Libri > Il Labirinto - The Maze Runner
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Autore: Stillintoyou    06/02/2015    10 recensioni
[Il Labirinto/The Maze Runner][Il Labirinto/The Maze Runner]Passò un sacco di tempo prima che quel dannato rumore smettesse di darmi il tormento.
‹‹ E ora? ›› pensai, poi alzai lo sguardo quando sentii che qualcosa, sopra di lei, si stava muovendo.
Della luce entrò all'interno di quella sottospecie di stanza, o cella, o quello che era.
Socchiusi gli occhi per l'improvviso impatto con la luce esterna, e qualcuno balzò a pochi centimetri da me.
‹‹ cosa c'è nella scatola? Un fagiolino nuovo, vero? ›› disse qualcuno dall'esterno.
Mi sentivo come se fossi imbavagliata, squadrando il ragazzo che si era inginocchiato per guardarmi in faccia.
‹‹ Oh caspio... ›› inclinò la testa, assumendo un espressione stranita. Si mise in piedi
‹‹ Newt? ››
‹‹ Non ci crederete mai... ›› alzò il volto, rivolgendosi alle persone che si erano raggruppati attorno all'uscita di quella... scatola, a quanto pare la chiamavano così.
‹‹ A cosa non crederemo mai? ››
‹‹ È.... una ragazza ›› il ragazzo abbassò nuovamente lo sguardo su di me ‹‹ Ci hanno mandato una ragazza. ››
Genere: Avventura, Fluff, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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«Vorrei ancora prenderti a pugni per ciò che hai fatto ieri, sappilo», sussurrai a Newt mentre lavavo le pentole utilizzate per preparare il pranzo.
Era accanto a me, poggiato al ripiano della cucina visto che Alby gli aveva esplicitamente detto di non azzardarsi a fare neanche il minimo sforzo finché quel taglio non fosse guarito almeno un pochino. Era annoiato, per cui mi seguiva come un cagnolino bisognoso di attenzioni.
«È la dimostrazione d'affetto più sincera che abbia mai sentito in vita mia», disse ridacchiando, mentre si rigirava tra le mani un coltellino svizzero trovato chissà dove.
«Sono seria!» Acchiappai la spugna metallica e cominciai a raschiare il fondo della pentola, «mi hai fatta preoccupare parecchio! Sto metabolizzando la cosa solo ora, caspio!». Ed era vero.
Era come se la consapevolezza delle cose mi fosse caduta addosso di botto. Avevo gli occhi lucidi e mi veniva da piangere.
Sin dal mio risveglio era stato così... a parte il grosso imbarazzo per essermi svegliata con lui accoccolato a me. Mi ero addormentata nel letto con lui anche se mi ero ripromessa di non farlo per lasciarlo comodo, ma sembrava comodissimo anche in quel modo.
Era stata una bella sensazione svegliarsi con la sua testa poggiata sulla spalla, sembrava dormire così tranquillo che mi attaccava il sonno solo a guardarlo.
Scossi la testa per scacciare via quel ricordo e tornare a concentrarmi sulla pentola, mentre con una mano mi sfregai il polso contro gli occhi, sentendo la guancia umida. Stavo lacrimando e non me n'ero accorta... sperai che non se ne accorgesse nemmeno lui, tanto era concentrato a giocare col coltellino.
«Poteva andare diversamente. Poteva scattare più avanti quella caspio di lama. E se ti avesse colpito più a fondo? E se la lama ti avesse tagliato la gola?!» Mi scappò la pentola dalle mani, producendo un rumore che fece girare gli altri tre ragazzi nella stanza. «Dannata pentola!», sbuffai.
Mi stavo alterando per via della preoccupazione. Era come un post-trauma, il senso di colpa cresceva velocemente dentro di me.
«Avanti, Liz, non è successo nulla di tutto questo!»
«Sì, ma se fosse successo? Non me lo sarei mai perdonata.»
«Ed io non mi sarei perdonato se ti fosse successo qualcosa, mettiamola così. Ora smettila, caspio», sbuffò.
Poggiai le mani ai lati del lavello e chiusi gli occhi, abbassando la testa. I capelli volarono in avanti, cominciai a tremare lievemente. Avevo di nuovo quella sensazione di essere prigioniera del mio corpo e cominciai ad odiarla. Lacrimavo di più di prima, ma non producevo nessun rumore, nessun singhiozzo. Tremavo al sol pensiero che quella lama sarebbe potuta affondare di più ed io non avrei potuto fare nulla, solo assistere alla scena, senza nemmeno gridare perché mi sarebbe mancata la parola. Era come se fossi rinchiusa all'intero di una scatola trasparente, con l'acqua alla gola che lentamente saliva fino al naso ed io stessi affogando, ma non avessi le forze per cercare di salvarmi.
«Ehi...» sobbalzai sentendo la sua mano sulla spalla. Girai il volto dall'altra parte, non volevo che mi guardasse e non volevo dare uno show davanti agli altri.
«Sto bene», dissi in seguito ad un sospiro, riprendendo a lavare quella pentola.
Ma stavo bene sul serio?
La preoccupazione era troppa, la cosa positiva era che avevo recuperato il controllo del mio corpo.
Il mio stomaco si strinse in sé stesso e si rivoltò, la nausea si fece forte di colpo.
Non capii se si trattasse di quella sensazione chiamata “farfalle nello stomaco” o di quella chiamata “indigestione da sbobba di Frypan”. Ma era da quella mattina che provavo quella sensazione allo stomaco. Era stata una mattinata strana, a dire la verità.
Il Labirinto si era aperto quella mattina, i Velocisti avevano aspettato più di un ora prima di entrare, temendo che potesse chiudersi. Solo due di loro erano andati, tanto per fare una prova di esplorazione, ma dopo quattro ore senza che le Porte del Labirinto si fossero chiuse erano entrati anche gli altri.
I corpi dei Dolenti erano spariti, come se fossero stati divorati dal terreno, l'unica cosa che era rimasta di loro era la pozza, ormai nera e nauseante alla sola vista, e l'odore fetido emanato da questa.
E a me rimaneva ancora la pessima sensazione di quello che sarebbe potuto succedere se la lama avesse colpito Newt più a fondo.
Non mi preoccupavo di ciò che sarebbe potuto succedere a me, ma di quello che sarebbe potuto succedere a lui. Ormai le cose andavano così... o, probabilmente, era sempre stato così.
Finii di pulire la pentola e la sistemai nel ripiano superiore, mi asciugai le mani e decisi di uscire dalla Cucina lasciando il resto del lavoro agli altri. Infondo non potevo sempre lavare tutto io.
Mi guardai alle spalle, notando che Newt non mi stava seguendo.
Magari era rimasto in cucina ad aiutare gli altri o a fare ciò che non stavo facendo io così da occupare il tempo e la sua noia.
Decisi di fare un giro per la Radura, evitando accuratamente il punto dove si trovava quella pozza schifosa. La Radura in fondo era così bella, immersa nella natura, piena di verde.
Certo, a parte quelle Mura enormi che la circondavano, ma era davvero bella.
