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Autore: TheSandPrincess    07/02/2015    4 recensioni
XIX secolo, Africa.
Maua, principessa dalla schiena dritta e lo sguardo fiero, ha una sorella e due problemi: il primo è il matrimonio che suo padre tenta di imporle, il secondo è il muzungu che è arrivato da poco al villaggio. Si chiama Jafar, lo chiamano il Lupo. Ha la pelle color del fango e il sorriso di chi mente.
Jaja ha un fratello e un padre affetto da mal di vivere. Scoprirà presto che le belve più pericolose sono quelle che camminano su due gambe.
Imana ha un amico che somiglia ad un ippoptamo, e una missione: ritrovare suo fratello. Ad accompagnarlo è Mchawi, stregone buono e imponente, che pur di allungare la propria vita ha rischiato di perderla.
Nessuno di loro lo sa, ma le loro strade stanno per incrociarsi. Dove? In una radura nascosta, nella foresta. Quella radura in cui vivono gli uomini con la pelle color della luna, vestiti con strani tubi di stoffa e armati con le macchine della morte.
Genere: Angst, Avventura, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
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Notine carine carine prima della lettura:
l'idea alla base di questa storia è nata con il contest Dalla mela avvelenata nascono farfalle, indetto sul forum di EFP. La richiesta del contest era di rielaborare a nostro piacere una o più fiabe Disney (ma non solo), e Hadithi è nata appunto come rielaborazione di Aladdin, Cappuccetto Rosso e Hansel e Gretel, grazie anche alla scoperta, da parte mia, di quella cosa bellissima che è il racebend. Non starò qui a spiegarvi tutti i giri mentali malati che ho fatto per arrivare alla trama di Hadithi, ma potete tranquillamente divertirvi a ricercare le tre fiabe nella storia, anche perché ho cercato comunque di mantenerne gli elementi fondamentali.
la storia è ambientata più o meno nell'area oggi occupata dallo Zimbabwe, a metà del XIX secolo. La principale fonte di ispirazione per il setting è stata il romanzo La Principessa Africana di Christel Mouchard, ma eventuali errori o anacronismi sono interamente dovuti alla mia pessima memoria.
le parole in Swahili all'interno del testo sono state tradotte con un traduttore on-line, la cui attendibilità non ho potuto verificare, non conoscendo il Swahili. Mi scuso per eventuali errori, ed invito chiunque fosse più esperto di me a darmi qualche dritta, in caso fosse necessario.



Minizionario:
muzungu: letteralmente "uomo bianco";
pombe: bevanda alcolica a base di banana, molto simile alla birra;
mfalme: re, sire;
lofa: pigrone, sfaticato;
samahani: equivalente del nostro "scusa";
kibibi: principessa.























 

🌕

GIORNO

 

 

 

«Maua...»
Il re si passa una mano sugli occhi, fa un respiro profondo. Cerca di ricordarsi quante volte le ha fatto questo discorso. Troppe, senza dubbio. Tante che per contarle non basterebbero le mani di diecimila uomini.
«Maua, il tuo diciannovesimo anno di vita sta per concludersi» dice, e il suo tono non è né calmo né pacato. Semplicemente, è stanco.
«Non puoi aspettare oltre»
Alza il capo, guarda sua figlia negli occhi. Ha lo sguardo di una guerriera, fermo e determinato, la schiena dritta, la testa alta. Non cederà neanche questa volta. Neanche questa volta gli darà ascolto. Inizia a pensare che parlare con lei sia come parlare al vento: non importa quanto lo preghi, non cambierà mai direzione solo per te.
«Invece devo, baba» risponde infatti, e la sua voce è stanca quanto quella del re, le sue parole altrettanto consumate. È dall'inizio dell'anno che ripetono gli stessi discorsi, ancora e ancora. Nessuno dei due vince, nessuno dei due perde. Lo scontro viene semplicemente rimandato. Costantemente.
«Non posso decidere di passare la mia vita con la prima persona che passa!»
Suo padre sospira. Vorrebbe farle notare che in realtà la tradizione stabilisce che non sia lei a scegliere. Che secondo la tradizione, al compimento del diciottesimo anno di vita della principessa bisogna che il re annunci il suo sposo. Che secondo la tradizione lei dovrebbe abbassare il capo e accettare la decisione presa dai suoi genitori. Ma ormai, ha capito, con queste argomentazioni non andrebbe da nessuna parte. I giovani tendono ad essere ciechi davanti alle proprie fortune, a pensare che siano diritti.
«E allora non farlo!» sbotta, battendo le mani sui braccioli del trono di giunco «Fai una ricerca attenta, guarda tra i giovani guerrieri del villaggio e decidi chi di loro sposare! Non ti sto chiedendo di scegliere a caso!»
L'improvviso innalzamento del tono di voce di suo padre, anziché spingerla a riconsiderare il proprio approccio, le dà coraggio, e Maua fa un passo avanti, più baldanzosa di prima.
«Ci vuole tempo per scegliere!»
«Non ce ne vorrebbe così tanto se tu ti stessi effettivamente impegnando!»
«Mi sto impegnando!»
Il sovrano vorrebbe risponderle per le rime, dirle che deve smettere di prenderlo in giro, che non può essere lei a dettare le regole, che non è un atteggiamento consono ad una principessa, ma stringe le labbra, si morde la lingua e si costringe a riflettere. Ha capito ormai che l'unico modo per parlare con sua figlia è rimanere serafici. A quanto pare, la rabbia altrui alimenta soltanto la sua convinzione.
«Maua» dice quindi, e la sua voce è piatta e tranquilla, come se gli ultimi minuti di conversazione fossero stati completamente cancellati «Sai benissimo che non è vero»
La principessa apre la bocca per protestare, ma lui la ferma con un gesto, chiedendole di lasciarlo finire.
«Capisco che tu possa non trovare nulla di allettante nel matrimonio» continua, puntando gli occhi in quelli di lei, quasi costringendosi a non sbattere neanche le palpebre «Ma è una scelta che devi fare, e che devi fare adesso»
Sospira. Gli fa quasi male il cuore a dover ripetere questa parte del discorso.
«Sono vecchio, ormai. Verrà un giorno in cui io non ci sarò» dice, e il suo tono si addolcisce, perché si rende conto che per chi non l'ha provata sulla propria pelle, la vecchiaia, la consapevolezza della fine che si avvicina, sia qualcosa di lontano e inconcepibile «E quel giorno avrai bisogno di qualcuno che ti aiuti a regnare. Qualcuno che devi trovare ora, perché quando verrà il momento di prendere sulle vostre spalle la responsabilità del villaggio, non avrete tempo per conoscervi e imparare ad amarvi. Hai capito?»
Maua abbassa lo sguardo e annuisce silenziosa, come ogni volta che suo padre le parla del giorno in cui anche lui abbandonerà, lasciandola sola con sua sorella Ekundu. Non avrebbe mai il coraggio di dirlo ad alta voce, ma le pare un'ingiustizia che usi una motivazione simile per convincerla a sposarsi subito. Le pare un'ingiustizia che si metta a giocare con i suoi sentimenti.
«Rispondimi, Maua» ripete lui, senza smettere un attimo di guardarla «Hai capito?»
La principessa alza nuovamente gli occhi, si costringe a stare ritta come un palo, come insegnano ai guerrieri.
«Sì, baba»
Deve stringere i denti per impedirsi di urlare, ma la sua posizione non cambia di un millimetro. Testa alta, schiena dritta, sguardo fermo. Non sa se sta mettendo alla prova suo padre, o se stessa. Purtroppo, non ha il tempo di scoprirlo, perché pochi secondi dopo nella sala del trono entra una delle guardie.
«Mfalme, il muzungu è qui» dice, con un inchino.
E, quando vede l'espressione di suo padre distendersi al solo udire quella parola, per Maua trattenere l'urlo che ha in gola diventa quasi impossibile. Quasi.

Al villaggio, tutti conoscono il muzungu.
Ogni tanto, dopo due, tre albe dalla sua ultima visita, si presenta con il suo carro di legno, trainato da due muli, e offre qualsiasi tipo di esotica chincaglieria.
Le donne gli si avvicinano a gruppetti, aprono le contrattazioni: scambiano pani con coltelli affilati e collane, carni con ceste decorate, pombe con orecchini e bracciali. Le conversazioni sono fatte di gesti, poche parole in Swahili e ancora meno nella lingua altrui. Si capiscono un po' a fortuna, un po' a intuito. O forse non si capiscono affatto, e fanno solo finta. Maua non saprebbe dirlo, perché lei col muzungu non ci ha mai parlato.
Come i suoi guerrieri, allineati lungo le pareti delle capanne, con lo sguardo attento e le orecchie tese, Maua resta a guardare da lontano, pronta a intervenire al minimo conflitto. Immobile, osserva i bambini che si divertono con le collane di perline del muzungu, con i carretti di legno che porta, e che sul terreno secco corrono veloci come antilopi. A volte gli chiedono addirittura di potergli toccare i capelli, ma lui non acconsente mai, così si accontentano di indicarli e fare supposizioni, chiedendosi se assomiglino di più ai peli di una scimmia o alla criniera di un leone, al tatto.
Ogni volta che gli si avvicinano, Maua vorrebbe gridare loro di fare un passo indietro, di non esporsi tanto, di non avere così tanta fiducia in quest'uomo dalla pelle olivastra e le mani delicate, di chi non ha mai lavorato un giorno in vita sua, ma sa che non la ascolterebbero. Perché dovrebbero, quando il re è in così buoni rapporti col muzungu? Perché non fidarsi, quando il re si fida?
Non che Maua non ci abbia provato, a parlare con suo padre. Non che non ci abbia provato, a ricordargli delle storie che raccontano in altri villaggi, di uomini con la pelle del colore della luna, vestiti di strani tubi di stoffa, che vengono per rapire e uccidere. Lui le ha risposto che la pelle del loro muzungu non è del colore della luna. E quando lei gli ha fatto notare che i tubi di stoffa, però, li indossa eccome, lui ha ribattuto che non si può giudicare qualcuno solo a partire dal suo aspetto. Che se ne sarebbe accorto se non fosse stato un uomo dalle intenzioni sincere. Che avrebbe saputo come comportarsi. E, ancora una volta, Maua ha dovuto serrare i denti, stringere i pugni e stare in silenzio, obbedendo al volere di suo padre.
Eppure, i guerrieri sono tutti dalla sua parte. Senza che lei abbia mai aperto il discorso, senza che gliel'abbia mai chiesto. Dalla prima volta che il muzungu si è presentato al villaggio, quando ancora tutti erano diffidenti, quando ancora tutti si tenevano a distanza di sicurezza e dubitavano delle sue intenzioni, l'hanno imitata nel suo silenzioso vegliare, ritti come pali, fermi come rocce, pronti ad obbedire a ogni suo ordine.
Maua non gliel'ha mai detto, perché parlare di questa loro alleanza silenziosa sarebbe come infrangere un incantesimo, come ammettere che, dopotutto, stanno agendo alle spalle del re, sotto ordini che non sono i suoi, ma è immensamente grata per il loro supporto. Soprattutto perché, quando verrà il momento, se davvero non si sbaglia su quest'uomo e i suoi piani, lei da sola non sarà in grado di fare nulla.
Il muzungu le lancia un'occhiata, come se anche lui la stesse tenendo d'occhio, e il suo sguardo è freddo, quasi lascia un segno sulla pelle. Maua alza la testa, ricambia lo sguardo, mette bene in mostra il mantello azzurro che porta drappeggiato sulle spalle e le collane dello stesso colore, insegne del suo rango.
Non può esserne sicura, ma le pare di vederlo soffiare fra i denti, come un felino pronto all'attacco.

Il muzungu va via dal villaggio al tramonto, come sempre.
A quel punto la gente è ormai tornata nelle capanne, prepara la cena. Qualche sera dopo il suo arrivo è stata fatta una grande cena cerimoniale, tutti insieme, nella piazza del villaggio, come sempre si fa per gli ospiti. Nessuno riusciva a guardarlo in faccia, allora, ma tutti erano contenti di poter mangiare un po' più del previsto.
Sono passate settimane da quella prima cena, ormai, e la gente inizia a fidarsi. La principessa e i suoi guerrieri restano diffidenti, ma il re e la popolazione civile si sentono tranquilli, con lui accanto.
Il muzungu si chiama Jafar, e questa cosa gli fa piacere. Soprattutto perché iniziava a stancarsi di dover aspettare e aspettare e aspettare, in questo caldo torrido e pieno di insetti. Iniziava a stancarsi di dover dipendere da questi selvaggi per nutrire sé stesso e gli altri. E, soprattutto, iniziava a stancarsi dei negretti che gli vogliono toccare i capelli. Banda di scimmie, tutti quanti.
È soddisfatto, quindi, mentre si addentra nella foresta e indirizza i suoi due muli attraverso gli alberi, soltanto con la guida di una bussola. Deve andare a nordest, sempre a nordest, fino a quando non incontra l'accampamento. Hanno preferito non utilizzare un sentiero già battuto, ma cambiare sempre percorso, perché così sarebbe stato più difficile trovarli. Ci sono cose, nell'accampamento, che è bene che la gente del villaggio ignori. Almeno fino a quando non verrà il loro momento.
Il sole scende sempre di più, e gli asini sono stanchi, inciampano nelle pietre disseminate sul terreno. Jafar sbuffa, li frusta con forza, e si maledice per aver creduto a quel cretino che glieli ha venduti promettendo due bestie da favola. Come no. L'unica cosa favolosa che hanno è una lentezza epica.
Cerca di trattenersi dal frustarli ancora, sapendo fin troppo bene che finirebbero col fermarsi, in segno di protesta. Strano. In un giorno normale, avrebbe già perso la pazienza. Dev'essere perché oggi non è un giorno normale. Dev'essere perché domani si aprono le danze.
Cominceranno piano, con qualche bambino qui e lì, perché quelli sono i più facili, giusto per destabilizzare la sicurezza della popolazione. Poi toccherà agli altri, compresa quella donna che si fa chiamare Kizee, la vecchia che vive nella capanna isolata dal resto del villaggio e che gli ha promesso aiuto in cambio della libertà. Gli ha detto di essere stata consigliata dagli spiriti. Jafar le ha riso in faccia, rispondendo che probabilmente aveva soltanto un po' più di sale in zucca rispetto a tutti gli altri scimmioni. Dopotutto, è l'unica ad aver capito. L'unica, perché anche la principessa e i suoi guerrieri non sanno, di preciso, cosa aspettarsi.
Ma non è un problema. Tanto, il loro turno di conoscere il Lupo è piuttosto vicino.


