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Autore: Ortensia_    08/02/2015    2 recensioni
Io sono una persona e in quanto tale ho dei limiti.
Io sono uno scrittore e in quanto tale sarò giudicato per quello scrivo.

[...]
Chi sono io? Mayuzumi Chihiro. E cosa rimarrà di me? Un foglio di carta e una penna.
[...]
Se credessi nell'esistenza del Diavolo, sono sicuro che i suoi occhi sarebbero questi.
[ Vincitrice del contest "Ripopola Fandom" indetto da __Bad Apple__ ]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Chihiro Mayuzumi, Kiseki No Sedai, Ogiwara Shigehiro, Seijuro Akashi
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Gli occhi del Diavolo'
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Capitolo IV

‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒



Ogiwara ha ragione: sono terribilmente stanco, mi sembra di avere dei macigni che pesano sulle palpebre e le tirano sempre più giù, ma non ho intenzione di fermarmi. Riposerò una volta finito il romanzo, ora non c'è tempo.
Sono una persona piuttosto tranquilla, preferisco restare in disparte piuttosto che omologarmi agli altri, ma non sono remissivo e non mi piace quando le persone si prendono troppa confidenza con me, quando mi dicono cosa dovrei o non dovrei fare.
Conosco i miei limiti e so che riuscirò a resistere ancora un po'. Sarò io a decidere quando fermarmi.
«Ucciderai anche Daiki?»
La sua voce è un soffio leggero che mi carezza l'orecchio, mi sento attraversare da un brivido e le mie dita si pietrificano.
Akashi è qui già da un'ora e sembra non volersene andare, ma non è un problema: ho scoperto che la sua è l'unica presenza che non mi infastidisce mentre scrivo.
«Lo dovresti sapere meglio di me, no?» mi volto di tre quarti e lo guardo, lui accenna un sorriso e resta seduto ai piedi del letto.
Nemmeno io sono sicuro delle mie parole: Akashi sa che ho ucciso Ryouta perché gliel'ho raccontato, e gli ho anche detto che nel capitolo che sto scrivendo si parla di un certo “Aomine Daiki”, quindi la sua domanda è più che lecita, potrebbe avermela fatta chiunque, eppure continuo a credere che lui non sia solo una trasposizione del mio imperatore nella realtà moderna, ma che si tratti di lui in carne ed ossa e che quindi sappia già come devono andare le cose, che me lo abbia chiesto soltanto per rompere il silenzio.
Forse si annoia. Chiunque si annoierebbe a stare chiuso in una stanza con uno scrittore in piena attività, a pensarci bene.
«Chihiro?»
«Mhn?» riprendo a scrivere, ben conscio di avere i suoi occhi di Diavolo puntati addosso.
«Tu giocavi a basket, vero?»
«Sì, ma è passato tanto tempo dall'ultima volta.» gli rispondo immediatamente e continuo a scrivere: è incredibile come sia facile separare ciò che dico da ciò che penso, è come se ci fossero due me così distinti che neanche rischiano di sfiorarsi: uno risponde ad Akashi e l'altro descrive il clima tetro delle Terre Fredde.
«In che posizione?» lo sento alzarsi, scorgo la sua figura alla finestra.
«Ala grande.» rispondo con aria disinteressata e rileggo l'ultima riga, la cancello e ricomincio a scriverla in un modo completamente nuovo.
«Mio padre non voleva che giocassi a basket, è stata mia madre a convincerlo.» sbuffo e cancello di nuovo l'ultima riga «a dire il vero mio padre non voleva neppure che facessi lo scrittore.»
«Anche mio padre non voleva che giocassi a basket ed è stata mia madre a convincerlo.»
Lo guardo sorpreso e distolgo la mia attenzione da lui solo per un istante, quando solleva le tapparelle e la luce invade la stanza, colpendomi in pieno viso e ferendomi gli occhi: sembra proprio che non gli piaccia stare al buio, al contrario di me.
«In che posizione giocavi?»
«Playmaker, ero il capitano.»
Perché la cosa non mi stupisce?
«Come mai non giochi più?»
Lo guardo ancora per un istante, poi rivolgo la mia attenzione allo schermo del computer e mi lascio sfuggire un sorriso impercettibile.
«Scrivere mi piace di più.» faccio una piccola pausa e do una rapida occhiata allo spazio bianco lasciato dall'ultima frase che ho cancellato «e tu? Perché hai smesso?»
«Avrei continuato se mia madre non fosse morta. Da allora mio padre non me lo ha più permesso.»
Non ho idea di quando la madre di Akashi sia morta, ma so di per certo che doveva volerle molto bene: mi basta incrociare il suo sguardo per un istante, vedere la malinconia che brucia nei suoi occhi e li guida lontano, oltre il vetro della finestra, alla disperata ricerca di qualcosa. Di che cosa?
Per la prima volta da quando ho iniziato la stesura di questo romanzo, sento di voler smettere di scrivere per dedicarmi a qualcos'altro. A qualcun altro.
«Usciamo?»
È la prima volta che do più importanza alla realtà che al mio mondo di carta, ma non mi piace vedere l'espressione di Akashi mutare in peggio in un modo tanto repentino. Non sono bravo in questo cose, non me ne intendo di “rapporti umani”, ma prendere un po' d'aria fresca farà bene ad entrambi.
«Sei sicuro? E il tuo romanzo?»
«Il capitolo è a buon punto, posso fare una pausa.»
Akashi si stacca dalla finestra e si avvicina a me con passo felpato, mi adagia le mani sulle spalle e resta in silenzio per qualche istante.
«Va bene, ma lascia che sia io a decidere dove andare.»
Ha sicuramente molta più esperienza di me per quanto riguarda Tokyo; pur essendo nato qui ho sempre vissuto facendo la spola da casa a scuola e ora da casa alla libreria o da casa all'ufficio dell'editore, solo da piccolo facevo lunghe passeggiate per le strade con mia madre, ma sono ricordi sbiaditi di cui rimangono soltanto le briciole.
«D'accordo.» inspiro e chiudo gli occhi, mi soffermo sulle sue dita esili eppure incredibilmente forti. Le uniche dita dalle quali mi lascerei toccare per sempre.