Si stava bene tutto sommato e, c'era da ammetterlo, alla fine si viveva in modo abbastanza sano, con tutto il necessario. L'unica cosa che ci mancava era la libertà di andarcene.
Sentii un brusio tra le foglie, poi vidi una piccola lucetta.
Abbassai lo sguardo. Una piccola creaturina metallica era ferma davanti a me.
Quella era... una scacertola?
Mi chinai sulle ginocchia e la osservai. Non scappava, eppure, a quanto avevo capito, non si lasciavano avvicinare così facilmente.
«Ehi... ciao piccolina...» corrugai la fronte, sentendo una sorta di risposta da parte sua. Era più che altro un rumore come se stesse zoomando o qualcosa del genere.
Allungai la mano e toccai la superficie fredda e metallica che ricopriva quella sorta di creatura, che poco dopo fuggì velocemente.
Corrugai la fronte ed inclinai la testa, seguendola con lo sguardo. Non potevo negare di essere stupita di quel comportamento, ma non potevo farci nulla. Avrei voluto seguirla per vedere dove andava, dove fuggiva in quel modo frettoloso.
Si sentì una ventata di quella puzza insopportabile della pozza lasciata dai Dolenti, ma era solo qualcosa di simile. Doveva esserlo, visto che quella pozza si trovava dall'altra parte della Radura rispetto a me. Mi venne su un conato di vomito che mi fece piegare in due, tirai indietro i capelli e spalancai la bocca. Sentii l'amaro in bocca, la mia salivazione aumentò di botto.
E riecco il rumore dello zoom, ma la scacertola non sembrava essere nei paraggi... che ce ne fosse un altra nelle vicinanze e mi stesse osservando? Certo che aveva un tempismo davvero schifoso se era così.
Un altro conato più forte. Sembrò prendermi per la gola e strozzarmi con una stretta fortissima.
Lo stomaco si strinse in sé e i miei polmoni cominciarono a bruciare.
Un altro conato, poi un altro ancora e alla fine vomitai.
Non vomitai cibo o qualcosa di simile. No. Era una sostanza nera e appiccicosa. Sembrava petrolio da quanto era nero. C'erano tracce rosse simili al sangue, ma ero abbastanza sicura che non lo fosse. Non poteva essere sangue, ma mi allarmai comunque. Ciò che stavo vomitando sembrava tutto meno che normale.
Conati su conati che non mi davano nemmeno il tempo di respirare. Mi ritrovai in breve tempo con le mani contro il suolo, ai lati di quella disgustosa pozza nera che lentamente si espandeva.
I capelli volarono in avanti, sentivo che sarei potuta svenire da un momento all'altro. Il mio stomaco si stringeva ad ogni conato. Dovevo essere sporchissima, ma non riuscivo a smettere.
I Radurai non si accorsero nemmeno di ciò che mi stava succedendo, il ché era normale dato che alla fine non ero in un posto molto “trafficato” da loro: in quella zona ne passava uno ogni tanto, la zona di lavoro era più concentrata sul centro della Radura che sulle zone un po' più periferiche.
«Liz!» Sentii delle braccia tirarmi su e trascinarmi via.
Era come se non fossi lì, come se non fossi presente nel mio corpo. La mia vista era offuscata, non avevo nemmeno la forza di muovere un solo arto.
Sapevo che era Newt a portarmi via, ma non sapevo se qualcuno gli stesse dando una mano o meno.
Sperai di sì, perché il mio peso doveva essere pari a quello di un corpo morto in quel momento e non volevo che lui facesse tanti sforzi con quella ferita ancora aperta.
Vedevo a stento delle ombre, le luci del cielo mi abbagliavano. Era tutto confuso.
Persi i sensi.

Mi risvegliai nel Casolare. Aprii gli occhi. Era ancora tutto confuso, ma sapevo di trovarmi lì dentro. Le voci erano come un eco, ogni parola si ripeteva all'infinito. Vedevo delle ombre confuse, mi veniva di nuovo da vomitare. La mia testa girava velocemente.
Finalmente cominciai a vedere delle sagome indistinte ma... non quanti erano. I miei pensieri erano confusi, non capivo nulla. Nulla!
Sentivo un sapore acido in bocca, sporca, appiccicosa. La mia lingua era praticamente incollata al palato.
«Lasciatela respirare!», gridò qualcuno alle mie spalle. Ero sicura che fosse la voce di uno dei Medicali. Se avessi avuto la forza di alzare un pugno, probabilmente l'avrei picchiato.
La mia testa era pesante, la sua voce rimbalzava come una pallina, sopratutto per aver gridato. Ora avevo un grosso mal di testa.
Diedi un colpo di tosse, sentii il mio stomaco stringersi di botto a causa di questo. Bruciava da impazzire, mi sembrava di aver mangiato dei sassi incandescenti.
Dannazione, quanto stavo soffrendo in quel momento! Mi sembrava di avere un fuoco vivo in gola.
Volevo parlare ma non ce la facevo, a stento riuscivo a respirare, figuriamoci a mettere due parole in croce.
Sentivo dolori ovunque, non vedevo nemmeno bene. Respirare era faticosissimo, ad ogni respiro mi sembrava di stare nel fuoco, ma oltretutto mi pareva di emettere gorgoglii nasali abbastanza rumorosi ma che sicuramente sentivo solo io. Era tutto nella mia testa.
Per non parlare della testa, o meglio, degli occhi. A furia di sforzare la vista nel tentativo di mettere a fuoco le figure mi facevano così male che sembrava che stessero cercando di strapparmeli via dal cranio con delle pinzette.
Infatti, alla fine, chiusi gli occhi, decidendo che non valeva la pena sforzarsi ulteriormente.
In ogni caso, sapevo che attorno a me c'era gente abbastanza affidabile, anche se non avevo ben capito chi ci fosse.
Prima o poi avrei capito quanti erano e chi fossero, ma fino ad allora decisi che tenere gli occhi chiusi fosse la scelta migliore.
«Che cos'ha? È molto grave?», quel vocino flebile era di Chuck, era preoccupato e il suo tono di voce lo dimostrava. Sentii una mano sul mio braccio e diedi per scontato che fosse la sua, essendo piuttosto piccina. Nonostante il tocco fosse leggero, mi diede fastidio. Non perché mi stessero toccando, ma perché in un certo senso mi fece male anche quello, ma non mi lamentai. Non volevo che ci rimanesse male.
«Non lo so. Non so nemmeno se è qualcosa di contagioso, visto che ciò che ha vomitato era tutto meno che cibo, questo è sicuro. Era questo il motivo per cui vi ho detto di stare fuori, ma visto che non mi avete voluto ascoltare, beh, tanto peggio per voi!», disse il Medicale dietro di me.
«Non rimarrò mai lì fuori ad aspettare il suo risveglio, caspio», brontolò Newt
«Ripeto, tanto peggio per voi!»