***
 

La mattina dopo, Maua si sveglia che il sole non è ancora sorto. Stranamente, il suo primo pensiero non è né per il matrimonio che suo padre continua ad imporle, né per l'ingombrante presenza del muzungu, che sembra tormentare tutte le sue notti. Il suo primo pensiero è per Ekundu, e basta a farla scattare in piedi, preoccupata.
«Ekundu?» chiede infatti alla semioscurità che la circonda, alla quale i suoi occhi non sono ancora abituati «Ekundu, sei ancora qui?»
«Certo» risponde una vocina sottile, che viene da un angolo nascosto della capanna. Maua si lascia sfuggire un sospiro di sollievo e ringrazia Mwari di averla svegliata in tempo. Non sarebbe riuscita a stare in pace con sé stessa se avesse lasciato partire sua sorella senza salutarla.
Nella luce bluastra del mattino, Maua inizia a distinguere i contorni e le forme, riesce a intravedere una sagoma esile accovacciata per terra accanto a una grande cesta. Eccola, Ekundu.
Stando attenta a dove mette i piedi, le mani tese in avanti per aiutare gli occhi a capire come muoversi, Maua le sia avvicina, si inginocchia accanto a lei.
Riesce a vedere i suoi occhi scuri che la guardano, le labbra tese in un sorriso poco convinto.
«Hai paura?» le chiede, prendendo una delle sue mani delicate nelle proprie, più grandi, più forti, più ruvide.
Ekundu abbassa lo sguardo, tocca la collana azzurra che le pende dal collo, cerca la risposta giusta. Non la trova, così si accontenta di dire la verità, stringendosi nelle spalle, come fosse una cosa da poco conto.
«Un po'» ammette.
Maua le sorride, rafforza la presa sulla sua mano, nel tentativo di rassicurarla.
«È normale» dice, in un sussurro «Vedrai che andrà tutto bene» e stavolta non sa se stia parlando a Ekundu o a se stessa, decide di non chiederselo.
Ekundu rimane in silenzio, non sa come rispondere. Sposta lo sguardo sulla cesta di offerte che ha preparato poco prima, spera che sia tutto al posto giusto. Non è autorizzata a chiedere aiuto. Come non è autorizzata ad essere accompagnata. Come non è autorizzata a domandare indicazioni precise. Deve fare tutto da sola, scoprire tutto da sola. Chissà se è così che si sentono i giovani guerrieri quando devono essere iniziati. Sperduti. Impauriti. Soli.
Maua le accarezza una guancia, ormai riesce a vedere nitidamente tutto il suo viso, il collo, il petto.
«Odio il fatto di non poterti accompagnare» sussurra, ed è come se le leggesse nel pensiero, come se sapesse esattamente cosa dire, quando dirlo «Sei troppo piccola per allontanarti tanto, tutta sola»
Questo a Ekundu, suo malgrado, strappa un sorriso.
«Perché tu a dodici anni non andavi girando per la foresta, nonostante gli ordini di papà» ribatte, sollevando le sopracciglia, in un'espressione di finto dubbio. Perché mamma non è morta quando avevi undici anni, vorrebbe dire, e tu non sei dovuta andare a deporre le offerte sul suo altare per la prima volta a dodici anni, proprio come me, ma sa che il passato fa male, ed è meglio lasciarlo dov'è.
«Tutte malelingue» risponde Maua, dandole uno spintone giocoso. Sorridono entrambe, e Maua per un attimo non ci pensa, che dovrebbe essere lei ad andare all'altare della regina. Potrebbe essere lei, se solo non fosse in età da marito, se solo la tradizione non mettesse così tanti limiti da tutte le parti, abbastanza da sembrare più una gabbia che un codice di convivenza.
Ekundu scuote la testa, si alza in piedi e tende una mano a sua sorella, per aiutarla a fare lo stesso. Se indugia ancora, potrebbe venirle voglia di chiederle di seguirla, anche da lontano, giusto per avere la sicurezza di non essere sola, ma sa fin troppo bene che si tratterebbe di un'infrazione grave, di quelle che non si dimenticano facilmente. Senza contare che Maua, a mettersi nei pasticci, è già bravissima da sola.
«Hai preparato tutto?»
Ekundu annuisce, lancia un'occhiata alla cesta con le offerte e deve trattenersi dal ricontrollare tutto un'ultima volta, perché sa che le farebbe solo perdere tempo. Dopotutto, sarebbe la decima volta che lo fa.
«E il mantello?» le chiede ancora Maua, stavolta con un sorriso sulle labbra, perché conosce già la risposta.
«Dovresti aiutarmi a metterlo» dice infatti Ekundu, chinandosi a raccoglierlo da terra, dove era piegato con cura. E non è una sorpresa, perché per quanto ci si impegni, ogni volta che prova a indossarlo da sé si ritrova avvolta in una stoffa che improvvisamente appare chilometrica e assolutamente senza scopo. Così, lascia sempre fare a Maua, che con i tessuti è una maga.
La principessa prende il mantello dalle sue mani e glielo posa sul capo, creando un largo cappuccio rosso. Poi ne incrocia i lembi, stando attenta a lasciare che uno dei due sia più lungo, vi avvolge il corpo della sorellina e glieli lega sul fianco destro, proprio sotto l'ascella.
Si allontana, la guarda, sorride. Il rosso dell'abito cerimoniale, così acceso, contrasta con la sua pelle scura, le nasconde solo in parte le forme non ancora mature.
Ekundu abbassa lo sguardo, quasi imbarazzata, e Maua non sa resistere alla tentazione di lasciarle un bacio sulla fronte. La principessina arriccia il naso, contorcendo i suoi lineamenti delicati in una smorfia buffa, e sua sorella le dà un buffetto sulla guancia.
«Adesso vai» le dice. Fuori, il sole sta per sorgere, il tempo non è più molto: le offerte devono essere deposte sull'altare nello stesso momento in cui il primo raggio di sole lo tocca.
Si china a raccogliere il cesto, glielo porge, sorride di nuovo.
Andrà tutto bene, si ripete, anche se deve ancora decidere se crederci o meno.
Ekundu la ringrazia, tiene in equilibrio la cesta sul capo e sta per uscire dalla capanna quando la voce di Maua la chiama un'ultima volta.
«Ricordati di tenere la schiena dritta!» le dice.
Ekundu non risponde, ma raddrizza le spalle e sorride, prima di varcare la soglia.
 

***


Quando il primo raggio di sole si insinua attraverso le fessure nelle pareti di bambù della capanna, Jaja è già sveglia. O meglio, quasi. Si trova in quella fase del dormiveglia in cui il corpo si concede di cinque minuti in cinque minuti, rischiando costantemente di riaddormentarsi una volta per tutte. Peccato che ormai le sia successo talmente tante volte da non riuscire più a cadere nell'inganno. Così, con un sospiro, si tira su, si stropiccia gli occhi e si decide a iniziare la giornata, seppure con qualche sbadiglio di troppo.
Si sciacqua le mani e il viso nella grande ciotola di legno che sta ai piedi del letto, sperando che il contatto con l'acqua tiepida la costringa a mettersi in moto una volta per tutte. Fortunatamente, è così, tanto che trova addirittura il coraggio di riavvicinarsi al giaciglio di paglia, dove suo fratello continua a dormire, consapevole che ormai la tentazione di stendervisi ancora per un po' non sarà altrettanto forte.
«Yohana» chiama, scuotendo leggermente suo fratello per un braccio, nel vano tentativo di scrollargli il sonno di dosso «Yohana, dobbiamo andare»
Il bambino si stropiccia gli occhi, sbadiglia, stenta a mettere a fuoco la figura chinata su di lui. Quando ci riesce, si rende conto che una nuova giornata di lavoro sta per iniziare e decide saggiamente di ignorare sua sorella che, imperterrita, lo chiama con insistenza. Si limita a mugugnare qualcosa di incomprensibile, voltandosi dall'altro lato, e a Jaja non resta altro da fare se non scuoterlo più forte, visto che il sonno sembra esserglisi incollato addosso.
Di nuovo, l'unica risposta che ottiene è un grugnito molto poco significativo.
Alza gli occhi al cielo, fa un respiro profondo. Le piccole gioie dell'avere un fratello minore.
«Muoviti, lofa, che non abbiamo tutto il giorno» gli dice infine.
E, giusto per stare sicuri, ci aggiunge uno scappellotto sulla nuca.

Quando finalmente riescono a uscire dalla capanna, Kunzi li aspetta già con tutta l'attrezzatura pronta, l'espressione cupa e il piede che batte il tempo di una musica immaginaria, come fa sempre quando inizia ad irritarsi.
«Scusa se ci abbiamo messo tanto, baba» dice a mezza voce Yohana, prendendo una delle due grandi ceste intrecciate che suo padre gli sta porgendo e poggiandosela sul capo, dove rimane in perfetto equilibrio. Nonostante le cesta lo costringa a tenere la testa alta, il bimbo si ostina a tenere lo sguardo fisso sui propri piedi, troppo spaventato all'idea di quello che potrebbe trovare sul volto di suo padre se avesse il coraggio di alzare lo sguardo.
«Sì, scusaci» concorda Jaja, prendendo a sua volta una cesta. Al contrario di Yohana, tiene alto anche lo sguardo. Per un attimo le viene voglia di aggiungere una frecciatina rivolta a suo fratello, che è dopotutto la vera causa del loro ritardo, ma alla fine decide di tacere, perché sa bene che darebbe senza dubbio inizio a una lite infinita, e se c'è una cosa che loro padre odia più di doverli aspettare è doversi sorbire i loro bisticci.
Così, Jaja tace, e si accontenta del cenno di risposta che suo padre le rivolge prima di voltarsi e iniziare a camminare verso la foresta. Ormai, si è abituata a non chiedere di più.
La bambina sospira – un sospiro silenzioso, quasi inaudibile – e poi, come ogni mattina, si sistema la cesta sul capo e si prepara a seguire suo padre nella lunga marcia silenziosa alla ricerca della legna.
Quando Yohana riesce a incrociare il suo sguardo le chiede scusa con gli occhi, e Jaja vorrebbe poter essere arrabbiata con lui, ma non ci riesce, perché sa benissimo che, alla fine, la colpa non è tutta sua. Il fatto che siano arrivati con qualche minuto di ritardo non è la causa primaria del malumore di loro padre. Quella, molto semplicemente, è la vita. È il doversi alzare presto la mattina, lavorare tutto il giorno, mangiare un boccone e poi mettersi al letto. È il non essere ricoperto di gloria, il non aver raggiunto una postazione prestigiosa a causa del suo lieve zoppicare, dovuto all'attacco di uno gnu quando era solo un ragazzo. Jaja lo sa. Lo sente nel modo in cui racconta dell'incidente che ha troncato la sua carriera di guerriero, lo vede nel disamore con cui si trascina fuori di casa ogni mattina, lo percepisce quando gli parla, quando lo guarda, quando lo aiuta. Jaja lo sa, e forse l'ha sempre saputo, come da sempre sa di non poterci fare nulla. Lo segue obbediente, si occupa della casa, di suo fratello, ma non basta. Un giorno si sposerà, gli darà tanti nipoti forti, ma non basterà neanche quello. L'unica cosa che la consola è che Yohana ancora non abbia capito. Che ancora non si chieda come fare ad alleviare quel dolore che sembra perseguitare Kunzi ovunque vada, e che ha meno a che fare con la gamba malandata e più con l'orgoglio ferito.
Così, quando incrocia lo sguardo di suo fratello che le chiede silenziosamente perdono, nonostante tutto Jaja sorride, rispondendo che non fa nulla.
Perché alla fine l'unica cosa che riesce a rendere questa situazione sopportabile è il non doverla affrontare da sola.


***
 

Ekundu cammina per il sentiero con le orecchie tese e i palmi che sudano.
La foresta, attorno a lei, stenta a tingersi dei dei colori dell'alba. Non sa bene se la cosa vada considerata positiva o negativa. Certo, da un lato significa che ha ancora tempo per arrivare a destinazione, ma dall'altro significa che non riesce a vedere bene tra le ombre degli alberi, a capire da dove, di preciso, vengano quei rumori e quei fruscii che continuano a tormentarla.
Vorrebbe riuscire a fingere di essere tranquilla, perché sa che gli animali riescono a percepire la paura, ma non ci riesce. Al momento, vuole solo che sorga il sole, che questo altare si faccia trovare e che le venga finalmente concesso di tornare a casa.
Così, stringe la presa sulla cesta che tiene in equilibrio sul capo, per assicurarsi che non scivoli, e accelera il passo. Meglio arrivare in anticipo che in ritardo, si dice. E poi, chissà che anche le bestie non si tengano alla larga dai luoghi sacri, in segno di rispetto.
Non può sapere che non ci sono solo loro, a seguirla.

Nascosto tra le foglie, Jafar la guarda venire dal villaggio, chiedendosi se, dopotutto, la fortuna esista. Non che ci abbia mai creduto, sia chiaro. È sempre stato convinto che sia solo una scusa inventata da chi, incapace di rimboccarsi le maniche e guadagnarsi un nome, cerca di sminuire il lavoro altrui. Eppure... Eppure, una preda così facile, proprio nel giorno in cui aveva deciso di dare inizio alla caccia. Sembra quasi troppo bello per essere vero.
Non a caso la lascia andare avanti, seguendola silenzioso per un bel tratto di strada, mentre il cielo sopra di loro inizia a rischiararsi. Cerca di scorgere oltre gli alberi che lo circondano, fra le foglie, alla ricerca di guerrieri in agguato, di una retroguardia pronta a difendere la principessina.
Cerca fino allo sfinimento, ma non trova nulla.