Sollevo lo sguardo e contemplo il cielo terso, l'azzurro intenso che si specchia nel grosso specchio d'acqua che squarcia la terra e separa la nostra sponda da quella opposta, distante di almeno una ventina di metri.
Abbiamo lasciato Shinjuku e siamo arrivati a Bunkyou, al Parco Rikugien.
Non ricordo di essere mai stato qui, mia madre preferiva passeggiare lungo le strade e stare a contatto con le persone, adorava l'architettura e l'arte moderna in generale e sembrava avere una particolare predilezione per la tecnologia, al contrario di me che non sono mai stato attratto dal mondo esterno e, soprattutto, da quello umano. Ovviamente, se mi chiedessero di scegliere se passare il pomeriggio in un parco o se trascorrerlo di fronte ad un edificio colorato e dalle forme discutibili, sceglierei il parco: è molto più tranquillo, molto più rilassante, e la luce del sole ravviva talmente tanto i colori delle foglie e le scaglie d'acqua che un artista potrebbe perfino sceglierlo come luogo da raffigurare o da cui trarre ispirazione.
«Mia madre adorava questo parco.»
Akashi ha ancora quella nota di malinconia nello sguardo, osserva con attenzione l'acqua del lago e intreccia le dita ad un ciuffo d'erba.
«Credo di avere ancora alcuni dei suoi disegni.»
«Mhn?» aggrotto appena la fronte e anche io mi decido a sfiorare l'erba fredda con la mano «disegnava?»
«Era una ritrattista, ma solo per passione.» Akashi accenna un sorriso, ma è tirato, sembra afflitto.
Vedo le sue dita stringersi attorno ad un sassolino e riporto le mie fra le ginocchia, imprigionate e schiacciate.
«Mio padre non voleva che lavorasse, in più l'arte era un mondo completamente estraneo al suo e quindi mia madre ha coltivato la sua passione in privato. Io ero uno dei pochi a cui mostrava i suoi disegni e i suoi ritratti.»
Lo osservo in silenzio: lui almeno ha ereditato qualcosa da uno dei genitori, io non ho né la passione della finanza come mio padre né quella per l'architettura come mia madre – sono sempre stato così diverso da loro che ho pensato spesso di essere stato adottato o di essermi addirittura generato da me, poi guardavo i capelli di mia madre e mi arrendevo all'evidenza –.
Mia madre non mi ha lasciato nulla di lei, se non questa strana colorazione di capelli, e non so ancora se esserle grato per questo o se odiarla. Akashi, almeno, sembra conoscere perfettamente i sentimenti che nutre nei confronti della donna che lo ha cresciuto.
Il tonfo sordo a pochi metri dalle mie orecchie mi coglie alla sprovvista: sobbalzo e guardo l'acqua del lago tremare, il riflesso del cielo spezzarsi. Il sassolino non è più fra le dita di Akashi, ormai sarà già giunto al fondale, insieme a tanti altri.
Un sassolino che si omologa a tanti altri sassolini, proprio come un granello di sabbia sulla spiaggia o una goccia di pioggia durante un diluvio. Esattamente come me, Mayuzumi Chihiro, e le altre persone che abitano a Tokyo.
L'omologazione è così radicata che neppure i pochi che paiono distinguersi sono diversi o unici per davvero. È un mondo monotono, le persone sono tutte uguali – a parte Akashi –.
Lui sembra un pesce fuor d'acqua, lui è la pietra che brilla nell'oscurità del fondale, la conchiglia sulla spiaggia, il raggio di sole che squarcia il muro di pioggia.
Mi piacerebbe essere come lui, potermi distinguere.
«Si sta facendo tardi.»
Lo guardo alzarsi e, dopo qualche istante di esitazione, faccio lo stesso.
«Chihiro.» mi chiama e io so già che devo porgergli la mano, è un gesto istintivo per il quale mi maledico: da quando sono così remissivo? Da quando dipendo dalla voce di una persona?
«Grazie.» mi guarda e mi sorride, mi sfiora il palmo della mano con le dita e vi adagia un fiore di ciliegio.


