PREVIOUSLY ON LKNA: Bellocchio
e Serena giungono ad Altoripoli, dove è in corso una festa in spiaggia per il
giuramento del nuovo presidente Lysandre Faubourg. Per cause ignote diversi
apparecchi hanno un malfunzionamento, scatenando un incendio in cui i due
aiutano Cornelius, venditore di frutta schiacciato da un traliccio. Ospitati a
casa sua per ringraziamento scoprono che l’intera Kalos è vittima di roghi
simili; solo in quel momento Bellocchio sembra accorgersi di aver perso qualcosa
in spiaggia e si getta freneticamente alla sua ricerca. Quando Serena lo
raggiunge lui pronuncia una strana, enigmatica frase.
« Tra dodici ore non avrò la
minima idea di chi tu sia ».
« Le ho già detto chi sono. Ora
mi faccia entrare ».
Certe persone si potevano sentire
intimidite dagli imperiosi cancelli del Palais de Saint-Honoré, da più di
centotrent’anni residenza ufficiale del Presidente di Kalos e Grande Assessore
di Luminopoli. Ginger lo affrontava a testa alta e schiena dritta, persino nel
pietoso stato in cui era ridotta se raffrontata alla guardia che da dieci minuti
le negava l’accesso, un monumentale ispanico che non fosse per il colore della
pelle le avrebbe ricordato molto il suo collega Kibwe.
« L’appartenenza alla fondazione
Flare non le garantisce un accesso gratuito, men che meno se il Presidente non
c’è. Se ne vada o dovrò avvertire le autorità di competenza ».
La donna alzò gli occhi al cielo.
Sapeva benissimo perché la trattava con tanta ostilità: la sua uniforme bianca
era sgualcita, i suoi capelli spettinati e il trucco disfatto. D’altronde
sfidava chiunque a uscire meglio di così da una notte all’addiaccio ai piedi del
Palais per reclamare un’udienza. Al suo arrivo a Luminopoli la sera prima
avevano già chiuso i battenti, ma si trattava di un colloquio troppo urgente e
la sua reazione istintiva era stata un accampamento tenace.
« Quando arriverà il Presidente?
».
« Non sono autorizzato a
dirglielo ».
« È molto utile, a quanto vedo ».
Un uomo di passaggio,
probabilmente attirato dal diverbio in corso, si intromise nel dialogo «
Scusate, c’è qualche problema? ».
Il buttafuori reagì
impulsivamente, sentendosi attaccato da due fronti « Se ne stia fuori, signore.
E lei, Xaad o quello che è, credo che un neopresidente abbia di meglio da fare
il suo primo giorno che stare a sentirla ».
« Se permette decido io
cosa voglio fare il mio primo giorno ».
Sia Ginger che la guardia
tacquero di colpo, storditi, rivolgendo la loro attenzione al terzo arrivato.
Era vestito in abiti senz’altro distinti, ma fin troppo sgargianti e atipici per
un luogo austero come Saint-Honoré, in genere frequentato unicamente da pinguini
in business suit. Eppure nonostante il
timbro di voce più mansueto di quello categorico con cui demoliva gli esigui
detrattori in televisione, non c’era dubbio che quel soggetto fosse Lysandre
Faubourg, da poco più di dodici ore nuovo Presidente della Regione.
« Mi… Mi scusi, non l’avevo… »
farfugliò il gorilla « Sono mortificato! Questa donna ha cercato di entrare in
sua assenza! ».
Lysandre si voltò verso Ginger e,
riscontrato che doveva essere membro della sua associazione, domandò con il suo
usuale sorriso carismatico « Chi sei? ».
« Xaad, Ufficiale Flare e leader
della Seconda Unità ».
« Ah, certamente, Xaad! Xaros mi
ha parlato di te. Condoglianze per tuo fratello, è stata una perdita terribile
per la fondazione ».
Ginger provò al tempo stesso
rammarico al ricordo dei brutti avvenimenti del Le Crésus Hotel e onore all’idea
che il suo capo sapesse ciò che era accaduto. « La ringrazio, signore ».
