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Autore: _unintended    08/02/2015    2 recensioni
Bandit prese tra le mani una foto rovinata e ingiallita che ritraeva la sua famiglia, tutti e tre insieme seduti al divano della loro vecchia villa, quella vicina al lago, dove aveva passato tutta l’infanzia. Vide se stessa sulle ginocchia di sua madre, che la stringeva protettivamente, e vide suo padre, in tenuta militare, con quello sguardo intenso che lo aveva sempre caratterizzato fino all’ultimo istante della sua vita. Quello sguardo intenso che soltanto un’altra persona, in tutto il mondo, aveva saputo sostenere e ricambiare altrettanto intensamente. Soltanto una.
Quella sbagliata. In tutti i sensi.
"Se vuoi che non butti questi scatoloni non c’è problema, sai?"la rassicurò sua nipote vedendola così turbata.
"Sarah"
"Sì?"
"Devo raccontarti una storia."
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Bandit Lee Way, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vbb, non c’è neanche bisogno di spiegare il titolo di questo capitolo *emo tears*
Come alcuni mi hanno fatto notare (vi adoro), i capitoli si stanno allungando, e credo che questo sia un fattore positivo perché anche se ho sempre odiato i capitoli lunghissimi e pesanti nei quali non succede mai nulla, sono odiosi anche quelli troppo corti che ti lasciano con un senso di insoddisfazione :/
Detto questo, passiamo alla figura di Kellin. Devo dire che ero e sono ancora dubbiosa sulla sua presenza, diciamo che per il ruolo che deve svolgere forse sarebbe stato meglio inserirci un Andy Biersack al suo posto, ma sono sicura che anche il nostro cuzzolo Quinn riuscirà a fare la sua parte aw
Buona lettura.
M.
 
 
 
