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Autore: Snow_Elk    08/02/2015    3 recensioni
Fuori pioveva, la finestra aperta lasciava entrare qualche goccia d’acqua che si infrangeva silenziosa sul pavimento. Fuori pioveva, sentiva la sinfonia della pioggia, ma lei non provava freddo, si sentiva bruciare dentro. Quando riaprì gli occhi trovò nello specchio dinanzi a lei il riflesso di due rubini che la fissavano nel buio della stanza, uno sguardo che non aveva bisogno di descrizioni, uno sguardo che pretendeva una risposta silenziosa e il suo fiato corto, i brividi che la facevano tremare gliel'avevano appena data. Non aveva scampo, era diventata schiava di una passione insana di cui aveva assaporato solo il principio.
“ Sei mia… piccola Alice” un solo, unico sussurro e poi solo il buio.
Genere: Erotico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri
Note: Lemon | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Sovrannaturale
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A Black Lotus as Night

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Episodio VIII- Emozioni Sbiadite
 
Si era lasciata andare, di nuovo, a qualcosa che fino a poche settimane prima non avrebbe nemmeno saputo immaginare, fantasticando come può fare un ragazzino mentre osserva le nuvole che viaggiano silenziose nel cielo.
Si era abbandonata, di nuovo, a sentimenti ed emozioni che erano più forti di lei, forse della sua stessa volontà, a quelle stesse emozioni che se la giostravano come una marionetta, che bruciavano più dell’inferno.
Le labbra di Xem non bramavano più solo le sue, ma ogni centimetro della sua pelle, del suo corpo, ed ogni singolo bacio era come una scossa elettrica, adrenalina pura che le fece sussultare il cuore, l’anima, che le incenerì ogni pensiero ancor prima che potesse essere formulato.
E lei ricambiava, per ogni bacio ricevuto gliene concedeva due, per ogni carezza delicata lo stringeva ancora di più a sé, per un ogni gemito strappato affondava ancor di più le unghie nel suo corpo scolpito e immacolato come quello di una statua, come quello di un dio.
 
A differenza di Debran, Xem non aveva tentato minimamente di spogliarla, lo stava facendo solo con gli occhi e questa cosa la faceva sentire ancora più eccitata, ancor più desiderata e quasi si vergognò a pensare qualcosa del genere mentre la morsa incandescente della labbra del gentiluomo si chiudeva per l’ennesima volta intorno al suo collo strappandole un respiro estasiato.
Erano lì, avvinghiati l’uno all’altra su quel divano, a scambiarsi baci peccaminosi, a sussurrarsi promesse d’amore, a godersi quei frammenti di un tempo che avevano distorto loro stessi per essere lontani da tutto e da tutti, per non essere disturbati mentre davano sfogo alle loro passioni più recondite, ad un desiderio che non credevano nemmeno di covare nei loro cuori, nelle loro anime lacerate da un sentimento che non aveva un volto, ma solo una voce che urlava di essere soddisfatta.
 
Erano lì, quando si sentì attraversare da una sensazione sgradevole e sconosciuta che la fece rabbrividire come una folata di vento gelido. Allontanò Xem e i suoi baci da sé, a malincuore, e deglutì come se d’un tratto avesse la gola terribilmente secca.
- C’è qualcosa che non va? – le chiese, perplesso, l’uomo.
Lei non rispose, era troppo presa a guardarsi le mani, per il semplice fatto che al posto di due ne vedeva quattro e per giunta sfocate. Allucinazioni? Stanchezza?
- Alice, che hai? – lo sentiva ancora vicino a sé, il suo calore, quel profumo di petali calpestati così intenso e a tratti aspro, era vicino, ma quella che si sentiva assente era lei.
- Non lo so, ti prego, fermiamoci – riuscì a formulare quella banale risposta, che in tutta sincerità non convinceva nemmeno lei, ma l’uomo annuì e la liberò da quell’abbraccio così consolatore e ammaliante. Un attimo prima stava saziando la sua anima con emozioni profonde, surreali, sensazioni color cremisi che ardevano come le stelle nell’oscurità imperatrice della notte ed ora, ora stava fissando sconcertata tutto ciò che la circondava, come se non facesse più parte di quel mondo.
 