Lysandre annuì come a ribadire la
sua partecipazione al dolore; poi, quasi volesse sbeffeggiare la guardia,
proseguì « La prego, non stiamo qui a infreddolirci. Posso accompagnarla nel mio
ufficio? ».
Quando Ginger rientrò
nell’elegante studio privato del Presidente, il cui arredamento principe era un
magnifico candelabro che si rifletteva nello specchio dietro la scrivania –
quasi l’architetto avesse voluto farlo ammirare contemporaneamente da due
angolazioni per esaltarne la finezza –, non poté che sentirsi a disagio.
Lysandre le aveva concesso di usare il suo bagno per rimettersi in sesto e nel
frattempo aveva ordinato personalmente la colazione ora artisticamente disposta
su un vassoio appoggiato al suo tavolo. Se si fosse trattato di chiunque altro
la donna avrebbe pensato che sarebbero seguite delle avances, ma l’uomo
che le stava davanti doveva essere l’unico in tutta Kalos da cui non se le
sarebbe attese.
« Prego, siediti. Avevi detto
croissant e caffè, giusto? ».
Ginger annuì e sorrise per quanto
trovava bizzarra la situazione « Grazie mille, signore. È troppo gentile ».
« Non esiste qualcosa come
troppo gentile. Serviti pure ».
« A dire il vero volevo parlarle
di una questione urgente ».
« Perché non fare entrambe le
cose? ».
L’ingegnera era sempre più
sorpresa. Non aveva mai incontrato Faubourg di persona, avendolo intravisto solo
una volta alla propria nomina a Ufficiale – nella quale occasione, pressato dai
suoi compiti di Intermediario, non aveva potuto trattenersi. Gliel’avevano
descritto come un individuo eccentrico, ma mai si sarebbe immaginata fino a
quale punto quell’affermazione fosse veritiera.
Dapprima si sedette e sorseggiò
il caffè con un po’ di resistenza, poi addentò il cornetto realizzando la fame
tremenda che l’attanagliava. Divorò il cibo in un batter d’occhio, abbozzando
poi un tentativo di scuse per il comportamento inappropriato.
Lysandre la fermò sul nascere
alzando la mano « All’affamato spetta il pane che si spreca nella tua casa.
Parla pure ».
« Ieri sono stata al Consiglio
dei Superquattro ».
Il presidente ridacchiò, quasi
immaginasse l’ovvio seguito – il che era più che logico, considerando la sua
esperienza con tale organo istituzionale. « Non ti han fatto parlare, vero? ».
« No ».
« Beh, non ti preoccupare, non
sono come loro ».
La sensazione di disagio di
Ginger si acuì. Non si era fatta problemi ad attaccare i Superquattro, che non
erano cariche meno importanti di quella che aveva davanti, ma per qualche
ragione l’idea di esporre le sue idee stravaganti a Faubourg la imbarazzava.
Ciononostante decise di raccontare tutto: del furto di zinco, della scomparsa
dei gioielli e, per ultimo, della sua vaga ipotesi esplicativa.
« … Lo zinco è un catalizzatore
sinaptico, per questo è parte della lega che compone le Poké Ball. Ma oltre a
sapere che hanno rubato un generatore di quel tipo non so dire. Lo so che è
poco, ma… » concluse al termine di un prolungato discorso, non trovando parole
per continuare.
L’uomo meditò per un minuto
buono, poi pronunciò il suo verdetto « Fai quello che devi ».
« Davvero? » si sorprese
sinceramente la donna. Si sarebbe attesa un contrasto sulla plausibilità di
tutto ciò, non certo un via libera simile.
« Ignora i Superquattro, hai la
mia autorizzazione. Mandali da me se persistono ».
« Io… Io non so che dire,
signore. La ringrazio infinitamente ».
Lysandre assunse d’improvviso
un’espressione preoccupata, si alzò dalla scrivania e si avvicinò alla finestra.
Guardò all’esterno pensieroso, scrutando la via antistante. « Non hai dormito
stanotte, vero? ».
Ginger rimase perplessa dalla
domanda. Ma doveva rispondere: in fondo era il Presidente di Kalos a porla, per
di più dopo averle fatto un enorme favore. « No… Ma immagino fosse per il
freddo, no? ».