L'aria diventa sempre più tersa, le ombre meno fitte.
Ekundu inizia a sentirsi a suo agio, con la luce che la circonda. He sempre il passo veloce, però, e le mani umide, perché attorno a lei i rumori si sono quietati, ma i rami non hanno smesso di muoversi. Adesso si sentono anche i richiami degli uccelli, che iniziano a svegliarsi, il chiacchiericcio incessante delle scimmie, nascoste da qualche parte, metri sopra di lei, e addirittura, le pare, il barrito di un elefante in lontananza. La foresta si risveglia, poco a poco, ed Ekundu starebbe ferma a godersela, se non fosse così sola, così indifesa.
Ad un certo punto le viene da pensare che potrebbe essere attaccata dalle scimmie, con tutta la frutta che porta. Le viene da chiedersi come facciano i guerrieri a venire qui ogni giorno per cacciare, dove trovino il coraggio.
Poi si ricorda che sono in gruppo. E armati. E per la prima volta in vita sua, si chiede come sarebbe impugnare una lancia.

La principessina cammina rapida e, con tutto il baccano che le bestie hanno iniziato a fare, Jafar si torva costretto a rinunciare alla ricerca di una possibile scorta, se non vuole restare indietro.
Senza contare che non sa quanto tempo ancora abbia a disposizione, quanto lontana sia la meta che questa negretta sembra avere tanta fretta di raggiungere. Deve prendere una decisione, immediatamente.
Allunga il passo, la supera.
E poi, senza pensarci due volte, rinuncia ad essere coperto dagli alberi, si pianta nel bel mezzo del sentiero. Che i guerrieri ci provassero, ad ucciderlo, se davvero ci sono.

Ekundu non saprebbe dire come, esattamente, siano andate le cose.
Sa solo che un momento prima il sentiero era vuoto, e un momento dopo c'era il muzungu.
Adesso la cesta con le offerte è riversa a terra, la frutta che conteneva sparsa qui e lì, e Ekundu sente la paura che le annoda lo stomaco, impedendole quasi di respirare.
Il muzungu alza le mani, tenta un sorriso.
«Samahani» dice, ma Ekundu non ci crede che gli dispiace, perché resta fermo a guardarla, con quel sorriso storto dipinto in faccia che di dispiaciuto non ha nulla.
Il cuore le batte forte nel petto, il sangue le romba nelle orecchie. Decide di non rispondere, si inginocchia a terra e inizia a raccogliere i frutti caduti, con le mani che tremano. Cerca di lavorare il più velocemente possibile, di rimettere in fretta tutto a posto, di modo da poter andare via e raggiungere l'altare e tornare a casa.
Perché la verità è che Ekundu non vuole crederci. Non vuole crederci, nonostante il muzungu che la guarda con insistenza, tanto che le pare di sentire il suo sguardo incollato alla pelle, nonostante le storie di Maua. Non vuole crederci che le stia per succedere qualcosa di così brutto.

Jafar potrebbe restare a guardarla tutto il giorno. Il modo in cui trema, freme, evita il suo sguardo. Sembra un animaletto in trappola. Come tutti gli uomini, quando la paura che provano è più forte di qualsiasi altra cosa, impossibile da controllare.
Peccato che abbia un compito da portare a termine.
Silenziosamente, tira fuori dalla tasca un panno di stoffa. L'ha imbevuto poco fa di cloroformio, una novità piuttosto utile, approfittando della copertura degli alberi.
Piano, si avvicina, attento a restare al di fuori del campo visivo della principessina, ed è grato agli uccelli per il baccano che stanno facendo, perché copre il rumore dei suoi stivali sulla terra, della stoffa che si piega quando si inginocchia accanto a lei.
Veloce come un serpente, le serra la mano attorno a un polso.
Lei si gira, gli occhi grandi di paura, probabilmente si rende conto che dovrebbe urlare, chiamare aiuto, ma è troppo tardi. Il panno è già sulla sua bocca.

L'ultima cosa che ricorda, è il sorriso del muzungu che si trasforma in un ghigno.

Eccolo, il Lupo.
 

***


La legna, nella foresta, non abbonda.
I rami bassi, che si possono tagliare con l'accetta, non sono tanti, e quelli seminati per terra sono ancora meno. È per questo che devono venire anche Jaja e Yohana. Perché così Kunzi se li può caricare sulle spalle, affidare a loro l'accetta e riuscire a tagliare rami che si trovano anche a due metri da terra. O, in giornate sfortunate come questa, mandarli a cercare per conto loro in altre aree della foresta, di modo da coprire il triplo del terreno nello stesso tempo. In teoria. Perché loro padre non lo sa, ma Jaja e Yohana non si separano mai. La foresta è troppo vasta, e perdersi troppo facile, e la paura troppo grande per riuscire ad allontanarsi l'uno dall'altra più di una decina di passi. Kunzi non lo sa, perché la considererebbe mancanza di coraggio e li punirebbe entrambi. Kunzi non lo sa, e loro due si allontanano sempre abbastanza da non farglielo scoprire. Cosa che non è neanche troppo difficile, dato che passano l'intera giornata separati: a mezzogiorno mangiano i frutti che si sono portati da casa, ognuno per conto suo, e si ritrovano al confine della foresta solo poco dopo il tramonto, alla fine della giornata di lavoro, per tornare insieme al villaggio.
Oggi, in particolare, si sono dovuti allontanare dal sentiero più del previsto perché, a forza di raccoglierla, la legna, nella zona vicino casa, è finita. Hanno fatto finta di incamminarsi in direzioni diverse, per poi ricongiungersi poco più avanti, come sempre. Si tengono per mano mentre camminano, e quando finalmente iniziano a vedere ramoscelli sparsi per terra, è quasi una sofferenza doversi lasciare per poter lavorare come si deve.
La foresta è piena di grida, di messaggi che passano di albero in albero, di ombre tra i tronchi. Non importa quanto tempo ci passino ogni giorno, non smette mai di sembrare troppo grande e troppo pericolosa. Troppo tutto, a essere sinceri.
Ma questo a Kunzi non si può dirlo, così si fanno forza a vicenda e setacciano con cura il terreno, alla ricerca di rami e rametti con cui riempire le proprie ceste.
Ogni tanto Jaja canticchia una ninnananna, o una canzone che ancora ricorda dai tempi in cui c'era la mamma. Yohana pensa che lo faccia quasi senza accorgersene, come se ce l'avesse nel sangue. Non sa che in realtà le serve per cercare di coprire tutti quei rumori di cui la foresta è piena, e che sembrano non fare altro che sussurrarle minacce nelle orecchie.


***


Maua, dritta come un palo, ferma come un guerriero, guarda il confine della foresta, da cui spunta il sentiero che stamattina sua sorella ha preso.
Spera di vederla comparire da un momento all'altro, la sua figurina lontana distorta dal calore che rimbalza sul terreno, il mantello, troppo pesante con questa temperatura, slegato e poggiato su una spalla.
Ma Ekundu non arriva. Sono passate ore da quando si è allontanata, e ancora Ekundu non arriva. Certo, potrebbe essersela presa con calma. Potrebbe aver deciso di riposare, prima di riprendere il cammino. Potrebbe aver deciso tante cose, ma Maua ha percorso quello stesso sentiero abbastanza a lungo da sapere che neanche la somma di tutte quelle cose non riuscirebbe a dar conto di tutto il tempo che è stata via.
Eppure, resta con lo sguardo fisso sull'orizzonte, a dirsi che adesso spunterà dagli alberi, sorridente, e spiegherà tutto. A immaginare come la sgriderà per averla fatta preoccupare tanto, come lei si difenderà, come alla fine risolveranno tutto con una risata, un abbraccio, uno sguardo. A convincersi che deve aspettare altri cinque minuti, solo cinque minuti.
Peccato che non ci creda neanche più.
Chiude gli occhi, fa un respiro profondo e, per un attimo, la sua espressione imperturbabile si incrina.
È successo qualcosa. Lo sa e, anche se le fa paura, si costringe a crederci.
Quando posa di nuovo lo sguardo sul sentiero che dovrebbe riportare sua sorella a casa, è più che altro a mo' di commiato. Si volta, inizia a camminare verso il centro del villaggio.
È successo qualcosa, e lei non ha intenzione di restare qui a fare finta di nulla.

Quattro guerrieri forti, abili, esperti.
Maua non li ha scelti fra i più giovani, perché sa che sono quelli che più facilmente si spaventano, quelli che più facilmente sbagliano. Pensava che qualcuno di più anziano sarebbe stato più pronto in uno scontro, più capace di formulare una strategia. Pensava di trovare qualcuno da combattere.
Ha trovato una cesta, nulla di più. La cesta con cui stamattina Ekundu è uscita dalla capanna.
Era per terra, con i frutti sparsi attorno, in un cerchio disordinato.
Se ci fosse stato sangue, avrebbero capito tutti. Subito, avrebbero saputo che per la principessina non c'era più nulla da fare. Vittima di un leone, forse, o di un predatore più piccolo, anche se non se ne vedono poi tanti, così vicino al villaggio.
Ma di sangue non c'è nemmeno una goccia.
Non ci sono i segni di una lotta, non c'è nulla. C'è solo l'assenza di Ekundu, che le preme sul petto e quasi la soffoca, adesso che è qui e i suoi occhi vedono, e non può più negare, non può più mentire a se stessa.
Sembra sparita nel nulla. Come se si fosse trasformata lei stessa in uno degli spiriti a cui andava a rendere omaggio. Come fosse diventata aria.
Ma le persone non diventano aria, non scompaiono senza motivo.
Se non è opera di animale, è opera di uomo.
E Maua quasi riesce a vederlo, con la sua pelle color del fango e le sue mani delicate, che spunta dal sentiero, spaventando sua sorella, che cerca di parlarle, mentre lei con la testa bassa ricompone la cesta.
Riesce quasi a vederlo, che se la carica in spalla e la porta via.

Ovviamente, non ha prove.
Ovviamente, se lo raccontasse a suo padre, lui non la ascolterebbe mai. Gli uomini sviluppano una cecità a dir poco sorprendente, quando messi davanti a cose che non vogliono vedere.
Così, Maua non può fare altro che aspettare.
Passeggia per la capanna, mordendosi le labbra, pregando Mwari che il muzungu sia meno scaltro di quanto sembra. Perché non sarebbe certo una prova, ma se Jafar oggi non dovesse presentarsi, proprio oggi di tutti i giorni possibili, sarebbe quantomeno un indizio, un punto di partenza. Per suo padre. Per Maua sarebbe un punto d'arrivo, una conferma.
Ma a quanto pare Mwari o non l'ha sentita, o non ha potere sui muzungu, perché nella seconda metà della giornata Jafar fa il suo ingresso al villaggio, sul suo solito carro, con il suo solito sorriso finto. Maua vorrebbe gridare e saltargli addosso, costringerlo ad ammettere di aver rapito sua sorella, di averla portata chissà dove, ma stringe i pugni e si limita a schierarsi ancora una volta con i suoi guerrieri, lungo le pareti delle capanne.
Non sa se è solo una sua impressione, ma le sembra che oggi gli sguardi nei confronti del muzungu siano molto più ostili del solito. Come se non ci fosse più paura di entrare in conflitto, ora che una prima mossa è stata fatta. Persino le donne e i bambini, che quando hanno visto i guerrieri e la principessa tornare soltanto con la cesta delle offerte quasi non riuscivano a crederci, sembrano più diffidenti nei suoi confronti. E lui stesso deve essersi reso conto di non essere più il benvenuto, perché abbandona la mercanzia e si fa condurre dal re più presto del solito.
Il guerriero a cui ha chiesto non gli risponde neanche, ma si limita a indicargli la strada con una lancia. E poi, non appena scende dal carro, lo segue come un'ombra, pronto a entrare in azione al minimo passo falso. Maua li vede e, prima di correre a sua volta verso la capanna dove sta il trono di suo padre, quasi sorride.


***


All'inizio, non se ne accorgono.
Jaja continua a canticchiare, si sposta piano, ogni volta di qualche metro in più, alla ricerca di altra legna. Yohana, senza pensarci, la segue. La foresta è grande e pericolosa, sì, ma finché sono insieme va tutto bene.
Il tempo passa senza che se ne rendano conto. Oggi la raccolta non è facile, e se vogliono trovare qualcosa devono tenere gli occhi incollati al terreno, vigili. Del cielo quasi si dimenticano completamente. Mangiano quando il loro stomaco inizia a protestare, si fermano a riposare quando la schiena è stanca di piegarsi ancora.
È durante una di queste pause che succede.
Yohana sbadiglia, si stropiccia gli occhi, si guarda intorno.
«Quanto torniamo a casa?» chiede, avvicinandosi a Jaja, seduta a terra, con le gambe incrociate e la schiena dritta, nel tentativo di distenderla.
«Quando il sole scompare» risponde lei, con un sorriso, perché è quello che rispondeva sempre a lei la mamma. Che quando non si riesce più a vedere il sole oltre le cime degli alberi significa che sta iniziando a tramontare, però, l'ha dovuto capire da sola, perché a quel punto la mamma non c'era già più.
Yohana alza lo sguardo al cielo, che inizia a tingersi di rosso, e cerca il sole, senza però riuscire a trovarlo.
«Adesso, quindi?» chiede, speranzoso.
Jaja alza a sua volta gli occhi, controlla e, con un sospiro di sollievo, annuisce.
Si tira sù, raccoglie la cesta da terra e si guarda intorno, alla ricerca della direzione da percorrere.
All'inizio lo fa in modo quasi svogliato, sicura che riconoscerà subito la strada dalla quale sono venuti, ma pian piano, quando si rende conto che nessuno dei sentieri che vede le sembra familiare, inizia a dubitare.
Evidentemente, anche Yohana si deve essere reso conto che sono in territorio inesplorato, perché la prende per mano, la guarda negli occhi.
«Jaja, tu sai la strada?» domanda, e dal suo tono Jaja sa che ha già capito quale sia la risposta.
Controlla di nuovo, e stavolta gli occhi esaminano ogni dettaglio, ogni particolare che potrebbe farle scattare qualcosa nella memoria. Ma sono passate ore da quando sono arrivati qui, e non è che siano stati particolarmente attenti al cammino percorso.
Stringe la presa sulla mano del fratellino, fa un respiro profondo.
«Adesso la troviamo insieme» gli dice, perché non ce la fa a mentirgli.
E, siccome ha sempre avuto più paura di rimanere ferma che di muoversi, sceglie la direzione che sembra più familiare e si mette in cammino.