CAPITOLO 21 – DESERT SONG
 
 
FRANK
 
 
Non mi era mai capitato di non sognare.
Sin da piccolo, ogni mattina mi ricordavo sempre il sogno della notte precedente, e se non tutto nei minimi dettagli anche soltanto sensazioni o stralci di immagini.
Non mi era mai capitato di svegliarmi e trovare nella mia mente soltanto un grosso buco nero, senza inizio né fine, ma è proprio quello che succede da quando sono qui.
Semplicemente è quasi impossibile pensare a qualcosa diverso dall’istinto di sopravvivenza. Soltanto questo. Istinto. È tutto ciò che importa in questo posto, e ho dovuto imparare in fretta.
Abbiamo tutti dovuto imparare in fretta.
Il problema è che molto spesso non riesco neanche a dormire. Non è facile quando sei disteso su una dura e fredda tavola di legno come branda, e quando tutt’attorno a te c’è gente che russa, gente che tossisce, gente che parla da sola, gente che piange, gente che ansima in preda a chissà quale malattia fatale. Nessuno di noi riesce a dormire, e quando finalmente io riesco ad assopirmi è già quasi l’alba, e nemmeno un’ora dopo suona l’allarme e dobbiamo essere tutti in piedi in pochi secondi per radunarci nel piazzale principale.
“Frank”
Una voce ormai familiare sussurra dolcemente il mio nome, e per un irrazionale, assurdo attimo penso a Gerard, e vorrei quasi allungare le braccia per stringerle attorno al suo collo, e baciarlo sulle labbra e tirarlo sopra di me.
Ma quando apro gli occhi è soltanto Rayon, che mi scuote delicatamente per una spalla e mi fa cenno di alzarmi. È appena l’alba, ma si stanno tutti già preparando per uscire dal dormitorio ed io sono l’unico ancora disteso.
Rayon mi sorride in modo triste, un sorriso che mi riserva ogni santa mattina, come a dirmi che lei c’è e ci sarà per tutto il giorno e quel sorriso ne è la testimonianza, nonostante la sua venatura di malinconia.
Mi tiro su, stiracchiandomi e facendo scricchiolare le ossa indolenzite e ghiacciate. Oramai il freddo fa parte di noi, ci scorre nelle vene al posto del sangue, provocandoci un tremito leggero che ci accompagna per tutta la giornata e non ci lascia mai, nemmeno di notte, quando abbiamo soltanto una misera, sottile, piccola stoffa per coprirci.
Rayon è cambiata praticamente già dal secondo giorno della nostra permanenza qui. La sua parrucca è sparita chissà dove, e ora porta soltanto un fazzoletto a quadri in testa. I suoi bei abiti colorati sono stati sostituiti dalla casacca grigia che portiamo tutti, il trucco è scomparso e il suo volto è più scarno e pallido che mai. L’unica cosa che risaltano e che non sono cambiati da quando l’ho conosciuta sono i suoi occhi, di un azzurro così intenso da far male allo sguardo.
Quando capita, le do un po’ della mia razione, perché ho capito che il suo organismo ha bisogno di cibo più di me, e perché lei è l’unica che mi offre gentilezza e compagnia nella desolazione più assoluta, perciò ricambio come posso. Lei mi sveglia quando io sono troppo stanco per farlo, mi aiuta a rialzarmi quando cado mentre lavoriamo, ed è l’unica persona che mi rivolge la parola.
“Forza, andiamo” dico come ogni mattina, e ci uniamo al resto del gruppo che sta uscendo all’esterno.
Non appena metto piede fuori, una folata di vento freddo mi assale e mi avvolge in una morsa, stringendomi il petto. Mi stringo le braccia attorno alla vita per cercare di ripararmi, ma la neve si insinua nelle mie scarpe rotte e bucate, nei vestiti, tra i capelli, ovunque. Non ha mai smesso di nevicare qui. È tutto coperto da un manto biancastro, compresi noi che passiamo tutto il giorno fuori a zappare la terra per un motivo ancora poco chiaro.
Le gambe di ciascuno di noi affondano fino al ginocchio nella neve, mentre camminiamo silenziosamente verso la grande piazza al centro del campo. Da altri dormitori affluiscono altre persone. Sono perlopiù tutti ebrei, con la stella a cinque punte sul braccio che li contraddistingue, mentre ci sono pochi di noi con il triangolo rosa, e quei pochi vengono emarginati completamente. Non che si schifino o altro, ma preferiscono starci alla larga, come se fossimo diversi da loro anche nell’attesa della morte.
Ci disponiamo in file ordinate fino ad occupare tutta la piazza. Rayon è dietro di me, lo sento vibrare come un asticella di legno, sento i suoi denti che battono violentemente per il freddo e il suo alito che si condensa in piccole nuvolette.