« Forse » disse l’uomo,
marcatamente poco convinto. Si passò la mano sugli occhi con un gesto quasi
buffo, come se stesse controllando se tutte le dita fossero ancora al loro
posto; poi si voltò verso Ginger, che solo allora si accorse di due vistose
occhiaie che scavavano il suo viso « Non ho dormito nemmeno io. E anche Xaros, e
parecchie persone che conosco. Tutti abbiamo la sensazione che Kalos stia per
entrare nella sua ora più nera. E tutti sentiamo una litania ».
L'Ufficiale Flare rabbrividì. Non
tanto all'idea che ci fosse una sorta di collegamento onirico tra varie
personalità della regione, quanto per il fatto che temeva di sapere quale
fosse la litania, e soprattutto la raggelava l'ipotesi che anche lei l'avesse
udita. Un paio di volte negli scorsi giorni le era parso di sentire una voce.
Accadeva nei momenti più impensabili, quando si concedeva attimi di distrazione.
E quella voce ripeteva sempre la stessa cosa, quattro sillabe prive di senso. «
Le due lettere, signore? ».
Di colpo Lysandre parve
affaticato. Si diresse nuovamente alla scrivania, appoggiandovisi con entrambe
le braccia e annuendo rabbuiato « Buona fortuna, Xaad ».
Episodio 1x28
L’ultimo
tramonto
« Tra dodici ore non avrò la minima idea di chi tu sia ».
Serena non distolse lo sguardo dal suo amico anche dopo che lui ebbe
ripreso a fissare il mare tinto di rosa. Non ricordava in tempi recenti un
momento in cui si fosse sentita tanto spaesata, tanto bisognosa di sapere di
più.
« Cosa? » domandò. Bellocchio tacque, estraniatosi dal mondo esterno, ma
lei non era disposta ad accettarlo. Non ora. « Ehi, rispondimi. Non puoi dirmi
una cosa simile e poi nulla ».
Il giovane perdurò il silenzio, ma non perché fosse sua intenzione. La
verità è che non aveva mai rivelato a nessuno il suo segreto prima d’ora, o
quantomeno credeva di non averlo fatto. Nel vero senso della locuzione non
sapeva cosa dire.
« Descrivimi un tramonto ».
« Eh? ».
« Descrivimi un tramonto » ripeté
lui con il tono più serio che riusciva a imprimere alla propria voce. Poi
aggiunse « Per favore ».
Era una richiesta tanto pazza che
Serena decise di fare ciò che normalmente si fa con i pazzi: dare loro corda. «
Beh, è quando il sole va oltre l’orizzonte… ».
« No, no, non il fenomeno fisico!
» esclamò Bellocchio scocciato « Descrivimelo esteticamente ».
« Uhm… Il cielo si fa… Rosso,
direi, o arancione… E le nuvole… ». Si interruppe irritata. Non ci stava a fare
la bambina a cui insegnare le basi. Non avrebbe preso parte a nessuno dei suoi
giochetti finché non avesse detto tutta la verità. « Perché perdiamo
tempo così? ».
« Perché io non so com’è fatto un
tramonto. Io non saprò mai com’è fatto un tramonto ».
Sempre meno senso. « Non
hai mai visto un tramonto? ».
« Ne ho visti parecchi, come
tutti. Ma… Ecco, è difficile da spiegare ». Bellocchio fece una pausa per
riordinare le parole che gli frullavano in testa. Non c’era un modo per dirlo,
se ne rendeva conto solo ora, quindi c’era solo una via per non risultare
paternalistico: spiegarlo esattamente come lo veniva a sapere lui ogni giorno.
Tornò a guardarla direttamente e si fece coraggio « Serena, non ho la minima
idea del perché, ma io a ogni tramonto perdo completamente la memoria ».
Le reazioni che si susseguirono
nel giro di un istante nella mente della ragazza sono difficili da elencare
ordinariamente. Dapprima pensò che fosse uno scherzo, uno scherzo di pessimo
gusto perpetrato ai suoi danni. Ma quegli occhi, quei tristi occhi… Non li aveva
mai visti così sinceri. Non stava scherzando né mentendo. Forse per la prima
volta da quando si erano incontrati era stato completamente onesto con lei. E
ciononostante era impossibile.