***


Maua vorrebbe strozzare suo padre. O il muzungu. Al momento non è sicura di chi lo meriti di più.
Suo padre, certo, si lascia abbindolare dalle parole scelte con cura del muzungu, le raccoglie e le ripone una ad una, come fossero pietre preziose, ma anche il muzungu, viscido ipocrita che si permette di consolare il re quando è lui stesso la causa della sua tristezza, non è da meno.
Forse, potrebbe strozzarli tutti e due, e basta. Qualsiasi cosa pur di mettere fine allo strazio che è la loro conversazione.
«Sono sicuro, mfalme, che la ritroverete» dice in Swahili il muzungu, cercando di dare un suono aggraziato alle poche parole che conosce «Se è intelligente come voi, cercherà di darvi qualche indizio»
Maua fa un respiro profondo, costringe la rabbia che le ruggisce nel petto a stare zitta e buona ancora un po', a non esplodere proprio adesso. Vuole vedere fin dove arrivano.
«È una consolazione avere un amico come voi» risponde il re, con la voce che sembra un soffio e la testa sepolta fra le mani. E a Maua viene voglia di andare lì, scuotere quel burattino che è diventato suo padre, e gridargli che quello non è un amico, ma l'uomo che ha rapito sua figlia, e che se non si sbriga a rendersi conto di questa cosa e ad agire conseguenza, allora sì che ci sarà da piangerla.
Eppure, chissà come, riesce a mordersi la lingua e ad impedirsi di intervenire, si limita a guardarli ancora, con occhi di fuoco, dal fondo della capanna.
Sta aspettando che Jafar si lasci sfuggire qualcosa. Non importa quanto piccola, non importa quanto nascosta. Non sa bene cosa sta cercando, se un'ammissione di colpa o un riferimento troppo preciso ad Ekundu, ma tiene le orecchie bene aperte. Anche se, dopo aver assistito al modo in cui riesce a rifilare complimenti su complimenti senza mai dire qualcosa di veramente sostanzioso, Maua inizia a perdere le speranze. Sembra che lo faccia per mestiere, questo adulare e aggirare e rendersi insospettabile. Probabilmente è davvero così. Ma che mondo misero deve essere, quello dei muzungu, per avere bisogno di persone che facciano un lavoro del genere.


***


La foresta si fa più scura, i sentieri più nascosti.
Jaja continua a far finta di sapere dove sta andando, ma ormai si è resa conto di essersi persa una volta per tutte. E deve averlo capito anche Yohana, perché non fa altro che lanciarle delle occhiate piene di dubbio.
Jaja alza lo sguardo, e si sente morire quando si rende conto che ormai il cielo è completamente rosso. Tra poco sarà notte.
Yohana stringe la presa sulla sua mano, la chiama con una vocina debole.
«Jaja?»
«Dimmi» risponde lei, e intanto si chiede se si siano mai persi in modo tanto clamoroso, e come sia stato possibile. Prega Mwari di riuscire a ritrovare la strada di casa prima che faccia buio, perché di notte la foresta non è posto per gli uomini, e chiede alla mamma di vegliare su di loro, lei che adesso è con gli spiriti.
«Jaja, ho paura»
Jaja si volta a guardarlo, tenta di sorridergli, ma non gli risponde.
Se lo facesse, riuscirebbe soltanto a dirgli che fa bene ad averla.


***


«Kibibi» il guerriero le porge un inchino affrettato, parla a bassa voce per non disturbare il re e il muzungu, la cui conversazione non è ancora finita «Kibibi, Kunzi il taglialegna vuole parlarvi»
Maua annuisce, cerca di non mostrare quanto questa interruzione le dia noia.
«Abbiamo cercato di dirgli che eravate impegnata, ma ha continuato a insistere che si trattava di una cosa importante»
La principessa sospira, e per un attimo le viene voglia di mandare indietro questo guerriero con il messaggio che è troppo impegnata per parlare con chiunque. E poi scuote la testa, perché sa che non lo farebbe mai, che non è quello il modo giusto di regnare. Così, fa segno al guerriero di precederla, e lo segue fuori dalla capanna.
Prima di uscire, lancia un ultimo sguardo a suo padre e prega che non faccia qualche stupidaggine proprio quando lei non è qui a controllarlo. Ha imparato da tempo, ormai, che il dolore rende suo padre incapace di rapportarsi coerentemente con il resto del mondo. Non è un caso che sia cresciuta così in fretta.

Kunzi il taglialegna la aspetta a poca distanza dalla capanna, con lo sguardo a terra e la fronte corrucciata. Non appena la sente arrivare, solleva la testa, si assicura che sia lei, e la abbassa nuovamente in un inchino.
«Volevate parlarmi?»
Prega che non si noti, ma già inizia a sperare che sia una cosa veloce, a lanciare occhiate alla capanna reale. Non si fida, né del muzungu, né di suo padre.
«Sì, Kibibi» risponde lui, stavolta guardandola in faccia «Si tratta dei miei figli»
Maua annuisce, gli fa cenno di andare avanti.
«Erano con me nella foresta, stamattina» dice «Ci siamo separati per raccogliere più legna possibile, come ogni mattina, ma stasera non si sono fatti vedere al nostro solito punto d'incontro. Li ho cercati, ma è come se fossero spariti»
E, improvvisamente, Maua è interessata.

Chiede all'uomo di raccontarle tutto dall'inizio, senza lasciare fuori neanche il più piccolo particolare. Lui annuisce, ricomincia daccapo.
Le dice che ogni mattina lui e i suoi figli si dividono, nella foresta, perché in questo modo possono coprire più terreno. Le dice che ormai sono anni che lo fanno, e che sanno quando smettere di allontanarsi, e che non si erano mai persi prima. Le dice che si incontrano sempre al tramonto, sempre all'inizio del sentiero che porta al villaggio, e che oggi non si sono fatti vedere. Le dice che li ha cercati, si è messo in cammino nella stessa direzione nella quale si erano allontanati loro quella mattina, ma non ha trovato nulla. Le dice che vuole solo qualche guerriero che lo aiuti a cercare, perché ormai il sole è tramontato e tra poco farà buio e lasciarli lì di notte equivarrebbe a perderli.
A Maua sembra che parli dei suoi figli come bestie da lavoro, ma al momento è troppo presa dalla propria folle teoria per potersi concentrare su dettagli come quello. Perché anche se avesse mai creduto nelle coincidenze, tre bambini scomparsi misteriosamente in una sola giornata, nello stesso luogo, sarebbe stato veramente troppo.

Prima di tornare nella capanna, Maua chiama quattro guerrieri, dice loro di aiutare Kunzi nelle sue ricerche.
«Grazie infinitamente, Kibibi» le dice lui, con un inchino.
Lei gli dice di non preoccuparsi, e di affrettarsi a tornare nella foresta, perché ormai alla notte manca veramente poco. Lui annuisce, si volta, porta con sé i guerrieri.
Quando sono abbastanza lontani, Maua si nasconde tra le ombre create dalle capanne, e aspetta.
Vorrebbe poter tornare indietro, dire a suo padre di non preoccuparsi se non la vede tornare per cena, di non mandare nessuno a cercarla, ma ormai è troppo tardi.
Le resta solo da sperare che, immerso nel dolore com'è, non se ne accorga.

 

 

 

🌑

NOTTE

 

 

 

Cala la notte.
Jaja riesce a stento a capire dove stanno andando, tiene le mani dritte davanti a sé, alla ricerca di ostacoli invisibili. Intravede le sagome degli alberi, dei cespugli, ma poco più. Di occhi ancora non ne ha visti, ed è una delle poche cose che la rincuorano.
C'è silenzio, attorno a loro, ed è una delle molte cose che la tormentano. Perché con tutto il rumore che stanno facendo, ci mancava solo che non ci fosse nessuno a coprirli.
Yohana si tiene stretto alla sua mano, sembra ce l'abbiano legato. E anche se Jaja inizia a sentire le dita che si stancano di quella costante tensione, dopo ore e ore di contatto costante, non toglie a suo fratello quell'unica sicurezza rimasta. Un po' perché sa che per lui è un'ancora di salvezza, un po' perché lei stessa si sentirebbe persa se non avesse la certezza di averlo sempre al proprio fianco.
Camminano senza meta, alla ricerca di una luce, di un fuoco, di una capanna, di una presenza umana qualsiasi. Non importa più tornare al villaggio, adesso basta trovare un posto sicuro per dormire, un posto dove ci sia qualcuno che, domattina, possa dire loro come fare a tornare.
Il buio si fa sempre più fitto, le ombre sempre più dense. E al contrario di quanto avesse mai potuto pensare, quando la foresta inizia a riempirsi di suoni è ancora peggio. Scimmie, uccelli, predatori. Jaja non fa altro che voltarsi di scatto, assalita dalla paura di ritrovarseli alle spalle.

È Yohana a vederla per primo, forse perché ormai Jaja ha perso le speranze.
«Jaja» la chiama, tirandola per un braccio «Jaja, guarda»
Le ci vuole tutta la forza di volontà che le è rimasta per smettere di concentrarsi su tutto quello che sembra accadere loro attorno, sulle voci e sulle ombre, e dedicare invece la sua attenzione a ciò che Yohana le sta indicando, qualsiasi cosa sia.
Avvicina la testa a quella di suo fratello, segue la linea immaginaria tracciata dal suo ditino, e all'inizio non capisce. Non vede nulla.
Poi si sposta di poco, cerca una nuova angolazione, e finalmente la trova.
Una luce. Piccola, lontana, ma pur sempre una luce.
Stringe la presa sulla mano di suo fratello, e comincia a correre.
 

***
 

Quando finalmente il muzungu esce dalla capanna, Maua per poco non si lascia sfuggire un sospiro di sollievo. Stare accucciata e immobile iniziava a stancarla.
Osserva il muzungu che si si dirige verso il suo carro, e si dà della stupida. Sarebbe potuta salire lì sopra e fare tutto il viaggio in tranquillità, anziché seguirlo a piedi. Per un attimo le viene voglia di provare a salire adesso, nonostante il muzungu sia vicino, sfruttando la copertura della notte che si fa sempre più vicina, ma si trattiene. Verrebbe scoperta di sicuro. E a quel punto non sarebbe di grande aiuto a Ekundu.
Sta ancora riflettendo sulla faccenda quando il carro si mette in moto, con un'abbondanza di schiocchi di frusta, per convincere i muli a partire.
Maua lo lascia andare avanti di dieci, cinquanta, cento passi, poi inizia a seguirlo, saltando di ombra in ombra, grata della propria pelle scura, che si mischia perfettamente con la notte.
Spera solo che il muzungu abbia del fuoco, perché la foresta, quando non c'è luce, non è certo un bel posto.
 

***
 

Colpi leggeri sulla parete della capanna.
Strano, a quest'ora.
Kizee, la Strega, solleva lo sguardo dalla mistura di polveri che stava creando, per posarlo sul semplice telo che la separa dal mondo esterno. Piega la testa di lato, come un uccello, e resta in ascolto.
Colpi, di nuovo.
Strano. Molto strano.
«Chi è?» chiede, con la voce roca di chi non è abituato a parlare molto.
Dall'altro lato del telo, silenzio.
Sta per chiedere di nuovo, quando finalmente si fa sentire una voce.
«Io e mio fratello ci siamo persi!» dice una vocina femminile, che trema quasi «Cerchiamo ospitalità per la notte!»
Sono bambini.
Kizee sorride. Solo con un angolo della bocca, però, e di un sorriso che invece che rassicurare terrorizza.
Non a caso lo fa sparire, sostituendolo con uno molto più falso, ma anche molto più accogliente, prima di rispondere «Oh, poveri cari! Entrate pure, entrate pure!»
Il telo viene scostato da una manina tremolante, e piano piano due visi si delineano nel chiarore della torcia che illumina l'interno della capanna.
«Venite, venite!» li invita, spostando frettolosamente di lato i contenitori con le sue polveri magiche, per fare spazio anche a loro sul terreno.
Esitando, guardandosi a vicenda e chiedendosi silenziosamente se questa sia veramente la soluzione migliore, i due bambini si decidono finalmente ad entrare. E Kizee quasi scoppia di gioia, perché non solo sono bambini, ma sono addirittura del villaggio.
 

***
 

Guida i muli attraverso gli alberi, passando per i tratti dove sono meno fitti, ma senza seguire un percorso tracciato. Eppure, sembra sicuro del fatto suo. Sembra sapere esattamente dove stiano andando.
Maua controlla sugli alberi, alla ricerca di segni distintivi, di un qualche trucco che possa spiegare tutta questa tranquillità, ma non ne trova. Si dice che il muzungu deve avere un vista più acuta della sua, che se non riesce a comprendere è solo colpa del buio, che nasconde tutto con un velo nero.
Se solo potesse scorgere attraverso le persone e le cose, vedrebbe che in mano il muzungu stringe una piccola scatolina tonda, che gli indica la direzione da seguire. Se solo potesse vedere attraverso le persone e le cose, forse non penserebbe che si tratti di magia. O forse ne sarebbe ancora più spaventata.
 