La testa mi esplodeva in una maniera spropositata, ogni parola era come un eco che si ripeteva per mille volte ad un volume più alto del normale. Decisi di sforzarmi di parlare, ma la mia lingua non solo pareva essere incollata al palato, ma era sembrava essere fatta di pietra. Mi sforzai di più. Cominciai a temere di sudare per la fatica che stavo facendo.
«P-Parl...ate p..p-piano», dissi debolmente, prendendo un respiro profondo poco dopo. Mi sembrava di aver detto la frase più lunga del mondo, ed invece erano due parole dette anche troppo male.
Sollevai a fatica un braccio e lo poggiai sugli occhi. Bruciavano come l'inferno, ora sembrava che stessero cercando di tagliarmeli via con un taglierino arrugginito.
Era un dolore continuo, per non parlare del braccio che una volta poggiato sul volto cominciò a formicolare.
«Eh?» Il Medicale si sporse in avanti, ero quasi cerca che si fosse chinato a due centimetri dalla mia faccia. Ne sentivo la puzza di sudore. Mi domandai se si fosse mai lavato in vita sua.
«Ha detto di parlare piano», ripeté al posto mio Newt.
In quel momento avrei voluto fargli una statua per avermi risparmiato la fatica di dover ripetere quelle parole.
«Non ha una bella cera, comunque», questa voce era... di Justin. Aveva una voce così profonda e fredda che non poteva che appartenere a lui. «Sembra morta da quindici giorni.»
«Beh, angelo della morte, hai deciso di fare l'uccellaccio del malaugurio?», ribatté Chuck e Justin, in tutta risposta, schioccò la lingua.
«Sono preoccupato tanto quanto te, pive!»
«Wow, hai un modo tutto tuo di dimostrare la tua preoccupazione!» Stava alzando la voce. Chuck già di suo aveva un tono particolarmente acuto per via della sua età, se cominciava a strillare non ero abbastanza sicura di avere la mente pronta ad accogliere un eco così stridulo.
«Basta litigare voi due», questo era Alby, ne ero certa. «Jeff, fai in modo che si riprenda presto del tutto. E non far entrare nessuno di quei dannati Pive a meno che non sia uno di quelli presenti in questa stanza. Oh, Minho. Minho può entrare.»
«Agli ordini, capo.»
Chuck fece scorrere la mano verso la mia. Aprii il palmo e lui sussultò, passandovi delicatamente l'indice. «Perché ha la mano insanguinata? Anche l'altra è così?!», disse velocemente e con un tono tremante.
Jeff sospirò, «Sì, lo è anche l'altra. Abbiamo dovuto aprirle le mani a forza. Quando è arrivata stringeva i pugni così forte da conficcarsi le unghie nella carne viva. Vi assicuro che questa ragazza ha una forza allucinante nelle mani, eravamo in due per aprirle i pugni. Non demordeva! Nessuno ha notato i graffi che ho sulle braccia?! Non solo non voleva che le aprissimo i pugni, ma dopo averlo fatto ha cominciato a graffiarmi come per ripicca!».
«Gridava come una pazza da quanto si stava facendo male», mormorò Newt, il suo tono di voce era pensieroso, «spero non lo faccia più».
«Se ci prova, beh, farò in modo di fermarla. Non era una bella scena vederla conficcarsi le unghie nella carne.»
«Wow, ha la scorta, scommetto che se fosse successo a George tutto questo non l'avreste mai fatto», brontolò Justin.
«Ti sbagli, anche George ha avuto il suo momento di gloria qui dentro», ribatté Jeff.
E riecco il brusio, ma all'improvviso non lo sentii così vicino. Era un eco unico, ma si faceva lontano e mi sentii cadere nel baratro. Era come se il mio corpo all'improvviso fosse avvolto dalle tenebre e avesse cominciato a fluttuare nel vuoto. La mia mente cadde nell’oblio.
Poi più nulla. Ero presente, cosciente, ma non sentivo assolutamente nulla.
Vidi una luce bianca improvvisa, fortissima ed abbagliante.
Il rumore di un macchinario che fischiava, simile a quegli apparecchi che facevano sentire i battiti cardiaci. Ma non era uno di quegli apparecchi, bensì una sorta di sveglia.
Aprii gli occhi e fui accecata da una luce bianca fortissima.
«Oh, finalmente ti sei svegliata!», disse una ragazza bionda accanto a me.
La guardai e sorrisi, annuendo. «Sì, ho dormito molto?», domandai con la voce impastata.
Sapevo di conoscerla, ma non sapevo il suo nome. Anzi, non avevo la benché minima idea di chi fosse.
Il suo volto era roseo, doveva avere una trentina d'anni, ma li portava veramente bene. Aveva una lunga treccia di capelli biondi che le ricadeva sulla spalla e due occhi azzurri veramente intensi. Un sorriso cordiale le dipingeva il volto. In mano teneva una cartellina su cui stava scrivendo delle cose con una penna bic blu. Mi osservava mentre dormivo? Perché?
«Hai dormito per quasi cinque ore, neanche troppo quindi, ma ti assicuro che era un sonno davvero profondo!» Sorrise di nuovo.
Feci le spallucce e mi strofinai una mano contro il viso. «È normale, ero distrutta. Ci hanno fatto fare dei test davvero pesanti oggi e mi hanno tenuta ferma diverse ore in più per finire di disegnare il progetto D2MH. Abbiamo anche dovuto studiare un titolo, all'inizio volevano modificarlo in D2RH, e la R stava per ragno. Sai, per le zampe, ma poi abbiamo optato per M. Metallo.» Sospirai, «Mi hanno costretta a disegnare un essere come quello. Mi hanno forzata a stare alzata tutta la notte a lavorare su una cosa che non volevo fare, a lavorare ad un progetto che non dovrebbe nemmeno esistere. Mi domando a cosa servirà tutto questo».
Quella donna assunse un espressione di compatimento. Sapevo che anche lei infondo si poneva le stesse domande e mi capiva. Sapevo che di lei potevo fidarmi, ma aveva un obbiettivo in testa e lo rispettava ciecamente, anche se andava contro la sua morale.
«Sai bene che dobbiamo farlo per un bene più grande. Sono sicura che le generazioni future riconosceranno i nostri sacrifici.»
«Ma noi, nel mentre, cosa faremo? Dovremo continuare queste esperimenti in eterno? Non mi piace doverlo fare...»
Quella donna chiuse gli occhi. «Siamo noi i sacrifici.» Scrisse sulla cartella, poi la poggiò sulla scrivania dietro di sé, «Tutti dobbiamo svolgere il nostro compito, lo sai».
Mi guardai attorno. La stanza era piena di schermi e computer di altissima tecnologia. Sapevo dov'ero, ma non sapevo dare né una collocazione precisa né un nome a quel posto. Sapevo di essere al sicuro, ma al sicuro da cosa? C'era qualcosa che non andava nel mondo e ne ero certa, ma non sapevo di cosa si trattasse.
Un bene più grande.... più grande di cosa? Per chi, sopratutto?
Mi guardai i vestiti. Indossavo un camice bianco e ora che mi guardavo meglio le mani potevo vedere dei segni grigi dovuti all'uso eccessivo della matita.