« Ma… Ma non è vero, tu… Tu sai
chi sono io! ». Appena dopo la protesta si fermò, colta da un dubbio. Che
avesse… finto? Improvvisato continuamente? « … Lo sai, vero? ».
Il breve silenzio che precedette
la sua risposta le fece cadere il mondo addosso, ma le parole negarono
l’eventualità. « Sì, lo so. So che sei bionda, che ti ho incontrata a Borgo
Bozzetto, che ti ho salvata dai Beedrill, che tu mi hai salvato da Omastar ».
Una smorfia amara segnò il volto di Bellocchio « Ma non è che lo so, io ci
credo. Io credo a tutte queste cose, così come credo che quando il
sole tramonta il cielo diventa rosso. Non ho modo di saperle ».
« Ma le ricordi! Se le ricordi
vuol dire che sono dentro di te, no? Se no vuol dire che ogni… ». Che ogni
giorno qualcuno te le dice, stava per dire, ritenendola una possibilità
assurda. Ma c’era qualcosa, qualcosa che si era spesso chiesta sul suo compagno
di viaggio, che così assumeva un senso sconvolgente.
« Ho letto tutto sul mio
taccuino. Come credo di aver fatto il giorno prima, e il giorno prima ancora e
via così ».
Serena ammutolì incredula. Tutte
le volte che l’aveva visto scrivere aveva pensato fosse un diario, o un altro
elemento della sua infinita stravaganza, ma mai un promemoria. « Ogni
giorno dopo il tramonto leggi la tua intera storia? ».
« Beh, non dimentico proprio
tutto. Per esempio so come camminare. In generale non scordo come parlare o come
fare le cose. So che devo mangiare e bere o morirò, e so più o meno cosa
devo mangiare. Mi rendo conto di essere un uomo ». Da come parlava era evidente
il suo intento: addolcire la pillola. E non a Serena, ma a se stesso. Forse ogni
giorno doveva convincersi che la sua condizione non era la peggiore possibile,
perché chi avrebbe accettato di vivere se avesse affrontato una realtà simile?
Non lei, probabilmente. Il suo amico aveva una determinazione persino superiore
a quella già dimostrata, un caso praticamente impareggiabile. « Il taccuino le
chiama conoscenze pregresse, è come se mi ricordassi ciò che serve per
sopravvivere. Oltre lì, buio totale ».
Il modo in cui ne parlava, come
se fosse una cosa naturale, era l'aspetto più sorprendente: se davvero scordava
tutto al tramonto questa per lui era tecnicamente la prima volta.
D’altronde, che motivo avrebbe avuto per mentire, scartando l’assurdità di una
burla irrealizzabilmente complessa?
« Ma non ci metti ore? Non ti ho
mai visto durante un tramonto, ma qualche minuto dopo sì ».
« La seconda cosa che scopro è
che so leggere molto velocemente. Cioè, la seconda cosa che ho scoperto oggi ».
« E la prima? ».
« Il mio nome. Cioè, i miei
due nomi, quello vero e Bellocchio ».
Serena iniziava solo ora a
riprendersi dallo shock della prima di quella caterva di rivelazioni e rimase
assorta un attimo ad ammirare l’alba ormai definitivamente compiuta. Non poteva
permettersi di esitare, di chiedersi come fosse possibile: se Bellocchio le
aveva detto la verità voleva dire che, consciamente o meno, necessitava del suo
aiuto.
« Da quanto va avanti? ».
« Il taccuino non lo dice. Si
ferma al mio soggiorno a Sinnoh iniziato due anni fa ».
« Due anni… E per due anni tu hai
segnato tutto ciò che vivevi? Tutte le nostre avventure le hai scritte lì? ».
« A quanto pare… ». Lo sguardo di
Bellocchio appariva tutto meno che sollevato dal fatto di aver detto tutto a
qualcuno. E anche la sua amica lo avvertiva: c’era qualcosa che ancora non aveva
capito.