 

***
 

«Kizee?» domanda la maggiore, riconoscendola «Siamo tornati al villaggio?»
Entrambi sono increduli, non pare loro vero di essere riusciti a trovare la strada di casa, e Kizee si rende conto che se non vuole perdere queste due prede deve assolutamente trovare un modo per distruggere il loro entusiasmo.
«Oh» dice, come si fosse improvvisamente ricordata di qualcosa «Voi dovete essere i bambini che si sono persi nella foresta»
Li vede che si guardano, sa di aver colpito nel segno. E la cosa migliore è che non deve neanche mentire. Le basterà modificare leggermente la realtà.
«Come fai a saperlo?» chiede il più piccolo, quasi senza fiato. Ha gli occhi grandi, neri, così profondi che se non fosse una strega avrebbe paura di esserne risucchiata.
«Oh, vostro padre era furioso» scuote la testa Kizee, facendo tintinnare le perline intrecciate nei suoi capelli. È l'unica delle donne del villaggio a portarli lunghi. È l'unica a non dover lavorare.
«Ha setacciato la foresta da solo quasi fino a notte, e quando la principessa gli ha offerto di mandare i suoi guerrieri lui ha risposto che non valeva la pena. Che erano state sprecate già troppe energie dietro a due inutili marmocchi»
Falso. Quando non li aveva trovati, loro padre aveva iniziato a preoccuparsi sul serio. Fosse anche solo perché aveva perso quattro braccia, utili per il lavoro. Aveva chiesto aiuto alla principessa. Al momento quattro guerrieri erano nella foresta a cercarli, nonostante il buio. Ma questo i bambini non potevano saperlo. Come i guerrieri non potevano sapere di star cercando nel posto sbagliato.
«Non possiamo tornare a casa» sussurra la bimba, più a se stessa che al fratello «Ci ucciderebbe»
 

***
 

La foresta è piena di suoni.
Ululati, grida, scalpiccii.
Maua si ritrova a voltare continuamente la testa, indecisa se dedicare più attenzione al muzungu o alle mille creature che potrebbero saltare fuori dai cespugli da un momento all'altro, possibilmente per attaccarla.
Si maledice per non aver portato con sé il mantello, quando l'aria inizia a farsi fredda. L'ha piegato, nascosto sotto le ceste di un magazzino. Ha pensato che sarebbe stata troppo facilmente riconoscibile con una stoffa così luminosa addosso. Ma adesso inizia a sentire freddo, e non sa bene come combatterlo, con addosso solo il perizoma scuro e le sue mille collane. E poi chissà che penserebbero i guerrieri, se dovessero trovarlo.
Fa un respiro profondo, si impone di mantenere la calma.
Lascia perdere il mantello, si concentra sul rumore che fa la foresta attorno a lei, sulla direzione che prende il carro del muzungu, ormai difficile da individuare in mezzo al buio denso che è calato.
Prega Mwari di riuscire a trovare Ekundu, di riuscire a portarla a casa.
E poi, se proprio la volesse vedere morta, morirebbe felice.
 

***
 

Kizee ride.
Una risata roca, che cerca di spezzare la tensione. Non sa se ci riesce.
In compenso, però, ora entrambi i piccoli hanno lo sguardo puntato su di lei.
Le chiedono di spiegarsi.
«Esagerata!» dice allora, alzando gli occhi al cielo «Sarebbe furioso, certo. Ma non credo vi ucciderebbe»
La bambina stringe le mani a pugno, sta cercando di non piangere.
Kizee trattiene un sorriso soddisfatto, ma non riesce a impedirsi di guardarla con occhi famelici.
Bene, bene. Adesso è il momento di offrire loro una soluzione.
«Basterebbe lasciarlo sbollire un po', non farsi vedere fino a domattina...» suggerisce, guardandosi le unghie lunghe e sporche, fingendosi completamente disinteressata «A quel punto non credo avrebbe altrettanta voglia di punirvi»
Nella capanna cala il silenzio. Stanno valutando l'ipotesi.
Manca poco, manca poco. Brava Kizee, che sai come prendere la gente. Brava Kizee, quando si tratta di prenderla in giro.
«Dove dormiremmo?»
La strega sorride soddisfatta, come un cacciatore che vede finalmente la sua trappola entrare in azione.
«Oh, qui! È ovvio!»
L'esca è pronta. Sta alla preda decidere se prenderla o meno.
Cala il silenzio.
La bambina stringe la mano di suo fratello, lo guarda.
Parlano in un linguaggio segreto fatto di occhiate, che solo loro conoscono.
Poi si volta, fa un respiro profondo.
Annuisce.
La trappola è scattata.
 

***
 

Maua non lo vede.
Il carro del muzungu dev'essere da qualche parte davanti a lei, perché ne sente ancora il rumore, ma non riesce più a distinguerlo.
Aguzza la vista, cerca disperatamente di intravederne la sagoma che si staglia tra le piante, ma fallisce. Vede solo buio, tutto attorno a sé. E forse, a questo punto, anche dentro di sé.
Cerca di orientarsi affidandosi solo alle proprie orecchie, cercando di capire da quale direzione provenga il suono del carro, ma poi anche quello svanisce. La lascia sola con le grida della foresta, e Maua si sente morire.
Mwari non darmi in pasto alle belve.
Si guarda attorno come un'antilope circondata da leoni, cerca disperatamente di ritrovare la lucidità, ma continua a scivolare giù, giù, in un abisso di terrore che non finisce più.
Mwari non farmi morire così.
Un grido, un fruscio, ogni cosa è minaccia, ogni cosa è pericolo.
Ha gli occhi grandi di paura, Maua, e se la Luna potesse specchiarvisi avrebbe fin troppo spazio.
Mwari ti prego ti prego solo il tempo di trovare Ekundu.
Una fiamma, a cento, duecento passi di distanza.
Illumina a malapena i contorni del carro, ma è quanto basta.
Per poco non le cedono le ginocchia, e vorrebbe gettarsi a terra e piangere e ringraziare Mwari per la grazia che le ha concesso.
Un'arma potente che allontana le bestie.
Un'insegna luminosa che le indica il cammino.
Una magia di cui non ha neanche la forza di chiedersi l'origine.
 

***
 

I bambini dormono.
Non è stato difficile convincerli a mangiare qualcosa, digiuni com'erano dalla mattina. È stato ancora meno difficile far cadere qualche granello nero in ciascuno dei loro piatti. Nulla di permanente, sia chiaro. Giusto una cosetta per stimolare il sonno, nulla di più.
Kizee li guarda soddisfatta, li punzecchia leggermente con il suo lungo bastone. Il piccolo si gira, sbadiglia, ma non da cenno di volersi svegliare. La maggiore non se ne è neanche accorta.
Sorride, Kizee, con un ghigno più spaventoso di prima.
Peccato che non sia finita qui. Altrimenti, sarebbe stato un gioco da ragazzi.
 

***
 

Maua inizia a sperare che la loro meta sia vicina.
Adesso il buio è impenetrabile, e riesce a distinguere le forme solo grazie alla luce lontana del muzungu.
Senza fuoco, senza armi, la principessa è una preda facile. E le pare quasi di riuscire a sentire l'odore acre della sua stessa paura.
Hanno camminato tanto. Non saprebbe dire quanto, ma ha scoperto che il muzungu non vive poi così vicino al villaggio.
La foresta è piena di rumori, richiami, grida. Si guarda costantemente le spalle, poi si volta di scatto, ha paura di perdere di vista il suo unico punto di riferimento.
Inizia a pensare che, se anche dovesse arrivare all'accampamento del muzungu, non riuscirebbe mai a tornare indietro.
 

***
 

Caricarli sul carretto che le ha dato il muzungu non è facile. Pesano, e lei è vecchia. Troppo vecchia per fare queste cose, senza dubbio.
Piano, uno alla volta, stando attenta a non essere troppo brusca, anche se sarebbe molto più facile trattarli come sacchi di miglio, li sistema uno accanto all'altra. Dormono ancora, con i volti distesi e le bocche semiaperte, tranquilli e fiduciosi come solo i bambini possono essere. Peggio per loro.
Kizee scosta di lato la tenda, si affaccia fuori della propria capanna, si assicura che non ci sia nessuno fuori.
Il villaggio, sotto la luce della luna, sembra essere deserto. E Kizee ringrazia Mwari che la terra qui sia abbastanza chiara da permetterle di vedere nonostante il buio, perché altrimenti non farebbe altro che mettere i piedi in fallo.
Silenziosa, costretta a procedere lentamente e a guardarsi costantemente intorno, si avvia verso il confine lontano della foresta, quello quasi opposto al villaggio. Le hanno detto che sarebbe dovuta andare lì quando avesse avuto qualcosa da depositare. Le hanno detto che da oggi si aprivano le danze. Le hanno detto e lei ha ascoltato, in attesa del momento migliore. Che poi questo momento sia arrivato così in fretta non fa altro che dimostrare che gli dei la favoriscono. Anche loro si sono resi conto dei suoi talenti. E presto anche i muzungu dovranno riconoscerli.

Quando arriva, per un attimo solo si ritrova ad esitare.
Di notte nella foresta non ci ha mai messo piede, e forse questo non è il momento migliore per iniziare.
Così, spinge il carretto oltre la linea di alberi che segna il confine con quel mondo che, al villaggio, nessuno conosce veramente bene, e aspetta.
Non deve aspettare molto.
Veloce come una scimmia, una figura si cala giù da un albero, atterra accanto al carretto. Si carica i bambini in spalla come fossero foglie. Ha la pelle nera come la notte, e Kizee sta per fermarlo, per dirgli che deve esserci stato un errore, quando lui si volta. La guarda negli occhi, annuisce una volta sola, e poi sparisce nel buio.
Kizee resta ferma, con gli occhi persi nella foresta, a chiedersi se davvero era un cerchio di ferro quello al suo collo.
 

***
 

Quando finalmente si apre una radura davanti a loro, Maua sente le gambe che le cedono.
Vorrebbe baciare la terra e ringraziare il cielo. Ha perso il conto delle volte in cui ha avuto paura di morire.
Resta nascosta tra gli alberi, provata ma non ancora dimentica del suo obiettivo, e guarda silenziosa.
Al centro della radura c'è un grande fuoco, che illumina gli uomini sedutivi attorno. Tre volti, affilati e pieni di ombre, dello stesso colore di quello del muzungu, il colore del fango secco.
Ci sono capanne di tela, tre o quattro, sparse nella radura. Accanto a ciascuna di esse c'è una pila di oggetti, troppo lontana dal fuoco per poterne distinguere più della sagoma.
In fondo, nell'ombra, si stende una massa nera. Sassi, forse, o animali stesi a riposare, altre provviste. È poco più di una macchia dai contorni sfocati, e Maua rinuncia a comprendere di che cosa si tratti.
Gli uomini ridono, scherzano, passano di mano in mano una fiaschetta che deve contenere qualcosa di simile al pombe, perché nessuno di loro sembra particolarmente lucido. Jafar si siede accanto a loro, si inserisce in quella conversazione fatta di suoni aspri, che sembrano coltellate.
Non sa tra quanto si stancheranno, quando finalmente cederanno al sonno, ma adesso Maua ha gli occhi aperti, il corpo pronto a scattare. È abbastanza vicina al fuoco da non doversi preoccupare di essere attaccata, e le forze che la paura le aveva tolto sembrano esserle improvvisamente state restituite. Sente il sangue che le scorre nelle vene, le romba nelle orecchie.
Non ha la minima idea di che cosa aspettarsi, ma non è mai stata più pronta in vita sua.
 

***
 

«Mchawi, tu che ne pensi?»
«Ah, da qui non riesco a vederla bene»
«Eh?»
«Non so dirti se sia bella o meno, non la vedo»
«Intendevo: cosa pensi che ci faccia qui?»
«A occhio e croce, esattamente quello che stiamo facendo noi»
«Come fai a dirlo?»
«Avete la stessa luce negli occhi»
 

***
 

Non succede niente.
Maua non sa dire quanto tempo sia passato da quando è arrivata, ma sa che le sembra un'eternità. Gli uomini chiacchierano, bevono, ridono. Nulla si muove, nell'accampamento, a parte loro. E l'attesa, apparentemente infinita, inizia a darle sui nervi, già tesi.
Cerca di concentrarsi sui muzungu riuniti attorno al fuoco, di capire qualcosa dalle loro espressioni, di captare qualche parola che conosce, che è la stessa anche nella sua lingua, ma dopo un po' la sua mente inizia a vagare, un po' perché dei loro dialoghi non capisce veramente nulla, un po' perché dal tono non le pare stiano dicendo cose particolarmente importanti. Allora sposta l'attenzione sulle pile di oggetti accanto alle tende, vede strane ceste rettangolari fatte di pelle rigida, ciotole e posate di metallo, teli e coperte di ogni tipo, affastellati in montagne disordinate, pronte a crollare da un momento all'altro. E quando anche questo la stanca, cerca di capire cosa ci sia lì, in fondo, dall'altro lato della radura. Fa ipotesi su quella massa scura e informe che non le dà pace da quando vi ha posato sopra gli occhi per la prima volta, e non riesce mai a trovare una risposta soddisfacente. Potrebbe essere mercanzia, potrebbero essere animali, potrebbero essere altre vettovaglie. Il problema è che ci sono troppe cose che potrebbe essere, e nessuna di queste sembra quella giusta.
Così, Maua si limita a fare del suo meglio per tenere occhi e orecchie bene aperti, concentrandosi un po' sulla foresta alle sue spalle, che ogni tanto la richiama con fruscii e rami che si spezzano, e un po' su quella che ha di fronte, alla ricerca di una possibile minaccia. Deve star esagerando, però, perché ad un certo punto le pare di vedere due occhi che la fissano, lì tra gli alberi, illuminati per caso da un guizzo della fiamma. Chiude le palpebre, si passa una mano sul viso. Quando guarda di nuovo, non c'é più nulla. Si dice che deve esserselo sognato e sta per tornare alla sua ispezione dell'accampamento – ormai è piuttosto sicura che tengano Ekundu in una tenda, altrimenti sarebbe già riuscita a individuarla – quando il chiacchiericcio degli uomini, improvvisamente, si interrompe.
Maua, attenta a non far rumore, segue i loro sguardi, cerca di capire cosa sia successo. Tra gli alberi, a stento, riesce a vedere un uomo, nero, anche più di lei, con un collare di ferro al collo. Parla la lingua dei muzungu, si trascina dietro un carretto. Lo indica mentre parla, lo spinge più vicino al fuoco, in modo che tutti possano vedere.
E, finalmente, anche Maua ha la visuale libera. Vede il carretto, due corpicini scuri accoccolati uno accanto all'altro. Vede i muzungu che ridono, si congratulano con l'uomo che li ha portati. Hanno dei ghigni da iene, tutti quanti, e di nuovo Maua si sente assalire dalla paura di essere attaccata, la paura della preda che sa di essere in svantaggio.
L'uomo si carica in spalla i due piccoli, si dirige verso la massa nera con due dei muzungu. Rumore metallico, ferro contro ferro. E allora Maua capisce. Capisce che quella massa sono persone, e che il ferro serve per legarli. Capisce che quei due bambini sono appena stati fatti schiavi, e che a sua sorella è toccata la stessa sorte.
Capisce di aver avuto sempre ragione e, allo stesso tempo, di non averla mai avuta fino in fondo.
Perché ammassato lì ci sarà un centinaio di persone. E Maua una cosa del genere non l'aveva mai neanche sognata.
 