Sapevo di aver passato la notte a lavorare su un progetto, a disegnarlo nei minimi particolari, Sapevo di conoscerlo a memoria in ogni suo dettaglio, eppure non ricordavo di cosa si trattasse.
«Quindi il progetto D2MH è terminato?», domandò la donna.
«Sì, ora il primo è in fase di produzione, poi quando si rivelerà necessario lo metteranno in funzione. Il primo sarà il più grande di tutti, gli altri saranno più piccoli... ma non saranno così tanti come i primi che abbiamo creato, saranno molto di meno. Loro sono speciali, più forti e più aggressivi», dissi.
Nello sguardo della donna c'era del fascino verso ciò che le avevo descritto, nel mio tono solo tristezza e amarezza. Sapevo di aver creato qualcosa di orribile e non ne ero per niente contenta, anzi, mi facevo disgusto da sola. Odiavo ciò che volevano che diventassi, ma lo facevo solo perché ero costretta. Sapevo che se non lo avessi fatto sarei stata in pericolo e avrei messo a rischio anche altre persone.
Mi girai sentendo dei passi che andavano all'unisono gli uni con gli altri.
Un gruppo composto da quattro ragazzi che avevano tutti sì e no quindici anni. Due ragazzi e due ragazze. Uno dei ragazzi aveva i capelli castani, l'altro li aveva più scuri, praticamente neri, così come una delle ragazze aveva i capelli neri e l'altra castani. Sembravano essere gli opposti.
Si fermarono davanti a degli schermi, cominciarono a toccarli con fare sicuro.
Per loro provavo una sorta di ammirazione. Facevano ciò che dovevano fare senza troppe lamentele. Erano sicuri, spediti, freddi e staccati da tutto ciò che poteva distrarli dal loro compito principale.
Loro era gli addetti ai progetti “Gruppo A” e “Gruppo B”.
Conoscevo bene quei progetti, ma non ricordavo di cosa si trattassero. Avevo un vuoto di memoria assurdo.
Odiavano i loro compito ma anche loro puntavano al famigerato bene più grande.
Il ragazzo con i capelli castani era il più determinato di tutti, lui aveva ideato l'intero progetto ed aveva entusiasmato tutti con le sue ipotesi su quanti ottimi risultati avrebbe potuto dare, anche se ci sarebbe voluto un po' di tempo prima di raggiungerli.
La ragazza con i capelli neri che stava direttamente a fianco a lui lo seguiva a ruota.
Ammiravo particolarmente questi due individui per quanto si impegnavano senza mai perdere di vista il loro obbiettivo principale, nonostante la loro età.
Anche gli altri due erano super concentrati, loro avevano pensato alla progettazione del Gruppo B con gli stessi criteri, ma in un modo differente. Sapevo che c'erano delle piccole differenze.
La ragazza con i capelli neri la conoscevo abbastanza bene, sapevo di potermi fidare di lei e sapevo di esserci affezionata, ma non ricordavo quale fosse il nostro legame di preciso.
«No! No! Vi prego, lasciatemi stare! Non voglio farlo, vi supplico, lasciatemi andare! Farò tutto ciò che volete! Farò qualsiasi cosa ma vi prego, non fatemi andare lì!», delle grida sovrastarono l'intera stanza. Il gruppo di ragazzi sembrò non farci caso, tranne che per la ragazza con i capelli castani, che si sporse leggermente per controllare la fonte del suono.
Due uomini con un camice bianco ed una maschera che ricopriva loro l'intero volto trascinavano un ragazzo giovane verso una porta non troppo distante da dove mi trovavo io.
Provai a leggere la scritta in led rossa che si trovava sopra la porta, ma non ci riuscii.
L'unica cosa che riuscii a leggere fu una targa direttamente accanto alla scritta.
“Catastrofe Attiva Totalmente: Test Indicizzato Violenza Ospiti”.
«Vi prego, vi scongiuro, non fatemi andare! Vi giuro che farò tutto ciò che volete! Qualsiasi cosa! Qualsiasi!»
«Qualsiasi cosa, eh?»
«Sì! Qualsiasi! Ma vi scongiuro non mandatemi lì! Vi prego!»
«Allora chiudi quella cazzo di bocca ed entra lì dentro!», disse uno di loro, premendo un tasto e facendo aprire la grossa porta davanti a loro. Una volta aperta, l'unica cosa che si vedeva era una seconda porta che si aprì proprio dopo la prima. C’erano due grosse grate e c’era un cancello di chiusura di sicurezza.
La ragazza bionda che stava davanti a me scattò in piedi e si posizionò davanti alle grate, poggiando la mano sul petto del ragazzo ed impedendo ai due uomini di buttarlo lì dentro.
Avevo visto quella scena milioni e milioni di volte e ogni volta mi illudevo che magari avrebbe impedito loro di mandare quel ragazzo incontro al suo destino.
«Fermi! Non potete mandarlo senza dargli il Filtro!», disse, frugandosi nelle tasche e passando loro una fiala con un liquido trasparente.
«Ah, giusto! Quasi dimenticavo!», disse uno di quegli uomini ridendo e stappando la fiala.
Il ragazzo cominciò a dimenarsi in modo brusco, così la donna con i capelli biondi si spostò per evitare di essere colpita da possibili gesti di ribellione quali pugni e calci.
Il ragazzo gridava così forte che pensai che da un momento all'altro mi si sarebbero spaccati i timpani a causa sua.
«Smettila! Gridare non ti servirà a niente! Ti farà solo andare il filtro di traverso!»
«Lasciatemi stare!» E gridò ancora, ancora e ancora, ma non perché si stesse ribellando, bensì perché uno di quegli uomini lo stava colpendo dei calci alle gambe, tenendogli la testa ferma e rivolta verso l'altro, gli spalancandogli la bocca con una forza allucinante per tenergliela aperta. Gettarono il Filtro all'interno della sua gola di botto, fregandosene che gli potesse andare di traverso. D'altronde l'avevano avvertito.
Il ragazzo si piegò su sé stesso, tossì fortissimo più volte e si tenne lo stomaco con la mano.
Fece per vomitare, ma non rigettò niente.
Alla fine lo tirarono su di peso, la donna bionda aprì il cancello e le grate, poi buttarono dentro il ragazzo e richiusero tutto, tranne che le due porte.
«No! No! Fatemi uscire di qui! Vi prego, fatemi uscire di qui!» Cominciò a sbattere i pugni contro le grate, cercò di forzarle mentre gridava. Gridava con una forza che non sapevo che un uomo potesse avere. Sopratutto a quell'età.
Gli uomini rimasero lì immobili e in silenzio. Sbuffarono infastiditi da tanto rumore, ma cosa potevano aspettarsi? Era un ragazzino costretto ad affrontare un viaggio, una missione come quella che nemmeno loro volevano affrontare.
Era costretto a diventare qualcuno senza la sua volontà solo per un bene più grande.