- Alice, che ti prende? – della domanda di Xem, intrisa di preoccupazione sincera, le giunse solo un flebile eco, mentre si alzava, facendo cadere alcuni cuscini e parte delle coperte che fino a pochi minuti prima avevano nascosto con estrema fedeltà il loro gioco d’amore e passione.
- Xem… io… mi sento strana – balbettò, barcollando verso il comò più vicino, per avere qualcosa a cui appoggiarsi, per non cadere, perché il mondo intorno a lei iniziava a ruotare vorticosamente, mentre dentro qualcosa si agitava, urlava, la stava letteralmente dilaniando con artigli invisibili.
Sopra il comò c’era uno specchio ovale e quando alzò lo sguardo per vedere lo stato in cui era ridotta rimase sconcertata e un’espressione mista tra stupore e ansia le scolpì il viso tramutandolo in una maschera di angoscia.
 
Xem fece per avvicinarsi, per accorrere in aiuto della sua piccola protetta, di quel loto nero che sembrava che d’un tratto stesse appassendo senza una motivazione ben precisa, ma Alice lo fermò:
- Non ti avvicinare! – esclamò, tenendo la testa bassa, il respiro corto come se avesse corso, una mano poggiata sul comò per non cadere e l’altra premuta sul petto, quasi a voler trattenere il cuore che minacciava di esplodere da un momento all’altro – Per favore - aggiunse, con un filo di voce.
Xem la fissò allibito, incredulo, lo sguardo perso alla ricerca di una possibile risposta a quello strano comportamento. Avrebbe potuto rivoltarla come un calzino, farle sputare il rospo, lo sapeva fin troppo bene, ma non lo fece e questa reazione la lasciò di sasso, mentre tentava inutilmente di riprendere fiato.
 
- Alice…- la chiamò, con una tale dolcezza che si sentì morire dentro: avrebbe voluto saltargli addosso, cingergli il collo con le braccia, lasciarsi andare contro il suo petto e piangere, affondando la faccia nelle increspature della camicia e soffocare nel profumo dolciastro dei petali calpestati. L’avrebbe voluto, con tutta se stessa, ma non poteva, non dopo aver visto quella cosa nel riflesso dello specchio.
- Xem…- sussurrò, trattenendo a stento le lacrime, sopprimendo come poteva l’odio per quello che stava passando, un odio nel quale stava annegando, lentamente.
-Xem mi dispiace…- prima ancora che l’uomo potesse rispondere un varco oscuro si aprì accanto a lei e si lasciò cadere al suo interno, scomparendo nel nulla, lasciandolo da solo coi suoi dubbi e le sue domande.
 
Xem fissò il punto in cui pochi istanti prima si trovava Alice, le piccole bruciature lasciate dal varco oscuro sul comò e il pavimento, infine il divano disfatto dove poco prima stava per fare sua Loto Nero, la Dea Falce, o più semplicemente la donna di cui si era innamorato fin da quella notte di pioggia e fulmini. Sì verso con nonchalance un bicchiere di liquore e dopo averlo tirato giù in un sol colpo lo scaraventò come se niente fosse contro la parete, mandandolo in frantumi. Un mezzo sorriso gli increspò le labbra mentre afferrava la bottiglia, lasciandosi andare sul divano a fissare il soffitto, a domandarsi per quanto tempo quella commedia sarebbe andata avanti. Quanto ancora?
 
                                                            […]
Alice si ritrovò dentro casa sua e più che farla atterrare al centro della camera da letto il varco l’aveva letteralmente buttata sul pavimento con le relative conseguenze e imprecazioni al gran seguito.
Scosse la testa per levarsi quella sgradevole sensazione di mancamento, ignorando il nodo allo stomaco che per poco non la fece vomitare, e si massaggiò con delicatezza le spalle e il ginocchio che erano state le vittime principali di quella rocambolesca caduta. Le ferite causate dello scontro con Lico facevano ancora male, probabilmente sanguinavo ancora, ma quello era l’ultimo dei suoi problemi, aveva cose ben peggiori a cui pensare.
 