***
 

«Per Mwari, quella rovina tutto»
«Come?»
«Come sta facendo adesso»
 

***
 

Ad aspettare, Maua non ce la fa più. Non dopo aver visto quei due bambini, non dopo essersi resa conto che quell'uomo, nero anche più di lei, lavora per i muzungu. Non sa se siano proprio quelli i due figli di Kunzi, ma sa che sono qui, da qualche parte, insieme a sua sorella Ekundu. E sa che deve portarli via tutti e tre, prima che sia troppo tardi.
Per gli altri non c'è molto che possa fare. Insomma, sono troppi per poterli liberare tutti prima dell'alba, troppi per farli scappare senza che i muzungu se ne accorgano. Arriverà qualcun altro a salvarli, si dice. E sa di essersi appena rifilata la più grande bugia del secolo, ma è l'unico modo che ha per non sentirsi uno schifo. Traditrice ed egoista quanto l'uomo che ha portato i due bambini all'accampamento.
 

I muzungu iniziano a dirigersi verso le proprie tende, lasciano solo un uomo a fare la guardia, con uno strano bastone nero al suo fianco. Maua si aggrappa al tronco di un albero, si costringe a restare ferma ancora un po', giusto il tempo di far chiudere gli occhi a tutti quanti.
Poi, silenziosa come una leonessa, inizia a fare il giro della radura, restando sempre nell'ombra impenetrabile creata dai rami e dalle foglie, fino a ritrovarsi fuori dal campo visivo di quell'unica guardia.
Si azzarda a fare un passo, uno solo, all'interno dell'accampamento, per vedere che reazioni possa suscitare.
E due secondi dopo si ritrova catapultata a terra, di nuovo in mezzo agli alberi, schiacciata da qualcosa che è quasi, ma non del tutto, dannatamente simile a un essere umano.
 

***
 

«Mchawi, lasciala andare, su»
Imana si avvicina lentamente, cerca di non fare rumore. Una parola, con tutti questi cespugli pronti a tendergli un trabocchetto.
«Non posso, è pericolosa»
Imana alza gli occhi al cielo, cerca a tentoni il corpo dell'amico e, quando finalmente riesce a trovare uno dei suoi enormi piedi, usa tutta la forza che ha per cercare di farlo rotolare lontano. Sorprendentemente, ci riesce. Peccato che, con lui, rotoli anche la ragazza sulla quale si rifiuta di allentare la presa.
Un grugnito di scontento, qualche gomitata bene assestata e la ragazza riesce a liberarsi. Scatta in piedi e, senza neanche guardarsi intorno, si prepara a scappare via.
Imana allunga un braccio, riesce ad afferrarle un polso, la blocca.
Quella si volta, lo guarda negli occhi, riesce quasi a fargli paura.
«Lasciami andare» sibila.
«Ugh, sei tutta uno spigolo, ragazza mia» si lamenta Mchawi, rialzandosi a fatica «Dobbiamo decisamente mettere un po' di carne su quelle ossa»
Lo sguardo assassino della giovane si sposta su di lui, e Imana ne approfitta per rafforzare la presa. È solo una ragazza, si dice. Solo una ragazza.
«Cosa volete da me?» quasi ruggisce lei.
Solo. Una. Ragazza.
Imana non riesce a trovare la voce.
«Oh, niente» lo salva Mchawi «La domanda è cosa vuoi tu da loro»
Punta un pollice grande e scuro verso la radura alle loro spalle.
«Perché sono piuttosto sicuro che questo sia il tuo giorno fortunato»

Maua non sa bene se scappare, mettersi ad urlare, o tirare fuori gli artigli e fare fuori questi due. A essere sinceri, vorrebbe fare tutte e tre le cose contemporaneamente. Anche se non saprebbe in che direzione correre. E le grida attirerebbero l'attenzione dei muzungu. E il tizio che le si è gettato addosso è decisamente troppo... imponente, ecco, per essere messo fuori gioco con qualche calcio ben assestato.
Così resta ferma a osservarli, le braccia incrociate sul petto, le sopracciglia aggrottate e il cervello che fuma.
Sembrano usciti da una storia, tanto sono incredibili. Il ragazzo che si chiama Imana, almeno da quanto ha sentito, deve avere più o meno la sua età. È poco più alto di lei, magro e asciutto. Non è un guerriero, poco ma sicuro, ma ha le mani veloci e gli occhi attenti di chi è abituato a guardarsi le spalle.
L'altro, Mchawi, ha le dimensioni di un ippopotamo. È più alto del ragazzo di una testa intera, continua a sorriderle in modo inquietante, come se stesse per fare un regalo inimitabile. Ha dei bracciali d'oro ai polsi e alle caviglie, un accenno di barba sul mento. Qualcosa le dice che, tra i due, è quello in grado di fare più danni, fosse anche solo per la stazza, e tiene gli occhi puntati su di lui.
«Ve lo chiedo di nuovo» dice, cercando di far capire a entrambi che non ha intenzione di farsi prendere in giro «Cosa volete da me?»
Mchawi si passa una mano sugli occhi e sospira, come un insegnante davanti al suo alunno peggiore.
«Senti bellezza» le dice, guardandola dritto negli occhi «Siamo qui per fare un lavoretto. Da come ti guardi attorno direi che anche tu sei qui per lo stesso motivo. O ti unisci a noi, o stai buona e ci lasci fare»
A queste parole la schiena di Maua si irrigidisce, solleva il mento, cercando di stare più eretta di quanto non sia già, e sta per dire a quell'omone di chiedersi con chi sta parlando prima di aprire bocca, ma si morde la lingua e si costringe a tacere.
Pensa, prima di parlare. Una delle poche lezioni impartitele da suo padre che ricorda chiaramente, e che si sforza di applicare. Pensa, Maua.
«Che tipo di... lavoretto?» chiede, sempre con lo sguardo puntato sul più grosso dei due, convinta ormai che l'altro sia muto, o qualcosa di simile. Non ha ancora spiccicato parola. Si limita a guardarla e ad abbassare lo sguardo ogni volta che lei, con la coda dell'occhio, lo coglie in flagrante.
«Ah, ne abbiamo beccata una dura di comprendonio» dice lui, rivolto all'amico, e Maua, anche se solo per un attimo, riconsidera la possibilità di attaccarlo a pugni e calci e farlo gridare di dolore.
«Mettiamola così: noi cerchiamo suo fratello» si affretta ad aggiungere lui subito dopo, forse perché ha notato la luce assassina nei suoi occhi, forse perché non vuole perdere tempo «Tu chi cerchi?»
Maua resta in silenzio ancora per un attimo, li studia da capo a piedi, cerca di capire se può davvero fidarsi. Pensa, ma velocemente, perché non sa quanto ancora durerà questa quiete, quanto tempo abbia ancora a disposizione. Pensa, e decide che gli ippopotami e i muti, di solito, non sono troppo furbi.
«Mia sorella» risponde quindi. Poi fa un respiro, smette di pensare, perché la testa rischia di scoppiarle, e decide che collaborare non significa necessariamente fidarsi.
«Cosa avete dalla vostra?» chiede.
Il sorriso di Mchawi, illuminato dalle fiamme del falò dei muzungu, si fa ancora più inquietante.
«Fenomenali poteri cosmici»

C'è qualcosa di magico nel rapporto che si stabilisce tra persone disperate con lo stesso obiettivo.
Mchawi di magia se ne intende, eppure non riesce a non stupirsi quando vede la facilità con cui la ragazza si dimostra pronta ad ascoltarlo, non appena si rende conto di aver trovato un alleato. La gente è qualcosa di meraviglioso. L'ha sempre pensato. Dopotutto, ci deve essere stato un motivo se ha scelto di prolungare indefinitamente il suo soggiorni su questa terra. Oltre alla mera soddisfazione del mettersi alla prova e sconfiggere ancora una volta persino se stesso, s'intende.
«Qual è il piano?» domanda la giovane, i piedi saldamente piantati a terra e le mani sui fianchi. Tiene la schiena dritta e la testa alta, assomiglia a un albero, sfida chiunque le si pari davanti ad abbatterla, sicura che fallirà. Mchawi si morde le labbra e trattiene un sorriso. Sui fenomenali poteri cosmici non ha chiesto nulla. Meglio così. Lui adora fare sorprese.
«Un piano?» chiede, alzando le sopracciglia e grattandosi la testa. Tutto pur di non scoppiarle a ridere in faccia. Si rende conto che non sarebbe una mossa troppo furba.
La ragazza lo guarda, a sua volta stupita.
«Non avete un piano?» domanda, e la sua postura diventa ancora più rigida, torna l'ostilità iniziale.
«No» risponde Mchawi, più perché si rende conto che se mentisse verrebbe fatto a brandelli che perché abbia effettivamente dei saldi principi morali.
«No?»
«No»
«Non avete un piano.»
Mchawi sospira. Se potesse le griderebbe nell'orecchio che no, non hanno un piano, giusto per assicurarsi che capisca una volta per tutte, ma si limita a schioccare le dita. Tanto prima o poi deve scoprirlo, no?
Sul torso di Imana spunta improvvisamente una grande scritta bianca, che riflette e moltiplica i raggi della luna. Fa a paio con quella che è comparsa sul suo stesso petto, e recita «Questi due non hanno un piano». Adesso dovrebbe essere chiaro.
La ragazza sgrana gli occhi, quasi grida per la paura. La sua posa rigida e convinta si sgretola mentre indietreggia, fino a scontrarsi con il tronco di un albero. Boccheggia, non si sa bene se alla ricerca di aria o di parole. Non dev'essere riuscita a trovare nessuna delle due, perché quando finalmente si ferma, immobile come una statua, il suo respiro è affannato e la sua bocca muta.
Imana, che era troppo concentrato sul botta e risposta dei due, si accorge di quello che è successo solo dopo della ragazza, e quando alza gli occhi al cielo il danno ormai è fatto.
Si passa una mano sul viso, ormai neanche più stupito, e cerca di avvicinarsi alla ragazza.
«Stai tranquilla» le dice, fa un passo avanti e due indietro, non esattamente sicuro di potersi accostare «È magia bianca»
La ragazza resta ferma dove si trova, messa all'angolo ma con la furia di una belva negli occhi.
«Cosa, questa?» domanda Mchawi, facendo sparire le due scritte luminose con un gesto della mano «Ninet'altro che qualche trucchetto, nulla di pericoloso...»
Sorride, fa spuntare in un attimo una freccia, la prende in mano un attimo prima che cada.
Ah, le reazioni della gente.
«Vedi?» dimostra, premendo la punta dell'arma verso la propria carne, causando al massimo un po' di solletico «Assolutamente innocua»
La ragazza resta a guardarlo, e se anche i suoi occhi stanno pian piano perdendo il loro fuoco la paura e lo stupore non sono altrettanto facili da cancellare.
«Senza contare che se anche ti succedesse qualcosa» continua, mentre un taglio profondo gli si apre sull'avambraccio carnoso «Saprei rimetterti in sesto in men che non si dica!» e il taglio si rimargina immediatamente, come non fosse mai stato.
Sorride a trentadue denti, la sua bocca sembra uno spicchio di luna, ma Maua resta comunque chiusa nella sua prigione di diffidenza.
«Chi siete?» chiede, infine.
E Imana sospira, perché non hanno tutta la notte. E se davvero bisogna rispondere a quella domanda di notti ce ne vogliono almeno due.