Il ragazzo sembrò calmarsi, allora si poggiò con le mani alle grate. «Rachel», sussurrò, affacciandosi dalle grate. «Ra...chel», disse di nuovo, la sua voce si fece più debole.
La ragazza del gruppo, quella con i capelli castani, si sporse di più, seguita dal ragazzo con i capelli neri che le cinse le spalle.
Lei stava piangendo, singhiozzava silenziosamente e guardava il ragazzo dietro le grate.
«Ra...chel aiut-ami. Ti prego non f-f-farmi an-d-dare lì...»
«Non posso.... George, non posso...», rispose la ragazza, che continuava a piangere.
«T-ti prego fa qualc-cosa... aiut-tami...» Anche quel ragazzo cominciò a piangere, l'ultima parola la disse tra un singhiozzo e l'altro.
«Vorrei, ma non posso... non posso... andrà tutto bene, te lo prometto», disse lei con un filo di voce.
Alla fine quel ragazzo crollò e cadde nel sonno dovuto al Filtro. Presto si sarebbe risvegliato, ma sapevo che da quel momento in poi per lui sarebbe stato tutto diverso. Ogni singola cosa.
Il ragazzo con i capelli scuri accanto alla ragazza, Rachel, le accarezzò le spalle, lasciandole un bacio sulla fronte. «Andrà tutto bene, lo sai, tuo fratello starà bene.»
«Lo spero Aris, sul serio», rispose lei, fissando il ragazzo mentre i due uomini con la camicia premettero il pulsante per far chiudere le porte.
La ragazza con i capelli neri guardò il ragazzo accanto a lei. Avevano entrambi un espressione cupa, l'assumevano ogni volta che qualcuno varcava quella soglia. Sembrava che comunicassero con lo sguardo, perché le parole non bastavano a commentare ciò che succedeva lì dentro.
I ragazzi ed i bambini di qualsiasi età erano costretti a diventare adulti una volta entrati in un posto del genere. Erano costretti a diventare indipendenti, lavorare come non mai per un bene più grande. Ed io in prima persona avevo vissuto quel cambiamento.
Non era qualcosa che si poteva scegliere. Era così e basta, che ti andasse bene o meno.
Rachel tornò fredda e seria in poco tempo, tornando alla sua postazione di lavoro. Era in quello che ci si trasformava. In una macchina da lavoro, non ci si poteva far condizionare nemmeno dalla perdita di una persona.
Sapeva che suo fratello era vivo, ma non sapeva se l'avrebbe mai più rivisto, e forse era quella la cosa peggiore. La consapevolezza di non sapere niente.
La donna bionda sospirò e prese la sedia sulla quale era seduta al mio risveglio, l'avvicinò di più al mio lettino e sospirò di nuovo, sistemandosi meglio la treccia sulla spalla. «Che palle questi ragazzini quando gridano in questo modo patetico prima di entrare lì dentro.» Schioccò la lingua, «Nemmeno quella Bethany ha gridato così tanto!».
«Vorrai dire Beth», la corressi. «E gridò anche peggio. Ma c'è da aspettarselo, sono solo ragazzini e non sono pronti ad affrontare questo. Nessuno lo sarebbe», mormorai, guardando Rachel. Ero dispiaciuta per lei e lo erano anche gli altri tre ragazzi del gruppo, che si strinsero attorno a lei per cercare di tirarla su di morale. Sapevano bene anche loro che nonostante la sua facciata da persona fredda, dentro ci stava malissimo.
«Beh, Elizabeth, prima o poi sarebbe successo e lui lo sapeva.»
Chiusi gli occhi, «Devo ancora abituarmi al mio nuovo nome».
«Lo sai, dei nomi speciali...»
«... per ragazzi speciali», conclusi la frase prima di lei. Sapevo quella cantilena a memoria.
La ragazza con i capelli neri si girò a guardarmi, mi sorrise come per rassicurare anche me. Probabilmente aveva sentito il nostro discorso. Cercai di ricambiare il sorriso nel modo più sincero che riuscii a fare. Sperai di non sembrare troppo falsa.
Poi sentii un fremito lungo tutto il corpo. Le mie mani si strinsero a pugno, la mia gola tornò ad essere in fiamme.
Il buio. Tutto tacque di nuovo.
Caddi nuovamente nel baratro.
Cosa stava succedendo adesso?
«Liz?» C'era solo una persona che mi chiamava in quel modo. «Liz?! Ti prego, svegliati, Liz!» La sua voce rimbombò nella mia testa peggio di un eco, molto più forte, ma attorno a me c'erano le tenebre più assolute.
Poi riecco quella luce bianca che spazzò via le tenebre.
Fu come emergere dall'acqua dopo aver toccato il fondale marino più profondo, presi un respiro profondissimo e spalancai gli occhi.
Il volto di Newt era a pochi centimetri dal mio, i suoi occhi erano sgranati ed il suo volto era pallidissimo. «Porco caspio, grazie al cielo!» disse gettando la testa all'indietro.
«Che... che è successo?», dissi, riuscendo finalmente a parlare senza sembrare una cretina totale con la lingua imbalsamata.
Newt assunse un colorito più normale, prese un grosso respiro e mi guardò.
Notai che le mie mani erano ferme e strette attorno alle sue, le stringevo in modo veramente forte e temetti per un attimo di aver conficcato le unghie nella sua carne proprio come avevo fatto nella mia.
«Eri praticamente svenuta un altra volta. Pensavo che fossi in coma... muovevi gli occhi da una parte all'altra, all'improvviso hai cominciato a piangere, poi il tuo corpo ha cominciato a fremere e stringevi le mani così forte da farti uscire di nuovo il sangue. Chuck è fuggito dalla stanza, era troppo spaventato. Penso che si sia sploffato nei pantaloni... Alby e Jeff sono corsi a cercare altri Medicali quando hanno visto che avevi perso i sensi, sono andati a cercare anche del cibo liquido in caso avessero dovuto nutrirti se... sai... non ti fossi svegliata subito. Non sanno della tua strana crisi, ma penso che a breve arriveranno, visto che Chuck sicuramente è andato a cercarli.» Fece un sospiro di sollievo, «Per un attimo devo ammettere di aver temuto il peggio». Spostò le mani e le poggiò sulle mie guance, asciugandomele.
Mi tirai su a sedere e mi guardai attorno. In stanza c'eravamo solo io, Newt e Justin, poggiato alla parete proprio dietro Newt.
Pensai a ciò che avevo appena sognato... non era un sogno, ne ero sicura. Non poteva esserlo, era troppo nitido, sapevo cosa sarebbe successo, sembrava più un déjà vu. Che si trattasse di un ricordo?
Corrugai la fronte e mi guardai le mani inzuppate di sangue fino al polso. Mi facevano impressione, ma quella era sovrastata dai diversi sensi di colpa e dalle altre sensazioni che mi aveva causato ricordare quelle cose.
George... avevo rivisto George... e sua sorella, quella Rachel. Avevo pianto, stavo piangendo per George. Provai una morsa al cuore al ricordo di come gridava.
Perché avevo visto quelle scene? Chi ero stata prima di finire nella Radura?