La stanza era immersa nella penombra e alcune candele bruciavano silenziose sparse qua e là, ormai consumate e dimenticate. Il disordine regnava sovrano, c’erano oggetti vari e vestiti abbandonati qua e là, pile di libri che minacciavano di crollare come un castello di carte da un momento all’altro e trofei di questa o quella battaglia ormai sbiaditi dal tempo, echi indistinti di un passato glorioso, il suo.
Si rialzò, massaggiandosi le tempie per calmare quel tumulto di pensieri che le stava opprimendo il cervello e si diresse verso il grande specchio a rombo che se ne stava appeso in solitudine sulla parete opposta a quella occupata dal grande armadio a quattro ante.
 
Aveva paura di specchiarsi di nuovo, di rivedere ciò che aveva appena intravisto a casa di Xem, ma non poteva tirarsi indietro, doveva far luce su quello strano avvenimento, su quella sensazione anomala che le si era appiccicata addosso e che le ronzava intorno come una nebbia subdola.
Si avvicinò allo specchio con estrema lentezza e accese due lampade ad olio abbandonate lì vicino per vederci meglio, ma quando alzò lo sguardo per incontrare il suo riflesso si sentì nuovamente mancare: l’occhio sinistro era diventato rosso, un rosso accesso e innaturale, in pieno contrasto con il color ametista che le contraddistingueva gli occhi e, come se questo già non bastasse, parte del suo volto era letteralmente mutato. Che diavolo le stava succedendo? Tutto ciò che stava vedendo non aveva alcun senso.
 
 
Avvicinò una mano per sfiorare quella parte del suo volto che era cambiata, quasi come se la sua stessa faccia non fosse stata altro che una maschera: sembrava una sorta di illusione ottica, ma non era né ubriaca né tantomeno vittima di un qualche sortilegio, ciò che stava vedendo era dannatamente reale.
Per metà faccia era l’Alice di sempre, con il suo sguardo a tratti assente a tratti deciso, quell’ametista incastonata che brillava se colpita dalla luce, i capelli corvini legati nella coda e neri come la notte stessa, quel mezzo sorriso sempre presente.
Ma l’altra parte, era completamente diversa: occhio rosso, un rubino che sembrava bruciare come una piccola fiamma, sguardo malinconico, sulle labbra solo il fantasma di un vecchio sorriso, i capelli sempre neri ma dai riflessi violacei e più scompigliati del solito. Tutto ciò non aveva senso.
Quei particolari, quei dettagli le ricordavano qualcuno, ma non appena tentò di ricordare chi fosse una fitta di dolore lancinante la sconvolse e la costrinse a chiudere gli occhi, mordendosi le labbra e poggiando entrambi le mani sulla testa per cercare quasi di trattenerlo, senza alcun successo.
 
Quando finalmente riuscì a riaprirli era tornata in sé ma lo specchio rifletteva qualcos’altro oltre al suo aspetto naturale e ciò la sconvolse più di quanto non avesse già fatto l’esperienza anomala appena vissuta: nel riflesso si intravedeva una lapide in marmo, circondata da mazzi di fiori, sormontata da una piccola statua che ritraeva un angelo in preghiera, una tomba che portava un nome familiare, il suo.
Arretrò sconcertata, incredula, osservando tutte quelle persone che si fermavano a porgere un ultimo saluto alla Dea Falce, al capitano dei Loto Nero: Mifune, il samurai la cui lama non aveva mai trovato pari, Shida, lo scienziato dalla mente brillante e al tempo stesso inquietante, Sefia, la dama bianca, Kikuri, la ballerina oscura e sua cara amica. C’erano persone che conosceva, altri che non avevamo mai visto in vita sua e tutti si avvicinavano alla tomba per sfiorarla con un dito, mormorare qualche parola, versare una lacrima o lasciare un piccolo ricordo.
 
Tra tutte quelle persone c’erano una in particolare che le dava le spalle, inginocchiata a terra, accanto alla tomba, singhiozzava, piangendo a dirotto, urlando il suo nome, stringendo tra le braccia qualcosa. Ed era come se lei fosse lì, riusciva a sentire la presenza delle altre persone, la loro tristezza, il pianto della ragazza, la pioggia che scendeva copiosamente, era tutto così dannatamente reale, come se fosse entrata nello specchio, nel suo mondo riflesso.
- No…- sibilò, stringendo i pugni, accorgendosi incredula che aveva iniziato a piangere anche lei – No, no, no,no, - tremava, stritolata da un tumulto interiore di emozioni contrastanti.
- Non può essere, io sono viva… sono viva! Non sono morta, è solo una sporca menzogna! – esclamò e accecata dalla rabbia scagliò un pugno contro lo specchio e la sua superficie liscia si riempì di crepe, trasformando il suo riflesso in un orribile kaleidoscopio di sguardi e immagini inumane.
 