Maua resta a guardarli, non sa bene come muoversi, dove andare. Quel tizio è uno stregone. Potrebbe farla a pezzi, se volesse. Per Mwari, ma tutte a lei devono capitare?
Il ragazzo sembra distrutto quanto lei, non sa come risponderle, da dove cominciare. Forse, anche lui si rende conto che questo è il peggior momento possibile per perdere tempo in chiacchiere. Prima dicono la verità, meglio è.
«Allora, bellezza, la storia è molto semplice» prende la parola lo stregone, consapevole che altrimenti nessuno l'avrebbe fatto.
«C'era una volta uno stregone molto potente» dice, mentre una freccia luminosa gli compare sopra il capo, sospesa in aria, lampeggiando nella sua direzione.
«Questo stregone non era contento di poter vivere tanto poco» continua, mentre nel vuoto accanto a lui si delinea uno strano ciondolo «Quindi legò la sua vita a un amuleto: finché l'amuleto fosse rimasto intatto, lo stregone sarebbe vissuto»
Maua è immobile, le orecchie che rombano e il cuore che batte, senza riuscire ad attivare come si deve il cervello. Dietro di lei, la foresta ha ricominciato ad ululare.
«Passò tanto tempo, e l'amuleto stava per essere distrutto»
L'esplosione muta del ciondolo di luce, seguita da una nuova freccia luminosa, stavolta rivolta verso il ragazzo, la costringe a rivolgere nuovamente la sua attenzione a questo strano e inspiegabile spettacolo, ignorando le voci della notte che la perseguitano.
«Ma poi venne un giovane e lo salvò» lo stregone ha fretta di finire, forse perché anche lui ha sentito le grida che vengono dal buio, e fa sparire in un attimo tutto quanto «E vissero tutti felici e contenti»
Maua resta a guardarlo, con gli occhi sgranati e la gola arida, alla ricerca di parole che non ci sono. Nonostante la foresta, nonostante il buio, nonostante tutto, davanti ai giochi di luce di questo omone è di nuovo bambina: non esiste paura, non esiste diffidenza, solo la magia e la voglia di vederne ancora, ancora, fino a bruciarsi gli occhi.
«Spero tu sia soddisfatta, perché non ci sono rimborsi disponibile» precisa, riassestando il corto perizoma che gli cinge i fianchi. Il silenzio prosegue.
 «Allora, vogliamo riprenderci i vostri pargoli oppure no?»
E la realtà piomba di nuovo su Maua, la bambina scompare, i suoi occhi si riempiono di sospetto.
Il ragazzo, che finora è stato in silenzio, se ne accorge, si rende conto di dover recuperare al più presto. Fa un passo avanti, per la prima volta da quando le si sono catapultati addosso.
«Lascia perdere questo esibizionista» dice, lanciando un'occhiata al suo compagno e trattenendo un sorriso «Ti fidi di me?»
E Maua non sa se è perché sente il tempo che scorre e le porta via Ekundu, o perché improvvisamente riesce a vedere con chiarezza il volto di lui, e le sembra quello di un bambino, o perché le hanno insegnato che chi sta sempre zitto non è in grado di mentire – dopo un po' si perde l'abitudine – ma sa che alla fine sente la propria voce, come disconnessa dal corpo, che dice «Muoviamoci»
 

***
 

Jafar è piuttosto soddisfatto, quando il cerchio formatosi attorno al falò finalmente si scioglie.
Non solo è riuscito a convincerli che rapire la principessina non è stata affatto una mossa azzardata, ma grazie alla vecchia sono addirittura riusciti ad ottenere altri due piccoli.
Ci hai rovinati, gli hanno detto, adesso non riusciremo ad afferrarne neanche mezzo.
La gente importante non si tocca mai, gli hanno detto. Eppure, eccoli qui. Con il re che non sospetta nulla, e che anzi quasi gli chiede di aiutarlo nelle ricerche. Il villaggio impaurito, sconvolto, messo sotto assedio da un nemico invisibile. La gente intontita dalla rapidità degli accadimenti, incapace di collegarli, di giungere alla conclusione logica. Troppo poco sviluppati per poter mettere a nudo anche un piano tanto semplice quanto il suo.
Si lascia alle spalle la luce del fuoco, dove Assaf deve restare di guardia ancora per tre ore, si chiude nella tenda, cercando invano di isolarsi da tutto e da tutti, cancellando anche gli incessanti rumori provenienti dalla foresta. Per un attimo si ritrova a immaginare di dare fuoco a questa foresta, bruciare tutto e lasciare solo una landa deserta. Silenzio. Quiete. Nessuno che possa contrastarlo.
Sorride compiaciuto, si infila nel sacco a pelo e si lascia cullare dalle proprie fantasie.
Un palazzo immenso, grande quanto quello dell'ambasciata inglese, pieno di schiavi. Non schiavi da vendere. Schiavi suoi. Di cui lui è legittimo padrone e sovrano. Schiavi che non possono fare altro che obbedirgli, accontentarlo, essere frustati quando falliscono. Così tanti schiavi.
E nessun bisogno di guadagnarsi da vivere in questo modo lercio.
I lupi non vanno in letargo, ma Jafar non vede l'ora di potersi finalmente godere tutti quegli sfarzi che la vita non gli ha mai concesso.
 

***
 

Maua manda giù la paura, un malloppo solido che le ostruisce la gola, impedendole di respirare come si deve. Imana stringe i pugni fino a conficcarsi le unghie nel palmo, cercando di controllarsi. Pensa che sia una pessima idea, che verrano uccisi dalle macchine della morte dei muzungu, ma sa che deve comunque tentare. Abu è lì. Abu lo aspetta.
Mchawi li guarda, sorride tra sé e sé, contento di conoscere le persone e le loro reazioni, di comprendere dove sta la magia e dove invece è assente.
Sono pronti. Tutti e tre.
Mchawi schiocca le dita, e non succede niente.
Nel silenzio, la testa del muzungu che sta di guardia inizia a dondolare, gli occhi chiusi e il respiro regolare. Dalle tende provengono sospiri che lasciano presagire un sonno profondo.
Dormono tutti. E nessuno se ne è reso conto.

Un passo dopo l'altro. Lunghi, flessuosi, silenziosi. Un leopardo, una leonessa, un ghepardo.
Ogni passo un predatore diverso, ogni passo un'attenzione infinita e una paura sempre nuova. Maua si muove senza rumore, invisibile, ma si sente morire ogni volta che attorno a lei frusciano le foglie, o un altro animale si aggiunge alla cacofonia ormai incessante che proviene dagli alberi.
Il ragazzo, Imana, è davanti a lei, e Maua ne segue i movimenti, ne osserva la schiena stretta ed esile illuminata dal falò dei muzungu.
Ha detto di fidarsi, e non sa se è vero.
Ha detto che ce la possono fare, e non sa ci crede lei per prima.
Ha detto che Ekundu è qui, e inizia lei stessa a dubitare.
È questa la vera paura? È questo il momento in cui le tue emozioni hanno la meglio, tanto da farti dimenticare te stesso?
Un passo dopo l'altro, con estenuante lentezza, per essere sicuri di non muovere neanche l'aria. Sono vicini al muzungu che sta – o meglio, dovrebbe stare – di guardia. Imana quasi lo supera con una falcata sola, poi ci ripensa e resta fermo dov'è, la aspetta, quasi avesse paura di procedere da solo.
Potrebbero morire stanotte. Maua lo sa.
Ha sentito parlare delle macchine della morte che i muzungu si portano dietro. Le ha viste all'opera quando Jafar ne ha dimostrato l'uso per fare impressione su suo padre. E adesso non fa altro che scorgerle ovunque: accanto al falò, pronte a essere prese in mano al minimo rumore, appoggiate vicino all'entrata di ciascuna tenda, nelle ombre e negli anfratti e in tutto ciò che è al di fuori del suo campo visivo, e che diventa automaticamente minaccia.
Potrebbero morire stanotte.
Guarda Imana, dritto negli occhi, e non sa cosa ci vede, perché è troppo buio e riesce a scorgervi solo il proprio riflesso. Insieme, con un unico movimento ed un unico respiro, superano il muzungu, il suo falò, la sua macchina della morte. Si affrettano ad allontanarsi il più possibile.
Leopardo, leonessa, ghepardo. Un passo lei, uno Imana, perché cacciare da soli fa troppa paura quando si è circondati da predatori più grandi e più forti. Un passo lei, uno Imana, perché è solo il vedere che l'altro sta più avanti a dare un motivo per procedere.
Le cose non si fanno affatto più semplici quando iniziano a vederli. Occhi. Paia e paia di occhi, tutti ammassati gli uni accanto agli altri, spalancati e vigili, attenti al minimo rumore. Gli occhi delle prede.
Maua li sente addosso, e li sente ostili. Quasi le viene voglia di piangere e accucciarsi a terra e non muoversi mai più, perché sa bene quanto loro che non ci può essere fiducia e non ci può essere solidarietà. Sa bene quanto loro che quando avrà fatto il suo lavoro li lascerà a morire, sana e salva nel suo piccolo mondo ancora sicuro.
Sente il cuore che le si fa pesante, il nodo in gola che si stringe, e vorrebbe rallentare tutto, restare nascosta ancora un po' con la sua paura, con la sua incertezza, perché qualsiasi cosa è meglio che dover far finta di non vedere una sofferenza che, in realtà, ti penetra fin dentro alle ossa.
Sta ancora pensando a questo quando vede un paio di occhi fuori posto. Giusto dietro a una tenda, incastonati in un viso scuro diverso da tutti gli altri. Rimane a guardarli, e una frazione di secondo troppo tardi si rende conto che si tratta dell'uomo che ha portato ai muzungu i due bambini. Allunga una mano, come per raggiungerlo, come per ricordargli che, nonostante tutto, loro sono nella stessa squadra, che sono uguali, ma quello già grida nella lingua di ferite aperte e vecchie cicatrici che gli è estranea, senza riserve, senza esitazioni.
È un attimo, uno solo. E basta perché del leopardo, della leonessa e del ghepardo non resti nulla.
In mezzo a predatori troppo più grandi di loro, due antilopi che si guardano, terrorizzate.
Veloci, certo. Ma mai abbastanza.

Mchawi guarda dall'alto della sua nuvola e vede tutto, quasi prima che succeda.
Deve fare qualcosa, in fretta, ma non sa cosa. I suoi poteri cosmici non sono poi tanto fenomenali quando non sa come usarli.
Sente le corde di sonno con cui aveva legato stretti i muzungu che si allentano di scatto, senza pietà. Il richiamo del sangue, dopotutto, è sempre stato più forte anche della più potente magia. La gente è qualcosa di rivoltante. Ci dev'essere un motivo se ha deciso di restare a guardarla da lontano.
Serra la mascella, stringe la presa sui fili che ancora avvolgono gli uomini sotto di lui, nascosti nelle loro capanne di tela, e spera di riuscire a guadagnarsi abbastanza tempo da poter pensare a una soluzione.
Il risveglio dei muzungu rallenta, la loro coscienza quasi scivola di nuovo nel buio, ma Mchawi non si fa ingannare. Attimi, e poi apriranno gli occhi. Eccitati al pensiero di poter finalmente fare fuori qualcuno, di essere messi davanti ad un evento interessante.
L'uomo che ha dato l'allarme, il traditore con la collana di ferro al collo e la pelle nera come tutti gli altri, ma che ha in qualche modo ereditato il sorriso storto e perfido dei muzungu, sta per parlare di nuovo quando Mchawi gli punta un dito contro e lo trasforma in una scimmia. Se ne avesse il tempo, resterebbe ad ammirare questo suo capolavoro dalla propria postazione fluttuante, ma il tempo, al momento, è esattamente ciò che gli manca. Quello, e le energie per trasformare altri cinque uomini in animali. Contemporaneamente.
Fa un respiro profondo, stringe ancora le corde dei sogni, prega che reggano. Dal basso, la ragazza e Imana si voltano a guardarlo, confusi quanto la scimmia che sta ora loro davanti a causa di questo repentino capovolgimento della sorte. Non capiscono che ferire il servo non farà scappare di paura il padrone.
Fa cenno loro con la testa di muoversi, e quelli si riscuotono improvvisamente, come appena emersi da un sogno.
Nello stesso istante, le corde danno uno strattone finale e gli sfuggono dalle mani una volta per tutte.
Se Mchawi avesse le maniche, se le rimboccherebbe. Perché è adesso che inizia il vero lavoro.

Gli occhi di Ekundu sono difficili da individuare. Tra gli sguardi spenti, vacui e tristi che la circondano, Maua non riesce a riconoscere quello di sua sorella, per quanto la cerchi.
Dietro di lei, nelle capanne di tela, i muzungu si stanno ormai svegliando, e l'istinto di scappare è così forte che i suoi piedi quasi si muovono da soli. Nella direzione sbagliata, però.
Anche Imana, accanto a lei, sembra trovarsi nella stessa situazione. Lacerato nel corpo dai desideri contrastanti di restare e correre via a gambe levate.
Stringe i pugni fino a farsi male, si impone di concentrarsi esclusivamente sul motivo per cui è venuta, tenta con tutte le sue forze di cancellare i rumori alle sue spalle, presagio di un attacco feroce dal quale non può scappare.
Serra la mascella, raddrizza la schiena. Cerca di ritrovare, sotto gli strati di paura e incertezza, la predatrice di pochi attimi prima, che sostituisca la preda tremante che è ormai diventata. La scimmia che una volta era un uomo e che adesso non lo è più continua a strepitare, la tela delle capanne fruscia, si sentono i primi passi.
Mwari, ti prego. 
La vede. Improvvisamente, come l'avessero messa sotto un raggio di luna, non può fare a meno di notarla. Stesa a terra, con la testa adagiata nel grembo di una donna forte e bella, che Maua non ha mai visto prima. Ha gli occhi chiusi e le labbra aperte. È immobile.
Maua sente il vuoto dentro di sé, teme il peggio e non sa neanche come affrontarlo. Si sente cadere e precipitare fino al centro di se stessa, solo per scoprire che quel centro non esiste più, e finalmente il mondo smette di esistere, ma anche Maua scompare con esso.
Mwari, ti prego.
La donna che sorregge il capo di Ekundu alza lo sguardo, incrocia il suo, e in un attimo comprende questo suo volo senza fine, verso il nulla. Non c'è compassione nei suoi occhi, non c'è la rassegnazione di chi ha visto una vita spegnersi e non ha potuto farci niente. C'è l'urgenza di chi ancora crede che si possa fare qualcosa. Allunga una mano, chiamandola frettolosamente e, inconsapevolmente, la salva.
Mwari, ti prego.
Maua smette di cadere e comincia a correre. Teme di non essere abbastanza veloce, ha paura che se si ferma anche solo un istante ricomincerà a scivolare verso il basso, e allora scatta senza esitazione, sola nel vuoto assieme a quella donna e a Ekundu. Il mondo non esiste, perché senza Ekundu non resta più nessuno che sappia dargli senso.
Mwari, ti prego.
Si inginocchia accanto al corpo di sua sorella, e il suo sguardo cerca di nuovo quello della donna che si è presa cura di lei. Vorrebbe chiederle cosa è successo, come sta, cosa deve fare, ma non sa in che lingua chiederlo ed esita un attimo di troppo.
«L'hanno addormentata» la anticipa la donna, in Swahili. Ha una voce ruvida, che non senti con le orecchie ma con la pelle.
«Starà bene, ma devi portarla via» dice, senza smettere un attimo di guardarla, come volesse assicurarsi che ognuna delle sue parole venga recepita e compresa «Adesso»
Maua resta a guardarla, con un misto di gratitudine e terrore nel cuore, perché se Ekundu esiste esiste anche il mondo, e se esiste anche il mondo significa che questa donna è condannata. Non c'è nessuno che la salvi.
E poi non ce la fa più, abbassa lo sguardo su sua sorella, e per la prima volta vede gli occhi che si muovono sotto le palpebre, flebile segno di vita. Si concede di respirare di nuovo.
Mwari, grazie.
Resterebbe qui per sempre, se potesse. A guardarla dormire, a sapere che è viva e a sentire ciò che un attimo prima era morto rifiorirle nel petto. A fare finta che il mondo non esista, rifiutandosi di ascoltarne la voce, che si fa sempre più insistente.
«Maua» la chiama qualcuno, così lontano che a malapena lo sente «Maua, dobbiamo muoverci»
Imana le si inginocchia accanto e Maua non capisce cosa voglia da lei, o perché tenga un bambino di sette, forse otto anni, in braccio.
«Spostati» le dice, e Maua resta ferma.
Tiene lo sguardo fisso su di lui, come se stesse cercando di metterlo a fuoco, senza riuscirci. Imana scuote la testa, la spinge via, prende il suo posto accanto a Ekundu. Maua perde l'equilibrio, cade per terra, ed è come se fosse scoppiata una bolla di sapone: un attimo prima sta per scagliarsi addosso a questo arrogante che pretende di strapparla a sua sorella, un attimo dopo si tira su con gli occhi grandi di paura, come se si stesse finalmente rendendo conto dove si trova.
Si guarda intorno, gli occhi aperti per la prima volta, e vorrebbe non averlo mai fatto.
I muzungu sono fuori dalle tende, si guardano intorno alla ricerca dell'intruso.
Qualcosa le dice che non ci metteranno poi tanto a trovarlo.

