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Autore: Mannu    08/02/2015    1 recensioni
C'è chi butta via qualsiasi cosa senza starci a pensare nemmeno un minuto; c'è chi non riesce a buttare via nemmeno uno spillo. Ma c'è anche chi butta via una stazione spaziale! Quando la discarica si chiama Giove bisogna assicurarsi di aver preso davvero tutto prima di staccare la corrente e andarsene... La prima avventura solitaria (e involontaria) di Spyro con un ospite davvero inatteso.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ferraglia spaziale'
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Cinque secondi per Spyro
2.

Vagò cercando di fare meno rumore possibile fino a quando si imbatté in un portello stagno. Esitò con la mano sul pulsante di apertura: il meccanismo avrebbe fatto molto rumore. Gli altri due portelli stagni avevano addirittura faticato ad aprirsi a causa del prolungato inutilizzo, gemendo e stridendo per la mancanza di lubrificazione. Se c'erano militari a bordo sarebbero accorsi senza dubbio. Dubitava che vedendolo abbigliato in quel modo poco appropriato avrebbero colto il lato umoristico della situazione. I militari spesso dimostravano di possedere lo stesso senso dello humor delle armi che impugnavano. Lo sapeva bene: era stato lui stesso un soldato.
Premette il pulsante. Doveva trovare il centro di comando di quel posto, o almeno il ponte di controllo delle strutture di ormeggio. Con un po' di fortuna sarebbe riuscito a rifornire la cimice e a ripartire. O a lanciare un segnale di soccorso. Con la speranza che, se avesse incontrato i soldati, gli permettessero di spiegarsi senza prima ridurlo a un colabrodo.
Come previsto sbucò nel corridoio anulare. Subito di fronte a lui trovò un portello stagno diverso dagli altri, più grande. Già aperto. Si vedevano il vano illuminato di un montacarichi e i primi gradini di una rampa di scale: un chiaro invito a esplorare in quella direzione. Non si fece pregare: salì le scale in silenzio ignorando il montacarichi che pure sembrava attivo.
L'aveva trovato. Se fosse il centro di controllo dell'intera piattaforma o solo della porzione riservata agli attracchi non poteva dirlo. Anche quei locali avevano subito la stessa sorte di quelli che aveva già visitato: un trasloco pressoché completo. Istintivamente si guardò intorno e poi volse gli occhi al pavimento. Qui le tracce erano tali che la polvere era scomparsa dalla porzione centrale del pavimento: c'erano tracce di scarponi ovunque, e solchi di ruote. Recenti, avrebbe detto: si vedeva bene la superficie di gomma consumata.
Si riscosse dal torpore che l'aveva invaso. Chiunque avesse lasciato quelle tracce avrebbe potuto comparire da un momento all'altro. Rimpianse di non aver più praticato nemmeno i rudimenti delle più elementari tecniche di difesa che aveva appreso durante il servizio militare. Ma quello che gli avevano insegnato era come usare il fucile d'assalto una volta esaurite le munizioni, e lì intorno non c'era nulla che faceva al caso suo: nemmeno un pezzo di tubo. Non avrebbe potuto fare nulla contro un avversario armato.
Il problema più grosso era un altro, però: se quello era stato il centro di comando, come suggerivano le matasse di cavi dati tranciati, le botole nel pavimento che ostentavano scatole di alimentazione disattivate e i fori nelle pareti per il montaggio di schermi di grosse dimensioni, ora non lo era più. Non c'erano più nemmeno le pareti divisorie: poteva immaginare com'era stato suddiviso quell'ambiente guardando i segni per terra, le impronte lasciate negli anni dai mobili, i tratti di pavimento consumato dal passaggio delle persone.
Gli sembrò di udire qualcosa sferragliare. Subito dopo il montacarichi si animò. Ma c'era qualcos'altro. Una voce, profonda. Cantava.
- ...sulla cassa del morto, oh oh oh, e una bottiglia di rhum...
Mentre decideva se tentare di nascondersi o aspettare lì qualunque cosa fosse successa, il montacarichi mugolò salendo dal livello sottostante a velocità insospettabile. Ne uscì un rumoroso carrello metallico, spinto da due mani grosse e un po' pelose. Anche le braccia che uscivano da una sgargiante camicia a fiori gialla, rossa e bianca erano grosse e pelose.
- Quindici uo.... tu?