«Credo di aver ricordato qualcosa del mio passato», dissi tutto d'un fiato. Di colpo Justin mi guardò confuso.
«Cosa intendi dire?», domandò Newt
«Ho... ricordato qualcosa, ma... sto già dimenticando tutto...» Ed era vero. Tutto ciò che avevo ricordato stava già sparendo ad una velocità incredibile.
«Oh, ma andiamo!», sbottò Justin con un tono scettico, «Sei sicura che fosse un ricordo?».
«Più che altro una sorta di fantasma di esso, non era un sogno, ne sono certa...»
«E non hai nemmeno subito la mutazione... però le reazioni sono simili...»
«Ho visto George che veniva spinto dentro qualcosa, una ragazza piangeva e ricordo una cosa. Un... progetto credo, si chiamava D2MH o qualcosa di simile... non so cosa fosse.» Corrugai la fronte, «E la scritta “Catastrofe Attiva Totalmente: Test Indicizzato Violenza Ospiti», la ripetei come se fosse stata una filastrocca che conoscevo a memoria.
Justin si fermò a guardarmi come se avessi detto una parola magica, ma poi assunse un espressione strana.
Newt corrugò la fronte e mi guardò basito, «Hai detto D2MH?».
«Sì, perché?»
«Io conosco quella sorta di formula», mugugnò Justin, e Newt annuì
«Anche io... non mi è nuova per niente, ed in un certo senso la cosa non mi è di consolazione», mormorò. La cosa non era di consolazione nemmeno a me.
Perché conoscevamo tutti e tre quel D2MH? Cosa significava? Perché ricordavo quelle cose? Perché avevo attraversato quella situazione? La testa mi scoppiava talmente avevo tante domande e nessuna risposta.
Era come se fossi tornata al primo giorno nella Radura. Mi sentivo la testa pulsare, le domande aumentavano ed io non le controllavo nemmeno. Una dietro l'altra, non seguivo più il filo dei miei pensieri.
Poggiai le mani sulle tempie, cominciando a premerle. Non mi interessava niente, volevo solo che le domande smettessero di accavallarsi. Erano così tante ed apparivano così velocemente che non sentivo nemmeno i rumori esterni.
«Falle smettere!», gridai, il tono della mia voce era sorprendentemente sovrastato dal flusso delle mie domande. Non sentii nemmeno ciò che dissi, come lo dissi e se lo dissi.
«Liz sposta le mani! Ti farai male così!», gridò Newt. La sua voce si fece strada tra i miei pensieri, ma non ero io a controllare le mie mani. Non riuscivo a spostarle e premevo sempre più forte.
Avrei voluto che qualcuno mi aprisse il cranio per farle uscire, liberare la testa dai miei pensieri.
Come se non bastasse cominciai a ricordare i Dolenti. Le lame. Quelle dannate lame. Si accavallarono immagini di Newt che perdeva la vita a causa mia. Colpa mia. Era tutta colpa mia. I sensi di colpa.
Cominciai a piangere, singhiozzavo. I singhiozzi si strozzavano in gola, tossivo per respirare.
Sentivo Newt che mi parlava, ma non capivo una sola parola di ciò che mi diceva.
Le sue parole erano come un meccanismo di accensione che faceva ripartire le immagini, tutte in un modo differente. Immagini, pensieri, domande.
E Chuck? Cosa sarebbe successo se Chuck ci avesse seguito? Chuck non avrebbe mai retto il nostro ritmo di corsa, a stento lo reggevo io. Sarebbe sicuramente inciampato, un Dolente gli sarebbe piombato addosso e l'avrebbe triturato a sangue freddo. Riuscii a sentire il suo grido di dolore nella mia testa, il mio grido per aver assistito alla scena e Newt che mi chiamava per tirarmi via.
Justin era corso di fuori, probabilmente era andato a cercare qualcuno.
Volevo calmarmi, ma le immagini erano troppo nitide. Domande su domande, pensieri su pensieri, immagini, probabilità. Ricordi offuscati. Altre immagini che mi apparivano davanti come se stessi assistendo ad un film horror continuo in cui io ero la protagonista principale ed ero costretta a subirne ogni singola scena.
Tenevo gli occhi chiusi nella speranza che tutto sparisse, ma invece l'oscurità era diventata il teatrino perfetto per quelle immagini, ora nitide come non mai. Volevo che quelle immagini finissero alla svelta perché non solo erano terrorizzanti, ma facevano veramente male.
Poi tutto si placò. Sparì. Non ero svenuta o niente di simile.
Aprii gli occhi, fissai il volto di Newt a pochi centimetri dal mio. Il suo respiro mi accarezzava le guance, ma non era stata la sua vicinanza a far calmare il flusso dei miei pensieri.
Guardai le mie mani, ancora premute sulla testa. Le sue mani erano sopra le mie, cercavano di spostarle.
«Ti farai male se continui a premerle così», disse con un tono dolce, rassicurante, «spostale, avanti».
E, come se avesse premuto un tasto di sblocco, smisi di premere le mani contro la testa e le feci scivolare giù lentamente.
Non si spostò nemmeno di un centimetro, i suoi occhi erano incatenati ai miei, i nostri respiri si fondevano sfiorando le guance l'uno dell'altra. Era come se ci stessimo guardando nell'anima, ed io vedevo la sua così tormentata da farmi venire voglia di abbracciarla per cercare di portargli via un po' del male che si portava dentro. La cosa bella era che anche se era tormentata cercava di sostenere la mia. Poggiai le mani sul lettino, ma lui non spostò le sue da sopra le mie. Non le accarezzò, non le prese... le tenne ferme sulle mie, come per evitare che tornassero dov'erano prima. Non voleva che mi facessi male.
«Bene così, brava Fagio», sussurrò, osservando il mio volto come se non lo vedesse da secoli.
Accennò un sorrisetto. Ero incantata. Totalmente incantata. Visto da così vicino era persino più bello del solito....
Respirai profondamente, la sua mano sulla mia mi dava ancora la sensazione di sicurezza, come se niente potesse più farmi del male.
Era strano come una sola persona potesse far provare certe cose.
C'era sempre stato per me sin dal primo momento e non mi ero mai accorta di nulla. Era diventato il mio pensiero fisso. Come potevo continuare ad ignorare ciò che provavo? Perché era così difficile accettarlo, dirlo, ammetterlo? Eppure lui alla fine era riuscito a dirlo, a svelarsi.
Era così difficile ammettere dei sentimenti? Perché lo era? Eppure eravamo sopravvissuti a dei Dolenti che ci inseguivano, dopo quello niente poteva essere più difficile, no?
Tuttavia ero terrorizzata alla sola idea di parlarne, di lasciarmi andare, di farmi travolgere dagli eventi. Sapevo benissimo che nella Radura non c'era tempo per le romanticherie, per lasciarsi andare ai sentimenti. C'era un obbiettivo comune e non poteva essere sviato per pensare ad una relazione... o comunque a qualcosa di simile.
Non sapevo come prendere quei sentimenti, come gestirli, per me era tutto così nuovo e spaventoso.