Per un attimo osservò la mano insanguinata, ma non se ne curò, e continuò a prendere a pugni lo specchio finché non andò completamente in frantumi.
Era furibonda, e ancor più confusa, stremata da quelle allucinazioni o qualsiasi altra cosa fossero, sconvolta da un’emicrania che la stava facendo impazzire e senza più riuscire a ragionare evocò la falce: furiosa iniziò a devastare la sua stessa camera da letto, spegnendo le lampade ad olio, distruggendo qualsiasi cosa le capitasse a tiro, rimanendo nella completa oscurità, finché non crollò a terra senza più forze, circondata da una distruzione che rispecchiava ciò che aveva provato dentro di sé. Per un’istante sentì che la sua stessa anima era andata in frantumi.
 
                                                             […]
 
3 Giorni Dopo
 
L’Ospedale di Nostra Signora della Misericordia, che in verità altro non era che Maria l’Angelica, era a dir poco imponente e se avesse dovuto trovare da sola la stanza che stava cercando probabilmente si sarebbe persa, più e più volte.
Raggiunse silenziosa uno dei banchi informazione e dopo essersi sorbita lo sguardo perplesso e curioso dell’infermiera posta dietro il bancone si fece forza per pronunciare quella semplice domanda:
- Dove posso trovare la paziente D-34? – a causa dei continui scontri l’ospedale era stato costretto a catalogare i pazienti con lettere e numeri, usare i nomi era diventato troppo caotico. L’infermiera le scoccò un’occhiata prima di calare lo sguardo sul registro che aveva davanti.
- D-34? Terzo piano, seconda zona degli alloggi, terza stanza a destra subito dopo aver attraversato il corridoio principale. Chiaro? - nel pronunciare quella frase non la degnò nemmeno di uno sguardo, troppo presa da tutte le scartoffie che circondavano il registro dei pazienti.
 
Alice annuì e si incamminò di tutta fretta verso la sua destinazione e, dopo aver sbagliato ugualmente due volte il percorso, finalmente la raggiunse. La porta era aperta e si poteva vedere l’interno della stanza: per lo più era vuota, fatta eccezione per alcuni piccoli mobili bianchi, varie strumentazioni mediche e un grande letto su cui giaceva una donna dai capelli corvini come i suoi, ma più corti.
Aveva alcune flebo collegate ad entrambe le braccia, una mascherina collegata ad un enorme macchinario alle sue spalle e aveva i polsi e la fronte fasciate, così come parte del torace. In fondo alla stanza c’era un piccolo divanetto su cui qualcuno probabilmente aveva dormito più volte a giudicare dai cuscini, dalle coperte, e da altri oggetti che erano stati abbandonati lì dal loro proprietario, qualcuno che vegliava sulla donna.
 
Sul comodino accanto al letto c’erano alcuni oggetti personali della paziente, tra cui due che attiravano particolarmente l’attenzione: un kunai e una rosa nera come la morte che sembrava non poter appassire mai.
La donna sembrava essere caduta in un sonno profondo, gli occhi chiusi, il corpo immobile, le lunghe dita affusolate inermi sulle lenzuola e il torace che si muoveva ad intervalli regolari, seguendo il suo respiro soave. Era viva sì, ma in coma.
Alice si avvicinò, osservandola con gli occhi lucidi: era passato quasi un anno da quel tragico giorno e non l’aveva più vista da allora, non era mai riuscita a farsi coraggio per andarla a trovare, un po’ per paura un po’ per altro, ma ora era lì, proprio davanti a lei e non sembrava esser passato nemmeno un singolo giorno.
Si sedette accanto al letto e posò la mano fasciata sulla sua, trattenendo le lacrime:
- Sono tornata, Kikuri, sono tornata…-
   
 
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