Lo riconobbe immediatamente. Basso, tarchiato e panciuto, robusto al punto di riempire con i bicipiti le maniche corte della camicia a fiori. L'espressione luciferina e canzonatoria, anche nella sorpresa di quell'incontro inatteso, lo rendeva inconfondibile.
- Se stai cercando il solarium ho brutte notizie per te: quella zona è decompressa.
Si era ripreso prima lui. Lo ricordava dotato di una certa prontezza di spirito. Era quell'amico di Miki, quello che la chiamava “tette di zucchero”. Quello con due manipolatori cibernetici attaccati alla schiena. Quello tra tutti che meno gli piaceva: Morgan.
- Che cazzo ci fai qui? - pronunciarono quella frase quasi all'unisono.
- L'ho chiesto prima io – aggiunse subito Morgan, sorridendo ma conservando un atteggiamento di sospettoso distacco. Glielo disse, raccontandogli in modo estremamente sintetico ciò che gli era successo, omettendo la maggior parte dei dettagli significativi come la presenza della cimice ormeggiata. E inventandosi il resto.
- Bravo, Zebrinsky... l'ultima cosa che avrei detto di te è proprio che ti avrei visto diventare un j-diver.
Si rese conto di conoscere solo il soprannome di quell'uomo. E che non si era ancora abituato al fatto di essere tatuato.
- Non è solo il tatuaggio... i j-diver sono gli unici a scendere così dalle loro cimici... e arrivare qui a bordo di una di quelle tombe volanti è l'unico modo di attraccare coi sistemi automatici. Non mi trattare da coglione, eh? Come sta Miki? Lei sa di questo tuo nuovo passatempo?
Inutile innervosirsi, si disse con l'amaro in bocca. Me la sono cercata.
- Lascia perdere Miki... dimmi piuttosto come posso fare a togliermi da questa situazione! - il pensiero volò fugacemente su Niharra dove Miki lo stava aspettando. In quale stato d'animo, si chiese. Lo aveva di certo seguito nel suo volo e doveva anche averlo visto sparire dagli strumenti. Gli si strinse il cuore per il dispiacere, serrò i pugni per la frustrazione.
- Hey, non ti scaldare, eh! Perderesti quel bel colorito bluastro che hai ora...
Si trattenne dal replicare a tono. Lo stava provocando. Ignorarlo era la soluzione migliore. Decise di giocarsi l'ultima carta che gli era rimasta.
- Smettila di fare lo spiritoso... com'è la situazione qui? Cosa sai dei soldati?
- Soldati? - Morgan corrugò la fronte in segno di preoccupazione, per distenderla subito dopo – Ah, avrei dovuto immaginarlo che un bravo ragazzo come te non poteva non aver fatto parte degli scout... hai visto le impronte, eh?
- Certo, e... - indicò intorno a sé, intenzionato a comunicare l'urgenza di trovare una scappatoia.
- Questi soldati?
Morgan posò rumorosamente un piede sul ripiano del carrello vuoto. Uno stivale da combattimento, allacciato a metà.
- Non contare sulla carica finale dei nostri, scout... siamo soli io e te qui.
Si sentì ridicolo. Morgan si stava apertamente facendo beffe di lui ormai.
- È proprio una giornata no, eh? Coraggio, capita a tutti...
Morgan si lisciò la testa lucida e riprese a spingere il carrello vuoto. Non rispose quando gli chiese dove stesse andando, non lasciandogli altra scelta che seguirlo. Attraversarono diversi altri locali, tutti spogli e abbandonati. E sporchi, molto sporchi. I piedi e le mani erano ormai intorpiditi dal freddo e cominciava a non poterne più davvero. Tremava. Era insensibile al punto che solo guardandosi i piedi si accorse di avere le ciabatte piene di sporcizia grigiastra raccolta camminando. Morgan si diresse verso un grosso portello stagno: si leggevano ancora i segnali che lo indicavano come l'hangar. Tirò un sospiro di sollievo: c'era davvero un'altra nave ormeggiata, quindi.
- Dai uno sguardo dalle finestre della stanza qui a destra, ma non fermarti troppo che fa freddino.