― Daiki cominciava a sentirsi in colpa per aver respinto Tetsuya in quel modo, ma sapeva già tutto il necessario, non aveva bisogno di consigli su come uccidere la Fenice delle Terre Fredde e raccomandazioni su come uscirne vivo.
Sua madre gli aveva raccontato molte leggende riguardo le creature del regno e anche sulla Fenice: era un mostro feroce e solitario in grado di controllare il ghiaccio e il fuoco, si diceva che nessuno fosse riuscito a fare ritorno dalle Terre Fredde ad eccezione di un giovane stalliere che aveva assistito all'uccisione della Fenice da parte del sue re e poi alla resurrezione della creatura e al suo trionfo sul sovrano.
Quella che Daiki stringeva fra le mani era la spada di Hahn, forgiata mille anni prima da uno dei più grandi fabbri del regno e realizzata con un raro materiale capace di infliggere danni irreparabili alla Fenice. Uccidere la creatura con la spada di Hahn significava eliminarla per sempre, senza darle la possibilità di rinascere.
Daiki affondò lo stivale logoro nella neve finché non avvertì la terra dura e cava vibrare a contatto con la punta del piede; la Fenice contorse il lungo collo e strepitò, spalancò il becco aquilino e gli occhi infernali.
Daiki increspò le labbra in un ghigno e sollevò la spada, la puntò verso la Fenice e la guardò brillare: non vedeva l'ora di scontrarsi con quella creatura infernale, non vedeva l'ora di mettersi alla prova e adempiere al compito affidatogli dall'imperatore, dimostrando ancora una vota di essere il più valente dei suoi servitori.
Nonostante le Terre Fredde fossero molto più lontane della Cascata di Sheji e del Lago Mihn, lui avrebbe fatto ritorno molto prima di Tetsuya e Shintarou; l'unico che poteva dargli filo da torcere, a dire il vero, era Ryouta: erano in costante competizione e Daiki lo conosceva bene, sapeva quanto potesse essere testardo e che non avrebbe gettato la spugna tanto facilmente. Anzi, probabilmente il Drago Rosso era già morto, dopotutto Ryouta aveva una particolarità eccezionale e ne traeva sempre grandi vantaggi, mentre lui poteva contare soltanto su una spada e su quello che molti dei suoi sottoposti avevano definito “stile senza forma”.
Daiki era conosciuto per la sua velocità impressionante, per il fatto che i suoi movimenti fossero così sciolti e rapidi da far sembrare che il suo corpo fosse estraneo alle leggi della fisica.
Non aveva portato nessuno con sé: preferiva lavorare da solo, detestava l'idea di doversi coordinare con altri soldati e, in alcuni casi, darsi un freno per arginare il più possibile un pericolo che avrebbe potuto nuocere a tutti coloro che non possedevano lo “stile senza forma”.
«Ehi, mi sono stufato di aspettare! Pensi di scendere?» Daiki ghignò e roteò la spada; la Fenice, appollaiata sul promontorio ghiacciato, batté le ali e strepitò una seconda volta.
Daiki non aveva alcuna intenzione di scalare il promontorio, soprattutto dopo la lunga marcia attraverso le lande desolate ricoperte di neve e ghiaccio.
Dopo qualche istante, la Fenice si mosse e sbatté le ali con forza, atterrando di fronte a lui. Daiki scattò immediatamente in avanti e colpì le grosse zampe rugose e raggrinzite della Fenice, che reagì prontamente ma finì per conficcare la punta ricurva del becco nella neve.