Mchawi non ha più tempo.
Per quanto abbia cercato di guadagnarne, non gli basta. Non gli è mai bastato e mai gli basterà, e forse questo è uno dei motivi per cui non è poi un così grande stregone. Perché nel vano tentativo di sfuggire alle stagioni che si succedono, non fa altro che rinchiudersi in gabbie sempre più strette, sempre più opprimenti.
Come adesso.
Adesso che non sa che cosa fare e anziché cercare una soluzione non fa altro che maledire il fatto che ha così poco tempo a propria disposizione, non fa altro che ribadire di non essere capace.
Sotto di lui, i muzungu sembrano aver individuato la fonte di baccano. Hanno tutti gli occhi puntati sulla massa di schiavi che stanno ammucchiati in fondo all'accampamento, strizzano gli occhi per cercare di distinguere meglio le sagome, ma non è un compito facile.
Eppure, Mchawi sa che li troveranno. L'odore della paura, dopotutto, si riconoscerebbe ovunque.
Si prende la testa fra le mani, chiude gli occhi e si dice ancora una volta che non sa cosa fare.
Poi, visto che tanto il tempo per farsi venire in mente una soluzione non c'è, decide che tanto vale tentare la sorte.
E così, perché non ha idee e non c'è tempo, decide di cominciare lavando via gli odori.

Maua è appiattita contro il suolo. Stesa ai piedi di uomini e donne che non la conoscono eppure la proteggono, cerca disperatamente di premere la propria guancia contro il terriccio secco, nonostante tutto ciò che vuole fare al momento sia guardare Ekundu e toccarla e assicurarsi che sia ancora lì, ancora intera, ancora viva.
Imana è accucciato accanto a lei, cerca di essere silenzioso e rapido allo stesso tempo, riuscendoci inspiegabilmente. Con un piccolo coltello in mano e il volto quasi premuto contro le catene che tengono ferma Ekundu, nel disperato tentativo di riuscire a vedere qualcosa nonostante il buio che li circonda, il ragazzo smanetta in silenzio, la lingua fra i denti e la fronte corrugata. Maua vorrebbe chiedergli dove ha imparato a fare una cosa del genere, a manovrare con tanta sicurezza queste corde di ferro di cui lei, finora, aveva solo sentito parlare, ma ci ripensa e tiene chiusa la bocca, per metà rivolta contro il suolo. Il bambino che Imana ha portato con sé è steso accanto a lei, con gli occhi grandi di paura, e Maua non riesce a guardarlo, perché le ricorda troppo i due bambini che sono stati portati qui questa notte, e che non c'è tempo di salvare. Almeno, questo è quello che continua a ripetersi per combattere i sensi di colpa. Non solo quelli causati dalla propria coscienza, ma anche quelli che hanno a che fare con la consapevolezza che, in quanto principessa, dovrebbe pensare al suo popolo, ai suoi sudditi, prima di tutto.
Ha ancora il volto premuto a terra e la testa piena di pensieri che le annodano lo stomaco quando, senza il minimo preavviso, inizia a piovere. Sono gocce grandi, pesanti, come non se ne vedevano da almeno due lune. Cadono a fiotti dal cielo, e Maua le sente sulla pelle e non cerca di coprirsi, si accorge che il perizoma si sta bagnando e non se ne preoccupa. La pioggia rallenta il tempo. Costringe le persone a muoversi con più attenzione e con più calma. La pioggia è quello di cui hanno bisogno.
Anche Imana non protesta. Le spalle tese e la schiena piegata, continua a lavorare senza battere ciglio, come se lunghi rivoli di acqua tiepida non avessero iniziato a scorrergli lungo il collo.
Maua si azzarda a lanciare uno sguardo verso l'alto, verso il cielo, e non resta affatto stupita quando vede Mchawi che, appollaiato su una nuvola, dirige il temporale e scruta l'accampamento.
Chiude di nuovo gli occhi, esausta, e prega che sappia cosa sta facendo.
 

***
 

Quando inizia a piovere, gli uomini di Jafar hanno tutti il fucile in mano e il sonno negli occhi.
La pioggia fa bene all'uno e male all'altro. Ribalta le cose.
Così, se adesso non ce n'è uno che, sotto questo inferno d'acqua, non riesce a tenere gli occhi aperti, i fucili di tutti sono fuori uso.
Jafar fa appena in tempo a rendersi conto del pericolo che l'acqua rappresenta per le loro armi, e poi viene sommerso da uno scroscio più forte del precedente, che gli impedisce di vedere e di pensare e di essere efficiente. Dio, quanto odia le cose improvvise.
Cerca di sovrastare il frastuono dell'acqua che cade con un urlo, per avvisare i suoi di mettere i fucili al riparo, e lancia il proprio all'interno della tenda più vicina, neanche sicuro che l'abbiano sentito tutti.
Senza nemmeno doverlo cercare, nell'oscurità resa fitta dalla pioggia, e ormai priva della luce rassicurante del falò, di cui rimane solo fumo e brace, Jafar sfila dalla propria cintura un coltello lungo e affilato, che sta lì proprio per occasioni come questa, in cui le armi non sono altro che un inutile ingombro.
Solo in mezzo a questa doccia tiepida e appiccicosa, avanza verso la zona dove dovrebbero trovarsi gli schiavi, privo di qualsiasi sicurezza: la vista è impedita dai fiotti di acqua che gli chiudono gli occhi e dal buio impenetrabile che lo circonda, l'udito non è più sensibile a nulla che non sia lo scroscio costante della pioggia, l'olfatto reso inutile dal forte odore di terra bagnata che sembra aver penetrato tutto in pochi attimi.
Col coltello in mano e il corpo teso, Jafar avanza senza sapere dove sta andando, ma allo stesso tempo incapace di fermarsi. Ha dovuto smettere di fare affidamento ai suoi sensi, certo, ma qualcosa gli dice che sta andando nella direzione giusta. Alcuni lo chiamano sesto senso, altri intuito.
Per Jafar, è sempre stato semplicemente l'istinto del predatore.
 

***
 

Gli uomini sono dispersi, confusi. Si guardano intorno senza vedere, si parlano senza sentirsi. Sono tutti isolati, tutti divisi.
Tutti, tranne uno.
Uno che avanza imperterrito, la lama scintillante nella mano, il riflesso del metallo assassino negli occhi. Mchawi lo guarda, lo vede che punta sicuro verso la massa di corpi dove sa essere nascosti Maua e Imana, e prega che un fulmine lo colpisca. Lo sguardo fermo sulla figura solitaria, le mani tese verso l'alto, che ancora chiedono al cielo altra pioggia, sta immobile e aspetta che accada qualcosa. Qualsiasi cosa, purché basti a fermare quell'uomo.
E poi, come se si fosse appena svegliato da un sogno, si rende conto di poter essere lui stesso il fulmine.
Non che abbia la forza di scagliarne uno e di tenere in piedi, contemporaneamente, il resto della baracca, con pioggia vento e oscurità totale. Ma forse – solo forse – non serve che a colpire quell'uomo di ferro sia un raggio di fuoco.

Maua è cieca, gli occhi impediti dall'oscurità, e dal terriccio che minaccia continuamente di entrarvi.
Maua è sorda, un orecchio premuto contro il suolo, l'altro riempito dalla pioggia.
Eppure, Maua sente l'impatto, attraverso la terra e attraverso il corpo, e nella sua mente riesce a vedere tutto, con una chiarezza che non dovrebbe essere possibile, e che assomiglia alla lucidità inconsistente dei sogni, pronta a sfumare inesorabilmente non appena si aprono gli occhi.
Ma quando Maua apre gli occhi, l'immagine non scompare.
Imana, ancora inginocchiato accanto a lei, con le catene da cui ha appena liberato Ekundu fra le mani, ha la testa alta, lo sguardo fisso sul centro della radura, i muscoli tesi e gli occhi sgranati.
Maua smette di pensare, riattiva il corpo, si alza sotto la cortina di pioggia che cerca di schiacciarla a terra, e guarda dove sta guardando Imana.
E lì, per terra, in un intreccio di membra impossibile da distinguere, il sogno diventa realtà.
 

 

***
 

Senza un capo, ogni branco si dissolve.
Succede così nel mondo animale, e succede così anche quando quell'inaspettato proiettile umano cade dal cielo, semplice e letale come poche altre cose.
Gli uomini di Jafar vedono l'ombra che precipita verso il basso, sentono le grida, e in loro si accende quella paura primordiale che si accompagna all'istinto di sopravvivenza, e che forse è quanto di animale è ancora rimasto in noi.
Non si consultano, non ci pensano, non esitano. Scappano via senza ritegno, lontano da quella radura maledetta in cui i temporali scoppiano senza motivo e grandi masse scure piovono dal cielo come enormi bombe.
Scappano via, tutti in una direzione diversa, tutti convinti di potersela tranquillamente cavare da soli. Tutti ancora assolutamente ciechi davanti alle verità della savana. Collaborazione, tenacia, sacrificio.
Scappano, i muzungu senza occhi e senza orecchie, senza la volontà di interrogarsi e di capire, e si lasciano alle spalle il popolo che speravano di fare schiavo in nome di una presunta inferiorità, e che li ha invece sconfitti.
Il popolo che adesso, nella pioggia che si dirada, si guarda attorno confuso e spaesato, come se improvvisamente fosse proprio la libertà – quella libertà che fino a poco prima non avevano neanche la forza di desiderare – a spaventarli più di ogni altra cosa.

 

 

 

🌓

ALBA

 

 

 

Nel villaggio, assieme ai primi raggi del sole, si fa strada il rumore di centinaia di passi. Non sono sincronizzati, non battono con prepotenza sulla terra. Sono i passi di uomini e donne coi piedi scalzi e i corpi nudi, vulnerabili da tutto e da tutti, che avanzano con gli occhi ciechi e la paura di sperare nel cuore.
A guidarli c'è una ragazza alta e fiera, con la schiena dritta e il mento sollevato. Ha il passo lungo e sicuro, sul suo volto non vi sono tracce di paura. A chi non la conoscesse, verrebbe da pensare che fosse una guerriera.
Al suo fianco camminano altre tre figure: la ragazzina che marcia alla sua sinistra, un giovane dalle braccia sottili e il bambino che egli tiene per mano.
La ragazzina ha le vesti stracciate, rosse come la terra colpita dal sole che muore, ma anche lei tiene la testa alta, lo sguardo dritto davanti a sé. Ogni tanto lancia un'occhiata alla ragazza più grande, e non si riesce a capire bene se in essa vi sia ammirazione, o gratitudine, o amore profondo. Forse, tutti e tre insieme.
Il ragazzo sembra disegnato di fretta, sottile e longilineo com'è, con le dita veloci di chi deve usare l'astuzia per sopravvivere. Quando non le batte ritmicamente sulla coscia le tiene strette a pugno, forse nel tentativo di trattenerle, forse nel tentativo di trattenere sé stesso.
Il bambino che cammina al suo fianco ha un faccino piccolo, quasi del tutto riempito dagli occhi. Si guarda intorno spaesato, si aggrappa alla mano del ragazzo come fosse un'ancora di salvezza. È l'unica cosa, nella follia degli ultimi giorni, che gli sia rimasta familiare. Forse, l'ultima cosa che gli sia rimasta, e basta.
Dietro, fra la gente, molte altre persone si tengono per mano, si guardano e fingono di non vedere i segni rossi lasciati dalle catene, le cicatrici indelebili di un'esperienza che non sarebbe mai dovuta essere. Tra di loro ci sono due bambini che camminano così vicini da sembrare quasi una cosa sola. La più grande ostenta il passo sicuro di chi crede di aver finalmente ritrovato la strada di casa. Il più piccolo la segue con due occhi così grandi e così bui che nemmeno il sole sembra riuscire a illuminarli. Ci vorrà un po' perché smettano di vedere pioggia e tenebre e urla e ferro, ma ce la faranno. Prima o poi.
Davanti a tutti, la guerriera e il ragazzo dalle braccia sottili si guardano negli occhi, senza fermarsi. Tra di loro c'è uno spazio ampio, abbastanza grande da poterci infilare un ippopotamo. Un ippopotamo che non c'è, che è scappato via, che è finalmente libero.
La guerriera fa un cenno con la testa, impercettibile. Il ragazzo ricambia, sostiene il suo sguardo.
Non sanno neanche loro quale patto abbiano appena sancito, di preciso.
Non sanno quanto durerà, o a cosa porterà.
Sanno solo che nasce da un posto segreto e nascosto dentro di loro.
Quel posto dove tutto è possibile, quel posto dove nascono i sogni.
Quel posto dove tutte le strade si incrociano.

  
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