Non sapevo cosa pensare, come reagire. Ammiravo il fatto che lui, nonostante tutto, era riuscito a parlarne, avrei voluto farlo anche io, ma c'era quel qualcosa che mi bloccava.
I suoi occhi erano fermi sui miei, mi studiava ma non parlava.
Forse quel silenzio cominciava a farsi pesante anche per lui, ma sembrava non volerlo distruggere e non spostarsi.
«Grazie», sussurrai.
I suoi occhi si abbassarono lentamente verso le mie labbra, poi li rialzò incontrando di nuovo i miei.
Era come se fossero delle calamite.
«A cosa stai pensando?», domandò con un tono basso, come se non volesse interrompere quella sorta di atmosfera particolare che si era creata.
Schiusi le labbra, «A niente... a quel ricordo», mormorai cercando di apparire il più sincera possibile.
Non rispose subito, poi prese un respiro profondo e annuì, accennando un sorriso. «Sì, beh, immaginavo. Penso che tu sia confusa da tutto ciò, non è vero?» L'avevo convinto sul serio? Non ero in grado nemmeno di convincere me stessa ed ero riuscita a convincerlo così in fretta?
«Già», bofonchiai. Forse era normale il fatto che fossi riuscita a convincerlo facilmente, dato il corso degli eventi.
Già da quella mattina le cose erano partite in modo abbastanza insolito, più passavano le ore e più la situazione diventava strana. Forse il fatto che stessi ancora rimuginando sul ricordo era abbastanza normale e credibile.
Si spostò, allontanò il viso dal mio e finalmente potevo non essere più schiava dell'incantesimo dei suoi occhi, del suo respiro, del suo tocco.
Mi guardai le mani ormai libere dalle sue. I palmi erano dannatamente arrossati e le mie unghie sporche di sangue. Notai che anche le mani di Newt erano sporche del mio sangue, fatto dovuto probabilmente al mio stringere i palmi mentre non ero cosciente.
«Troveremo una risposta a questo fatto... forse.» Scosse le spalle. «Magari sei caduta in quella sorta di Mutazione per aver inalato la puzza lasciata dai Dolenti».
«Può darsi, ma non sono l'unica che l'ha sentita.»
«Magari sei più sensibile degli altri...»
«Solo perché sono una femmina non significa che sia più sensibile degli altri, Newt», brontolai, guardandomi i segni delle unghie contro le mani. Erano davvero profondi e visibili ad occhio nudo, facevano quasi impressione.
«E se invece fosse così?» Incrociò le braccia al petto.
Non avevo una risposta precisa, non potevi dargli ragione né smentirlo. Per quanto ne sapevo poteva anche avere ragione... così come poteva non averla.
Qualcuno entrò velocemente nella stanza. Jeff, Justin ed Alby assieme ad altri due Medicali, mi guardavano come se si aspettassero di trovarmi morta su quel lettino.
Nel vedere che invece ero viva e vegeta tirarono un sospiro di sollievo, così uscirono da lì, lasciandomi di nuovo sola con Newt. Pensai che fosse un gesto abbastanza irresponsabile. Potevano almeno farmi una piccola visitina per assicurarsi che stessi effettivamente bene.
Infatti, Jeff tornò indietro poco dopo. Inzuppò un panno nell'alcool e lo poggiò sul comodino. «Come ti senti?», mi chiese, prendendo una piccola torcia e puntandomela contro gli occhi.
«Meglio», risposi.
Spense la torcia e la posò accanto al panno. Mi fece una visitina che durò sì e no cinque minuti, poi andò via.
Newt mi passò il panno inzuppato d'alcool e mi prese la mano destra. Poggiò il panno sul palmo e poi prese la sinistra, poggiandolo anche su quella. «Premi le mani contro il panno, così le disinfetti.»
«Ma brucia...», brontolai.
«Se brucia vuol dire che funziona», disse con un tono premuroso, spostandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Era l'unico che si preoccupava davvero per me. Lo era sempre stato.
Feci come disse, ma me ne pentii quasi subito. Era come se mi avessero messo dei tizzoni ardenti nelle mani. Bruciavano da matti, ma cercai di non lamentarmi troppo.
«Ho bisogno di fare una doccia», dissi, cercando di non far vedere quanto stessi impazzendo dal bruciore alle mani. Volevo distrarmi.
«Vuoi che ti accompagni?», disse, prendendomi il panno dalle mani. Probabilmente si era accorto di quanto stessi soffrendo per colpa di quell'affare, o forse aveva deciso che mi ero disinfettata abbastanza.
A dire il vero, realizzai dopo ciò che aveva detto. Mi sentii leggermente in imbarazzo e non ne capii il motivo. Annuii. Non ero sicura di riuscire a camminare, mi sentivo ancora debole dopo tutto.
Molto debole. Ma avevo l'urgenza di farmi una doccia, mi sentivo sporca.
La consolazione era che la sensazione appiccicosa in bocca era sparita, ma mi sentivo comunque sporchissima.
La testa continuava a darmi una sensazione di pesantezza, la cosa abbastanza positiva era che il flusso dei miei pensieri era diventato molto più leggero.
Era strano e piacevole il fatto che Newt era riuscito a neutralizzarlo senza neanche saperlo.

Mi portò verso le docce tenendomi poggiata a lui, stringendomi per un fianco e con un braccio attorno al suo collo. Camminò il più piano possibile per non farmi affaticare.
Dopo essermi fatta una bella doccia, indossai dei vestiti puliti ed uscii dai bagni. Newt era poggiato alla parete che mi aspettava.
Legò di nuovo un braccio attorno alla mia vita e poi si passò il mio attorno alle sue spalle, facendomi scappare una risatina. «Non ho bisogno di questo, sai?»
«Voglio farlo ugualmente», brontolò come un bambino viziato. Mi portò fino alla cucina e mi fece poggiare al tavolo.
Non mi resi conto fino a quel momento di quanto avessi fame... più o meno. Non era proprio fame, era più che altro la necessità di mangiare qualcosa di asciutto così da alleviare un po' l'acidità del mio stomaco, che sembrava avere i postumi del vomito di prima.
Mi sedetti sul tavolo con le gambe a penzoloni e cominciai a mangiare il pane. Lo addentai con gusto, come se non mangiassi da mesi. Sentivo di poterlo divorare in un secondo.
Il pane era uno dei cibi che preferivo lì dentro, essendo morbido al punto giusto e piuttosto gustoso.
Ma per qualche strano motivo mi sembrava di mandare giù carta vetrata. Raschiava contro la gola in una maniera fastidiosissima, ma decisi di non darlo a vedere per evitare ulteriore preoccupazione.
Continuai a mangiare come se fosse stato tutto okay.
Notai lo sguardo fisso di Newt, che si poggiò al tavolo accanto a me. I suoi occhi nascondevano qualcosa, mi fissavano come se mi stessero guardando nell'anima.
«Che c'è?», domandai imbarazzata. Pensai che forse il mio mangiare come un criceto affamato da settimane l'avesse terrorizzato.