Poco dopo arrivano gli ufficiali, cinque o sei più il medico giornaliero che controlla le condizioni di ciascuno di noi. Camminano tra le file, urlando ordini incomprensibili in tedesco, scandagliandoci a fondo con lo sguardo, scrutando nelle nostre anime come se potessero vederci dentro, e non possiamo nemmeno alzare lo sguardo perché sarebbe una mancanza di rispetto e verremmo puniti con un turno di lavoro extra, o con chissà quale altro brutale castigo, o con la morte.
Calma.
Rilasso le mani fino ad ora strette a pugno e mantengo la testa fissa sul terreno bianco, evitando di muovermi anche soltanto per battere le palpebre e liberarmi dei fiocchi di neve sulle ciglia.
Calma.
Un ufficiale si ferma accanto a me, facendo cenno al medico barbuto con un paio di piccoli occhiali rotondi sul naso di avvicinarsi.
Calma. Non tremare. Stai calmo. Finirà presto, come ogni giorno.
Il medico mi ascolta il respiro con uno stetoscopio, annuendo piano, e non riesco a capire se la sua sia un’espressione di soddisfazione o disappunto. Mi controlla gli occhi spalancandomi le palpebre a forza, poi fa un passo indietro e dice qualcosa in tedesco all’ufficiale. Dopodiché mi sorpassano, passando a Rayon, ed io rimango col fiato sospeso mentre controllano anche lei. Quando infine sembrano soddisfatti e procedono verso il prigioniero successivo, tiriamo entrambi un sospiro di sollievo.
Ce l’abbiamo fatta anche oggi. A quanto pare, siamo ancora sani, o almeno lo siamo abbastanza per continuare a lavorare.
 Mentre attendiamo che il controllo finisca, sento improvvisamente un urlo da qualche parte tra le file. Ci voltiamo tutti, e vediamo due soldati che corrono ad afferrare per le braccia una donna. È una giovane ebrea, e la conosco. È del nostro stesso gruppo, dorme a qualche pagliericcio da me, ma da qualche giorno a questa parte la sentivamo tutti lamentarsi per dei dolori allo stomaco, la vedevamo diventare sempre più pallida, sempre più disidratata, con un colorito quasi viola e le labbra screpolate. Non parlava quasi mai, piangeva soltanto, a volte silenziosamente, altre volte gridando così tanto che le SS avevano dovuto sedarla o punirla facendola restare senza cibo, ottenendo come risultato che la sua situazione si aggravasse ancora di più.
E infine ecco che il medico ha notato qualcosa di strano in lei, e ora la porteranno via come succede quasi ogni giorno a chi diventa troppo debole per continuare a sopravvivere. Sono bocche da sfamare inutili e inservibili, perciò, secondo il loro ragionamento, meglio eliminarle. Meglio che spariscano per sempre.
La ragazza continua a urlare disperatamente, dibattendosi come un’ossessa tra le braccia dei due soldati, scalciando e tirando schiaffi e pugni, ma in un certo qual modo riescono a portarla via, lontano, lontano, lontano, fino a quando non la vediamo più.
Il campo intero è rimasto a guardare quella scena in un silenzio attonito quanto rassegnato, ma non appena i tedeschi cominciano a urlarci contro rompiamo le file e ci dirigiamo ognuno verso i nostri compiti.
C’è chi viene portato fino alla fabbrica di stoviglie a qualche chilometro dal campo, e ritorna soltanto a tarda sera. Sono quelli che stanno meglio di tutti, perché lavorano al coperto e hanno delle razioni maggiori. Poi ci sono alcune donne che lavorano nella villa strettamente adiacente alla recinzione, la villa del colonnello Quinn. Nessuno di noi lo ha mai visto, ma spesso intravediamo un’ombra solitaria spuntare dietro le finestre, o una figura sul balcone, ma nemmeno le ragazze che lavorano come domestiche per lui sanno che aspetto abbia o chi sia precisamente.
Infine ci sono quelli come me e Rayon, che lavoriamo semplicemente per ampliare ancora di più questo fottuto posto, e che non ci fermiamo fino a sera, quando riceviamo una misera porzione di pane nero e duro come pietra.
Rayon fa fatica più di tutti. Lei non mi dice mai nulla di quale sia stata la sua vita prima di finire qui, ma immagino non fosse abituata a fare lavori forzati e rimanere sotto la neve per intere giornate senza cibo né acqua. Eppure, non dice nemmeno una parola. Non un lamento quando deve sollevare grosse zolle di terra o mattoni pesanti, non un gemito quando le si spezzano le poche unghie rimaste, non un brivido quando lavoriamo in larghe pozzanghere di fango ghiacciato. Ammiro la sua forza interiore. So che non è da tutti una resistenza così accanita e orgogliosa.
“Sei religioso, Frank?” mi ha chiesto una sera, prima di addormentarci.
“No… direi di no”