Gli occhi della creatura seguirono i movimenti veloci di Daiki e quando lo vide nuovamente pronto a colpire si alzò in volo, gettandosi in picchiata su di lui pochi istanti dopo. Daiki si gettò a terra ed evitò gli artigli della creatura, sollevò in fretta il viso e cercò di non badare ai freddi granelli di neve incastrate fra le ciglia.
La Fenice spalancò il becco, ma Daiki rotolò sul fianco e si coprì il volto, evitando il getto di fuoco di circa un metro.
«Maledizione!» ringhiò e affondò la punta della spada nella neve, cercò di sorreggersi e rialzarsi e nel mentre notò che, nel punto in cui il getto di fuoco della Fenice aveva colpito la neve, questa si era sciolta, rivelando non terra, ma ghiaccio.
Spalancò gli occhi, incredulo, e sfuggì al getto di fuoco della Fenice ancora una volta, digrignando i denti non appena vide altro ghiaccio sotto la neve appena sciolta: il promontorio su cui stava appollaiata la creatura era circondato da un profondo canale ghiacciato, doveva tornare il prima possibile nel punto in cui aveva avvertito la terra a contatto con la punta dello stivale.
Daiki corse verso la Fenice e si insinuò fra le sue zampe, colpendole ancora con la spada.
La Fenice gracchiò e calpestò la neve, si alzò di nuovo in volo e colpì il ghiaccio che, nonostante lo spessore, si crepò immediatamente sotto il suo peso.
Strepitò di nuovo e innalzò un muro di ghiaccio con il proprio respiro freddo, e Daiki si ritrovò imprigionato e confuso per un istante. Un istante che alla creatura bastò per stringere nel becco il braccio destro del nemico, strappandoglielo insieme alla spada di Hahn.
Daiki rimase senza respiro e guardò con orrore il flutto copioso di sangue macchiare la neve, mosse esagitatamente le dita della mano sinistra e si voltò in cerca della spada, ma gli artigli della Fenice lo imprigionarono e dopo qualche istante fu gettato con violenza contro la parete dura e fredda del promontorio, precipitando infine nell'acqua ghiacciata.
Le dita di Daiki arrancarono debolmente sul ghiaccio, arrossate e doloranti, rese quasi insensibili dal freddo; l'acqua gelida gli tolse il respiro e si tinse di rosso; l'odore di sangue lo fece quasi vomitare. Sprofondò nel buio, l'acqua si insinuò nella bocca e il corpo divenne improvvisamente rigido.
Vide le piume lucenti della Fenice brillare un'ultima volta, una scintilla d'oro estasiare i suoi occhi stanchi del buio e del freddo nel fondo del canale: la sua tacita sfida con Ryouta era finita. ―




Forse è troppo violento? Questo maledetto romanzo sta prendendo una piega troppo sanguinolenta, non è ciò a cui ho abituato i miei lettori: forse dovrei modificarlo, forse dovrei addirittura cancellare gli ultimi due capitoli.
Sospiro profondamente e chiudo gli occhi, mi massaggio le palpebre con un lento movimento circolare dei polpastrelli e poi le risollevo lentamente, soffermandomi sui fiori di ciliegio adagiati sulla mia scrivania: ancora non appassiscono, è come se fossero attaccati ad un ramo di un albero vivo e vegeto, come se si nutrissero da soli.
Che cosa ne devo fare degli ultimi capitoli? No, per ora vanno bene, magari li ricontrollerò e apporterò qualche modifica a storia conclusa.
Sospiro sommessamente e spengo il computer, mi butto a peso morto sul letto e chiudo gli occhi: anche per oggi ho finito di scrivere, anche per oggi sono rimasto di nuovo solo.
   
 
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