Continuò a fissarmi, poi schiuse le labbra e prese un piccolo respiro profondo, «Tu non stavi pensando solo ai ricordi prima, vero?»
Sbattei più volte le palpebre, mandando giù il boccone di pane che avevo in bocca. Diedi un colpetto di tosse e annuii, «Sì, stavo pensando a quello invece».
«No, non è vero.» Incrociò le braccia, «Stavi pensando a quello che ti ho detto nel Casolare, vero?».
Arrossii e abbassai il volto, poggiando il pane accanto a me. Storsi leggermente il naso e presi un respiro profondo, annuendo. Accennai un sorriso per smorzare l'imbarazzo.
Schioccò la lingua e scosse la testa, sospirando pesantemente. «Non devi pensarci così tanto Liz, sul serio, te l'ho già detto, è tutto okay», lo disse con leggerezza. Era un copione che aveva chiaramente imparato a memoria e stava imparando ad interpretarlo veramente bene. Ammirai il modo con cui cercava di rassicurarmi dal farmi sentire ulteriormente a disagio.
A dire il vero, cominciavo ad essere più apposto con me stessa, ma non ero ancora in grado di dirgli ciò a cui stavo pensando realmente. L'idea di provare ciò che provavo mi spaventata sempre di più.
Era come se davanti a me avessi avuto le Mura del Labirinto ed avessi dovuto tentare di scavalcarle per attraversarlo. Come avrei potuto farlo? Quale arma avrei potuto usare per poi combattere i Dolenti?
Newt sospirò pesantemente, si passò una mano tra i capelli e alzò il volto verso il soffitto, «Dannazione, sapevo che non dovevo dirtelo. Sapevo che poi si sarebbe creata quest-»
Poggiai una mano sul suo volto e lo feci girare, baciandolo di getto ed interrompendo la sua frase. Un gesto che lo sorprese parecchio, ed infatti si staccò dal bacio come se gli avessi bruciato la bocca. Si toccò le labbra, il suo sguardo era palesemente confuso...e dovevo ammettere di esserlo anche io.
Avevo preso il coraggio a due mani prima che potesse scappare, un gesto abbastanza impulsivo, ma che avevo deciso di accogliere senza riflettere.
Forse avevo sbagliato qualcosa? Forse avrei dovuto stare ferma e rimanere nel mio guscio ancora per parecchio tempo finché le acque non si fossero calmate, finché non fosse passato tutto ed allora avrei potuto smettere di pensarci.
Accadde tutto nell'arco di qualche secondo, poggiò le mani sulle mie guance e mi tirò verso di lui scontrando nuovamente le labbra con le mie. Mi prese totalmente alla sprovvista, arrossii, ma decisi di lasciarmi trascinare dal bacio. Le sue mani scesero lungo il mio collo, poi sulle mie braccia e le accarezzò dolcemente, spostandosi infine sui fianchi. Mi avvicinò di più a lui, spostando nuovamente una mano sul mio viso ed accarezzandolo, senza staccarsi dal bacio.
Portai un braccio dietro la sua schiena, la mano tra i suoi capelli. Non mi ero mai accorta di quanto fossero morbidi. Le nostre lingue si cercavano, intraprendevano un gioco tutto loro che assecondavamo più che volentieri. Era come se finalmente le nostre anime fossero riuscite ad incontrarsi dopo tanto tempo, anche se quello era solo un bacio.
«Woh! Ma che... ah, ci vedo mezzo metro di lingua qui! Ragazzi, io vi adoro ma vi prego di andare nel Casolare!»
Ci staccammo dal bacio e Newt si passò velocemente una mano sulle labbra, come per cancellare ciò che stavamo facendo.
Sulla soglia della porta c'era Minho che si copriva gli occhi in modo scherzoso. Ridacchiava sotto i baffi, il maledetto.
Mi grattai la testa con fare imbarazzato, gesto che fece anche Newt.
Minho si spostò la mano da davanti, continuando a ridacchiare, «Lo sapevo! Caspio, lo sapevo! Cupinho ha colpito ancora!».
«Cupinho...? Ti prego, non dirmi che sta per...»
«Cupido più Minho! Cupinho! Ero fortemente indeciso se chiamarmi Cupinho o Cuminho, ma la seconda mi ricordava vagamente “camino”, quindi ho optato per Cupinho.» Scrollò le spalle e si avvicinò alla dispensa, cercando qualcosa da mangiare.
Si girò e trovò il pane che avevo abbandonato per... dedicarmi ad attività più interessanti. Lo prese e lo indicò, «Lo stavi mangiando tu, mia piccola Giulietta?».
Newt arricciò il naso e si girò dall'altra parte.
Annuii, allora Minho scosse le spalle e cominciò a mangiarlo. Ed io che credevo di essere strana mentre mangiavo! Minho sembrava un anaconda a dieta da un anno. C'era anche da dire che correre come correva lui tutto il giorno doveva causare davvero molto appetito.
«Allora, quando intendevate dirmi che state assieme? Da quanto va avanti questa cosa? Perché non mi avete detto niente?», e via con una sfilza di domande che sembrava essere infinita. Sparava domande a raffica. C'era un tasto per spegnerlo? Sapevo che avrebbe cominciato a vantarsi della cosa a vita.
«Alt, alt, alt! Rilassati Minho, non sei inseguito da un Dolente, caspio!», disse Newt, sollevando una mano per fargli segno di smetterla.
«Beh, allora che aspetti a spiegarmi questa bella situazione?» Il sorriso di Minho partiva da un orecchio e finiva nell'altro. Mi rivolse un occhiolino e sollevò il pollice in segno di approvazione.
Arrossii... era già successo anche troppe volte in poco tempo.
«Non c'è niente da spiegare», tagliò corto Newt, «Ci siamo baciati, tutto qui. Non stiamo mica assieme».
Corrugai la fronte. Tutto qui? Ero stata così pessima da meritarmi un “tutto qui”?
«Liz è una buona amica.»
Arricciai il naso. Si girò e mi rivolse un sorriso. Il maledetto era dannatamente vendicativo, eh?



{Angolo dell'autrice}
Salve pive! alla fine ce l'ho fatta, ho terminato il capitolo in tempo anche se tra riff e raff l'ho pubblicata solo ora.
Scusatemi! sono stata fuori tutto il giorno, ma almeno ho rispettato la scadenza del venerdì!
Scusate se oltretutto vi ho mandato il messaggio tardi, ma la mia linea oggi fa veramete schifo dato il mal tempo!
E no, vi lascio ancora un pochino sulle spine, per avere delle risposte certe dovrete aspettare il capitolo sucessivo.... O forse quello dopo ancora.
Chissà!
Immagino vi stiate facendo già alcune teorie... Se volete dirmele potete pure farlo, vedremo se sono azzeccate o meno ;D
Probabilmente farò tipo Wess ball.
"Maybe".

Ringrazio di nuovo la mia beta, comincio ad adorarla.
Prometto che ti farò una statua. <3
Al prossimo capitolo pive!

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