Fece come gli era stato detto, per istinto o per curiosità, e aprì la porta. L'aria fredda sembrò tagliargli la cassa toracica e raggiungere i polmoni per la via più breve. Dopo pochi respiri gli doleva la testa. Era la stanza di osservazione: solo una spessa vetrata incrostata di ghiaccio lo separava dal vuoto dello spazio. Davanti ai suoi occhi c'era un ampio hangar mezzo smantellato, aperto sul nulla interplanetario. Si precipitò fuori prima di congelare davvero. Quello è pazzo! Per un pelo non ci lascio la pelle, si disse infuriato. Avrebbe voluto gridare, ma gli facevano male i polmoni e la mascella non riusciva a stare ferma. Batteva i denti senza potersi fermare. Scese la rampa, seguendo il clangore del carrello vuoto. Era l'altra metà dell'hangar, ancora intatta.
- Di là c'era il collegamento alla raffineria – disse Morgan da dietro una montagnetta di materiale eterogeneo ammucchiato su una delle piazzole di carico – quando l'hanno smontata e portata via non si sono preoccupati di tappare il buco.
Buco, si chiese lui. Sono rimaste due pareti monche e un pezzo di pavimento, io la chiamerei voragine. Ma non riuscì a proferire parola: era troppo impegnato a cercare un briciolo di calore stringendosi su se stesso.
Morgan frugava tra gli oggetti ammucchiati alla rinfusa. Ne estrasse con soddisfazione una tuta da meccanico lacera e sporca fino all'inverosimile. Gliela porse.
- L'avevo messa da parte per farne degli stracci: fanno sempre comodo, sai? – la sua smorfia sempre allegra rasentava l'insolenza. Sembrava divertito, ma soprattutto che si divertisse alle sue spalle.
Non esitò nemmeno un istante. Era stretta di spalle, sottile e non migliorò di molto la situazione, ma nonostante tutto era decisamente meglio che stare in mutande. Pensando al lungo, caldo bagno di schiuma che si sarebbe concesso una volta rientrato su Niharra, ignorò lo sporco e la puzza e si strinse in quella consumata tuta da meccanico.
- Volevi sapere qual'è la situazione? - lo vide cacciare una mano in una tasca sformata come il resto dei pantaloni di foggia militare. Ne estrasse un bracciale olo rotto che proiettò a mezz'aria un conto alla rovescia.
- È presto detto: ti trovi su CA-C/SH1, altrimenti nota come Jenny's Folly, una vecchia piattaforma di estrazione gioviana abbandonata, ora in piena fase di decadimento orbitale. Se ti stai chiedendo quanto tempo rimane prima del botto...
Gli mostrò l'ologramma col conto alla rovescia: tredici giorni, due ore e spiccioli.
- E tu che ci fai qui? - non riuscì a evitare di balbettare per il freddo.
- Torniamo di là che fa un po' più caldo.
Si stava divertendo, era evidente. Lo seguì come un cucciolo: non aveva scelta. Si fermarono a poca distanza da dove si erano incontrati per la prima volta, usando un mobile rotto e rovesciato come sedile. Era gelido ma non c'era altro.
- Che cazzo ti ha detto il cervello per decidere di attraccare qui...
- Allora non hai capito – sbottò, meravigliandosi della grandezza delle nuvolette bianche che si formavano davanti alla sua bocca – non ho avuto scelta. Sono a secco!
- E pensavi di rifornirti qui?
- Non sapevo nulla di questo posto... visto da fuori è uguale agli altri. E non mi hai ancora detto cosa ci fai tu qui su questo rottame in caduta.
Morgan si strinse nelle spalle e spostò lo sguardo in giro, come se potesse trovare gli argomenti sulle lontane pareti spoglie che li circondavano.
- Faccio... cose...
Reticente, si disse. Glielo si leggeva in viso a chiare lettere. Lo incalzò e senza troppi sforzi riuscì a tirargli fuori qualcosa di più vicino alla verità. Era sbarcato da una nave col compito di razziare tutto il possibile mentre i suoi compagni, o per meglio dire complici, andavano a rifornirsi di protomateria lì vicino per tornare indietro.
- Ho trovato un sacco di roba ancora utilizzabile, sai? Ho pescato perfino un motivatore che si può interfacciare a una IA, roba che costa. Peccato che la porzione abitativa sia decompressa: chissà quante cose ci sono ancora lì dentro.
Estrasse di nuovo il bracciale olo e mostrò un secondo conto alla rovescia, a un paio d'ore appena dallo zero.
- Non manca molto ormai e i miei soci passeranno a prendermi: caricheremo tutto e arrivederci.
   
 
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