentito questo delizioso profumino di carne che… ti lascio immaginare!»
    Con uno scatto l’ultima serratura venne aperta e Castor la spalancò per farlo passare per primo.
    «Avanti» lo esortò scherzosamente.
    Nel passargli accanto, Max percepì distintamente l’odore di more e pelle caratteristico dell’uomo e strinse i pugni in una morsa, sentendosi attratto come non mai. Cercando di calmarsi lo imitò posando la giacca all’ingresso e seguendolo in cucina.
    «Vuoi qualcosa da bere?» diede una pacca allo sgabello più vicino, chiedendogli implicitamente di sedersi.
    «Ho la gola secca» confermò, accomodandosi.
    «Ecco, tieni» gli passò un bicchiere, pieno di un liquido ambrato.
    «Whiskey?» domandò diffidente. Ricordava vagamente l’ultima volta in cui aveva bevuto. Nel senso che ricordava di aver bevuto ma non di come si fosse ritrovato rantolante in bagno.
    «Sherry».
    «Ah, beh» annuì scettico, rigirandoselo tra le mani e prendendone un sorso. Buono.
    «Scusa, tu non bevi?»
    «No, cioè, bevo certo. Ma non reggo molto» ridacchiò, prendendone un altro, le guance improvvisamente rosate «anzi, non reggo per niente».
    «Sarebbe divertente starti a guardare» Castor ammiccò, prendendogli il bicchiere e bevendo un sorso, ignorando il mormorio risentito che gli rifilò Max. Era stata una cosa stupida, si disse restituendoglielo, poggiare le labbra dove un attimo prima erano state quelle dell'altro.
    «Affatto» lo contraddisse, vuotando il rimanente prima di posarlo sul bancone «sono stato malissimo. Un bicchiere o due posso anche reggerli, ma se vado oltre mi ritrovo a vomitare nel bagno più vicino».
    «Allora vediamo di evitare» Castor lo prese e lo mise nel lavandino, facendo sparire la bottiglia in qualche anfratto della cucina «è stata una bella serata fino ad ora, non vogliamo rovinarla, no?»
    Per un attimo Max rimpianse di non avere più tra le mani qualcosa che lo facesse sentire meno idiota. Non sapeva cosa farsene, con tutte e dieci le dita libere.
    Castor sembrò provare un perverso piacere nel vederlo a disagio, nel suo territorio. Una sorta di piccola vendetta per quello che era stato costretto a passare nella settimana precedente.
    Max non si rendeva conto – che diamine, lui stesso non riusciva a rendersene conto! – dell’effetto che gli faceva. Lo vedeva sedere rigido e poteva avvertire il movimento dei muscoli sotto la maglia scura e il serrarsi delle gambe, poteva percepire il contrarsi dei fasci nervosi delle cosce – aveva un preciso ricordo di quelle cosce, strette attorno ai suoi fianchi – nascosti dai jeans lisi. Si leccò le labbra.
    Persino da quella distanza sentiva il cloro, penetrante nelle narici.
    Era stata una tortura tenere le mani a posto, mentre rideva e scherzava con lui durante la cena. Era stato felice, in quelle ore, ma non completo. Avrebbe voluto stringergli le mani mentre si tormentava le dita, leccargli via lo sbaffo di ketchup dalle labbra mentre mangiava e chiudergli la bocca con la propria mentre scoppiava  ridere.
    Chissà se gli avrebbe dato il permesso di farlo, prima o poi, anche se questo avrebbe significato più di una semplice relazione fisica, molto di più.
    Guardandolo di sottecchi si chiese se Max avesse preso in considerazione quel di più, nell’accettare un altro appuntamento,  e anche il motivo per cui la cosa gli facesse piacere.
    Poi si accorse che l’attenzione del moro era rivolta verso la porta più vicina, socchiusa, dalla quale si intravedeva un bracciolo chiaro. Con una fitta lo vide scendere dallo sgabello e muovere qualche passo verso la porta, come ipnotizzato.
    «Me lo ricordo» il tono di Max sembrava appena più roco del solito, mentre entrava nel salotto – che la colf aveva diligentemente riordinato un paio di giorni prima – e si spostava verso un mobile grande quanto una piattaforma per elicotteri, foderata di tessuto pregiato «il divano».
    Castor sorrise, chiudendo istintivamente gli occhi, e lo seguì, pur rimanendo a distanza.