Lei ha sorriso, stringendosi le ginocchia al petto e guardando verso il soffitto del dormitorio.”Io sì. O almeno, credo che ci sia qualcos’altro oltre a tutto ciò. Insomma, che senso avrebbe? Che senso avrebbe passare tutto questo, e poi morire così, se poi non ci fosse nient’altro dopo?”
“E’ da questo che prendi tutta la tua forza? Da Dio?” le ho chiesto io, quasi troppo sgarbato ma non riuscendo a farne a meno.
“No, Frank, no” mi ha risposto lei tranquillamente “La mia forza viene da me, e da nessun altro. Sarebbe bello avere qualcuno da cui attingere energie, qualcuno a cui pensare per cercare di sopravvivere… ma io non ho nessuno. Io ho solo me stessa. Non so se mi basti, e forse non lo saprò mai, ma mi adatto. Mi dico che ce la posso fare, e ce la faccio.”
In quel momento sono stato geloso. Ho invidiato la sua calma, la sua pacatezza in quelle parole, ho invidiato il fatto che lei non avesse nessuno a cui pensare, nessuno da cui sperare di ritornare, ho invidiato la sua resistenza fisica e morale, ma l’ho anche ammirata più che mai.
“Io rimarrò bella. È semplicemente quello che ho sempre voluto… essere apprezzata dagli altri, e anche se so che non potrò mai esserlo… io rimarrò bella. Fino alla fine.”
Rimarrò bella.
So che Rayon non si riferisce alla bellezza fisica. So cosa intende. Lo so benissimo. Vorrei… vorrei rimanere anche io bello, ma non lo sono ormai da tempo. Non lo sono da quando ho scoperto che il mondo è questo, questo schifo, non lo sono da quando ho perso la mia ingenuità, tanto tempo fa, non lo sono da quando ho iniziato a soffrire.
È così, e non posso farci niente.
Non penso mai alla mia famiglia, perché gli ultimi ricordi che ho di loro sono le immagini di mamma e nonna in lacrime, il volto colpevole di Rossana, gli occhi terrorizzati di Jamia. Non penso mai nemmeno a Gerard, o almeno mi costringo a non pensarci. È una necessità, come quella di respirare, perché se semplicemente mi balenasse in mento un nostro ricordo, felice o triste che sia, potrei cedere, e non devo.
Semplicemente cederei perché capirei di non potercela fare, capirei che non potremo mai più vederci, io non potrò mai più riabbracciarlo, perché, per quanto la speranza non sia completamente morta dentro di me, so bene che questa cosa – questo posto, questa situazione – è definitiva. È per sempre. E con “per sempre” intendo fino a quando non morirò, il che accadrà molto presto.
Magari ha ragione Rayon, e c’è qualcos’altro dopo la morte, e magari quel qualcos’altro ci permetterà di incontrarci lassù.
Magari.
Preferisco non sperare. Preferisco vivere alla giornata e basta.
A un certo punto della mattinata, quando alzo lo sguardo, noto quella ormai familiare figura sul balcone della villa del colonnello Quinn. Continuando a lavorare, strizzo gli occhi e cerco di vederci meglio, e capire se sia veramente lui.
È appoggiato con i gomiti sul davanzale: vedo una chioma scura, e un paio di occhi chiari che fissano in basso, scrutando con attenzione ciascuno di noi.
Mentre mi sto domandando come sia vivere accanto ad un campo di sterminio, e sentire ogni giorno i suoni, le voci, i rumori, l’odore della morte, capisco che l’uomo non sta guardando giù in modo generico, ma sta fissando una persona in particolare.
Poso la pala a terra e vedo una ragazza passarmi accanto con una cesta piena di abiti puliti. È un’ebrea italiana, sui vent’anni, con un bel viso chiaro e pulito e dei timidi occhi verdi. Credo si chiami Martha, o qualcosa del genere. La vedo sempre in compagnia della sorella maggiore zoppicante e probabilmente con qualche infezione che le costerà molto presto la morte. È una delle ragazze che svolgono il compito di cameriere nella villa di Quinn, e solo allora capisco che la persona che sta fissando l’uomo sul balcone è proprio lei.
La segue con lo sguardo passo per passo, fino a quando lei non arriva di fronte al portone dell’edificio e bussa alla porta, e una delle altre cameriere le apre e la fa entrare all’interno.
Il mio sguardo torna a posarsi sull’uomo alla finestra, che – ne sono sicuro al cento per cento – deve essere per forza il colonnello Quinn.
Per un attimo, i suoi occhi scrutano tra la gente, come se si fosse accorto di essere stato visto da qualcuno, e soltanto per una piccola frazione di secondo i nostri sguardi si incrociano ed io torno subito al lavoro, abbassando la testa e cercando di dimenticare quello che ho visto. In effetti, non so nemmeno cosa ho visto. So solo che potrebbe costarmi la vita, se il colonnello si rendesse conto all’improvviso che potrei dirlo a qualcuno.
 