    «L'ho fatto arrivare dall'Italia» mormorò piano, accarezzando uno dei cuscini, senza perderlo di vista «mi è costato una fortuna, ma ne è valsa la pena».
    «Esagerato» anche Max tenne la voce bassa «il mio l'ho comprato usato da qualche rigattiere, ma mi piace lo stesso».
    «Mi piacerebbe provarlo».
    Trattenendo il fiato, Max si sedette al centro del divano, sprofondando nella morbidezza dei cuscini e sentendo tra le dita la trama morbida e liscia delle fodere.
    «Ne rimarresti deluso, a confronto di questo».
    Stargli lontano stava diventando quasi doloroso e Castor odiava il dolore; si mosse dalla postazione tenuta fino a quel momento, alle spalle, per arrivargli di fronte.
    «Come mai?»
    «Il mio è bitorzoluto e più… duro» Max esalò le ultime sillabe con un sospiro eccitato, scombussolato dalla vicinanza dell'altro e dal suo profumo, che era tornato a riempire le sue narici come quella notte, prepotente e intossicante. Persino guardarlo lo faceva sentire agitato: le pupille erano dilatate e lucide, nascondendo completamente l'iride e la bocca era socchiusa, come in attesa che qualcuno la chiudesse.
    «Mi piace» anche la sua voce era diventata scura, ruvida e roca, mentre gli si avvicinava di un altro passo, come non riuscisse a stargli lontano «mi piacerebbe provarlo» ripeté «sprofondarci».
    Max serrò le palpebre. Non stava più parlando del divano.
    «Hai le pupille grandi come piattini da the» a quelle parole il moro si costrinse ad aprire gli occhi e a fissarlo sconvolto «mi piace come mi guardi, mi piace vederti seduto nel mio salotto. Mi piace averti ancora qui».
    «Castor…» provò a dire, tirandosi leggermente indietro.
    «Cosa, Maximillian?» senza accennare a fermarsi, Castor si chinò su di lui, posando un ginocchio sulla fodera tra le gambe socchiuse di Max.
    L’altro aprì e chiuse le labbra, completamente dimentico di quanto avesse provato a dire prima. La bocca era troppo vicina, gli occhi fissi nei suoi e il fiato bollente che s’infrangeva sul proprio.
    Se Castor aveva trovato difficile stargli lontano in precedenza, ora lo trovava totalmente irresistibile. Poteva avvertire il tremore dell’altro tanto quanto il proprio quando alzò le mani per sfiorargli la maglia, facendo scorrere le dita sulle cuciture delle maniche prima di afferrargli l’orlo e sfilargliela, facendo scorrere le nocche sulla pelle tesa.
    Sotto non portava niente.
    «Castor» tentò nuovamente, umettandosi le labbra e sporgendosi in avanti. La tensione stava diventando insopportabile e se il rosso non lo avesse baciato subito, sarebbe impazzito. Ma l’altro sorrise e gettò l’indumento a terra, continuando la lenta tortura con cui lo stava accendendo. Le dita pallide continuavano a scorrere, una per bloccargli la spalla e impedirgli di muoversi e l’altra per premere inaspettatamente sul cavallo teso dei suoi pantaloni.
    Per poco Max non si lasciò sfuggire un urlo.
    «Ssh» gli soffiò direttamente sulle labbra, pur continuando a non toccarle. Lo avrebbe torturato finché avesse avuto la facoltà mentale per farlo e poi, solo poi, avrebbe baciato fino a fargli perdere il respiro e la ragione. Gli avrebbe persino fatto dimenticare il suo nome, da quanto lo avrebbe fatto godere.
    Si bevve ogni singolo gemito, singulto e tremito mentre gli sfilava i jeans con lentezza, facendo scorrere la lingua nell’interno coscia, slacciandogli le scarpe e sfilandogli le calze. Lasciò cadere il tutto, tornando a far scorrere i palmi sulla pelle man mano che risaliva, in una rude carezza.
    Posò con delicatezza le labbra sul mento, premendo leggero, donandogli poco più di una pressione. Gli mise le mani sulle spalle, sentendo le dita di Max stringersi di riflesso sulle proprie, e si allontanò lo spazio necessario per tornare ad appoggiare nuovamente la bocca su quella pelle bollente, lungo il collo, centimetro dopo centimetro.
    Leccò con forza l’incavo della gola, facendogli emettere un gemito profondo. Castor gli sorrise sulla clavicola, aspirando quel suo odore che tanto lo aveva attirato quella volta, nel camerino, quella che sembrava una vita prima.