 
 
La giornata si protrae ad un ritmo straziante, diventando sempre più fredda man mano che il sole tramonta. A sera, la neve si è trasformata in grandine, che grazie al forte vento ci crolla addosso con una violenza inaudita, facendoci quasi male. Vedo Rayon e il resto dei prigionieri arrancare assieme a me mentre scaviamo e costruiamo fondamenta per i nuovi dormitori, mentre mettiamo mattone su mattone, pezzo su pezzo, resistendo contro il freddo che ci paralizza le ossa e la disperazione che ci annebbia il cervello.
Perché siamo qui?
Quando finalmente suona l’allarme serale, quello che indica che la giornata è finita e dobbiamo ritirarci tutti nei dormitori, sento anche in lontananza un treno fischiare.
Nuovi prigionieri.
E ciò significa….
No.
Nonostante la mia promessa di non dover più assistere ad uno spettacolo del genere, purtroppo sono costretto a farlo mentre riponiamo le pale e il resto degli strumenti e passiamo proprio accanto al cancello principale, che in quel momento è aperto grazie all’affluenza di circa una cinquantina di gente che si riversa all’interno del campo, spaesata e spaventata come lo eravamo noi all’inizio.
Io e Rayon ci scambiamo uno sguardo malinconico, e poi li vediamo.
Sono più numerosi dell’ultima volta, ne sono circa una ventina. Alcuni soldati li fanno separare dal resto dei deportati e li radunano, invitandoli a prendersi per mano e poi a mettersi in fila indiana.
Bambini.
Solo bambini.
Li vedo mentre si scambiano sguardi quasi allegri, sicuramente contenti di essere scesi finalmente dal treno che li ha portati fin qui. Li vedo scambiarsi sguardi eccitati, convinti di stare andando in chissà quale bel posto, e invece i tedeschi li conducono via, lontano dal resto dei deportati, tra i quali mamme e papà e familiari disperati gridano e invocano i loro nomi, cercando di ribellarsi e correre dietro ai loro piccoli.
Noi siamo costretti a fermarci per lasciar passare i bambini, che ci fanno ciao ciao con la mano o ci fissano curiosi, ed io non so cosa fare.
Vado in panico, perché da un lato vorrei urlare di non andare, di non lasciarsi portare via, di scappare e non tornare mai più, dall’altro vorrei sorridere loro di rimando, cercando di rassicurarli, e che andrà tutto bene e rivedranno presto i loro genitori.
La parte più egoista di me mi dice semplicemente di abbassare lo sguardo e aspettare che tutto questo finisca, ed è ciò che faccio, come ogni volta. È la soluzione migliore, quella più semplice, quella che porta meno guai, e se vuoi sopravvivere qui devi imparare a fare questo tipo di scelta. Sempre.
And did you come to stare or wash away the blood?”*
Una voce sottile, delicata, riesce a farmi risollevare di nuovo il capo. È una bambina, tra gli altri, che sta cantando mentre saltella accanto agli altri. Potrà avere non più di dieci anni, con due codini rosa e un cappottino beige che si stringe addosso come se fosse la sua unica ancora, come se fosse la sua unica compagnia ormai.
Well tonight, well tonight, will it ever come? Spend the rest of your days rocking out just for the dead”
È una canzone che non ho mai sentito prima d’ora, ma è così triste che prima che possa rendermene conto mi ritrovo con le lacrime agli occhi, e quando guardo Rayon noto che anche lei sta fissando la bambina con un sorta di orrore misto a paura e tristezza negli occhi.
Did we all fall down?”
Ripete questa frase un paio di volte, e tutta la scena è così straziante, con il gruppetto di bambini che si allontana lentamente da noi, i genitori in lontananza che gridano ancora i nomi dei propri figli, le urla lontane, irraggiungibili, e poi la quiete che si diffonde quando il canto di quella piccola bambina serpeggia tra noi, tra i tedeschi che la guardano trucemente, tra i dormitori e gli edifici, salendo su su verso il cielo, e sembra quasi che si ripeta in un fragile eco, ma chiaramente udibile ovunque, anche a miglia da qui.
From the lights to the pavement… from the van to the floor… from backstage to the doctor…
Non posso più sopportare questa scena.
Quando i bambini si sono allontanati abbastanza, i soldati ci costringono ad avanzare e a tornare ai nostri dormitori, e noi obbediamo quasi con sollievo.
From te Earth to the morgue, morgue, morgue”
Queste sono le ultime parole che sento, prima che il gruppetto di bambini sparisca dietro l’angolo, diretto verso l’enorme edificio sormontato da due grosse ciminiere di ferro. L’edificio in cui svaniscano tutti quei bambini e tutti gli anziani che arrivano qui ogni volta. L’edificio dal quale non fanno più ritorno.
E quelle due ciminiere, dalle quali, durante la notte, spunta del fumo grigio, lento e inesorabile, che si libra verso le nuvole, e che porta con sé odore di bruciato, odore di morte.
Did we all fall down?”
Questa frase mi si ripete costantemente nel cervello, inarrestabile, cerco di scacciarla ma non va via, e mi accompagna fino a quando non mi stendo nel mio pagliericcio e chiudo gli occhi, provando invano a dormire.
Ora dovrebbe succedere. Nel giro di minuti. Posso quasi sentire ancora il canto di quella bambina, le risate ignare degli altri, i tedeschi che li invitano ad entrare in quel grosso stanzone per farsi una bella doccia.
E poi le urla.
Urla inudibili sì, ma io le sento ogni volta risuonare all’interno del mio petto, rimbalzando da un lato all’altro della cassa toracica, tormentandomi, impedendomi di addormentarmi.
Did we all fall down?
 
 
 
 
*Non ho tradotto la canzone in italiano semplicemente per dare di più l’idea, e perché comunque sarebbe davvero suonato male, ew, spero mi capiate
   
 
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