    Tornò a muovere le mani – mentre quelle dell’altro rimanevano ancorate alle sue spalle – facendole scorrere sulla pelle liscia, lungo il petto, sfiorando appena i capezzoli. Scese delicato lungo ogni costola, sulla linea del fianco, posandosi con maggiore forza sul sedere. Strinse le dita e lo baciò sull’addome.
    Max si dimenò appena, sentendo un calore improvviso salirgli dal ventre. Si sentiva alla grande. Si sentiva accaldato.
    Incapace di mantenersi dritto, rovesciò la testa indietro e il corpo la seguì. Seguendo il movimento dell’altro, Castor lo fece adagiare sulla schiena e spazzò via i cuscini con un braccio, senza staccare la bocca dall’ombelico, affondandoci ritmicamente la lingua e facendolo gemere. I ricordi della loro prima volta gli si ficcarono in testa, rendendogli impossibile smettere di gemere, ricordare e godere quanto Castor gli stava donando.
    Poi la sua bocca iniziò a vagare decisa dallo stomaco al ventre, stringendolo piano.
Seguendo il suo istinto, Max gli infilò una mano nei capelli, tirandoli e gridando a pieni polmoni il suo nome.
    Fu un attimo: Castor tornò alla sua altezza e gli afferrò la nuca, facendo finalmente combaciare le loro labbra e insinuandovi con prepotenza la lingua tra quelle martoriate di Max. Lo costrinse a chinare la testa all’indietro per la foga del bacio e lo approfondì senza freni, lasciando che un rivolo di saliva scendesse lungo le loro gole, sui loro petti. Gli si schiacciò addosso infilando una gamba tra le sue e strusciandosi su di lui.
    Si sentiva perdere il controllo e la cosa gli stava bene. Si sentiva soffocare e quell’odore di cloro lo faceva delirare al punto tale da desiderare di fondersi con quella pelle bollente e leggermente ruvida.
    Max si mosse nelle sue mani, contro il suo petto e tra le sue labbra, e Castor perse quel poco di raziocinio che gli era rimasto. Aveva bisogno – doveva sentirlo ancora su di sé. Doveva – voleva sentire solo lui.
    Erano passati giorni dalla prima volta in cui aveva assaggiato il suo sapore, e non riusciva più a farne a meno.
    Senza aspettare un secondo di più gli afferrò alla cieca l’elastico dei boxer e glieli sfilò fino alle ginocchia, trovando insopportabile l’idea di staccarsi da quel bacio, fosse anche solo per liberarlo da quell’unico indumento che ancora lo separava da lui.
    «Castor» Max mugolò nel riprendere respiro, tornando ad aprire gli occhi, lucidi di piacere.
    L’altro non gli permise di aggiungere altro e strattonò l’indumento fino a quando non riuscì a sfilarlo del tutto, lanciandolo da qualche parte alle spalle e salendogli a cavalcioni, curvandosi in avanti per approfondire ulteriormente il contatto tra le loro lingue.
    Riprendendo fiato, Castor leccò della saliva che era colata sulla guancia di Max.
    Vedendolo tanto accaldato, aperto e pronto per lui – con quell’espressione di vacuo desiderio e perso nei suoi occhi –, Castor lo abbracciò di slancio, affondandogli le mani nei capelli e il viso nell’incavo della spalla.
    «Finalmente».
    Suo.
    Ancora.
 
 
Ahehm, hi dears!
Ora, sorvolando sull’immane ritardo  per l’uscita di questo capitolo e farò del mio meglio con il prossimo… vorrei dire che-
 
Va bene, lo ammetto, mentre sto scrivendo queste righe, sto anche guardando un episodio di The Mentalist e mi sono appena distratta, dimenticando irrimediabilmente cosa avessi voluto dire con la frase precedente.
Che idiota vero?
 
Non so esattamente cosa volessi dire. Forse una qualche sviolinata sul fare meglio per il capitolo successivo, oppure che il rating è arancio e non rosso e quindi temo che non ci sarà un seguito dettagliato su quanto appena interrotto qualche riga sopra. O magari era per comunicare che ho intenzione di rivedere e correggere la storia che ho scritto un paio di anni fa (guarda caso, proprio quella citata, il cui protagonista è Yuri Stasov).
 
Non ricordo con sicurezza.
Chiedo perdono.
 
Perciò ora… chiudo qui. Buona serata cari e care XD
 
 
baci
NLH
  
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