Poi ci arrivò. La colpì come una
pugnalata, una testata improvvisa dritta sulla fronte. Ora sapeva la
verità, compresa la parte che non le era stata ancora rivelata.
« Hai perso il taccuino ».
Il giovane fece un cenno afflitto
di conferma. Adesso era chiaro, adesso era palese perché avesse deciso di
dirglielo. Adesso la prima frase pronunciata in quella sede acquisiva
un’interpretazione, un contesto vero e proprio.
« Beh, e allora che aspetti? »
proruppe alzandosi in piedi e invitandolo a fare lo stesso « Iniziamo a
cercarlo, no? ».
« L’ho già cercato mentre tu non
c’eri, ma non ce n’è traccia in tutta la spiaggia ».
« Sì, ma forse non… ». Si
arrestò, sorpresa di se stessa: non poteva stare seriamente per dire che il suo
amico, la persona più intelligente che conoscesse, avesse peccato di
superficialità nella ricerca di un oggetto di tale importanza. Aveva risolto
l’enigma del Palais Chaydeuvre, che andava a pensare? « … Era buio! Ora c’è il
sole, possiamo… ».
« Lascia perdere, Serena, non
c’è. È meglio che inizi a scriverne uno nuovo, anche se ne ricordo forse metà ».
La ragazza faticava a crederci.
Si stava arrendendo? « Questo non è il Bellocchio che conosco io! ».
« Beh, io nemmeno conosco il
Bellocchio che conosci tu, giusto? » replicò adirato il giovane.
Così non andava, non doveva
metterla su quel piano o avrebbe solo alimentato il suo istinto di
autocommiserazione. Doveva far leva su qualcosa che lo spingesse a reagire. « Il
Bellocchio che conosco io ha salvato Luminopoli da un Dusknoir. Ha salvato me
dai Beedrill rischiando la vita. Ha affrontato da solo uno Zoroark e gli
elicotteri del governo insieme ».
« Sì, ma non sono stato io. Hai
idea di che cosa significa svegliarsi in un corpo che non senti appartenerti?
Qualche uomo strano ha fatto azioni a mio nome, non certo io. E ora, se non ti
spiace, devo trovare un nuovo taccuino, e il me passato non mi ha nemmeno
lasciato dei soldi ».
Non era stato lui. Serena comprese: non si sentiva se stesso. Le sue
azioni passate non contavano perché dal suo punto di vista non le aveva
compiute. Chissà quante crisi aveva avuto in quei due anni o più, quante
volte aveva dubitato, e nemmeno poteva ricordare di aver mai tremato di fronte
alla sua amnesia cronica. Per la prima volta nel dialogo riuscì a percepire
l’estrema solitudine che doveva affliggerlo costantemente e che aveva
sapientemente celato fino ad allora. Ma non poteva lasciarlo a se stesso, lo
doveva al vecchio Bellocchio. Lo doveva al Bellocchio che ora non riusciva a
vedere, ma che doveva essere ancora lì.
« E Cornelius? ».
« Come? ».
« Chi l’ha salvato dall’incendio?
».
Serena lo vide incespicare nella
risposta, e sorrise appagata quando fu costretto ad ammettere l’evidenza. « …
Noi ».
« No, io sono arrivata dopo. Chi
ha rischiato la sua vita per soccorrerlo? ».
Il giovane stava disperatamente
dando la caccia a una risposta che avvalorasse la sua tesi, anche se
visibilmente non ce n’erano. « È stato un caso » mugugnò, quasi vergognandosi
egli stesso di essere giunto a una reazione così scontata come negare la realtà.
Ora serviva una terapia d’urto,
qualcosa che gli desse il colpo di grazia scrollandogli di dosso l’alone
rinunciatario. « È evidente che non ricordi più chi è Bellocchio, quindi al
momento dovrò sostituirti io. Che cosa direbbe Bellocchio in questa situazione?
». Serena si fermò a pensare guardandosi attorno, poi ebbe un’illuminazione e
puntò il dito sul suo amico a indicare un
eureka gestuale « Direbbe che la spiaggia è pulita ».
« E con ciò? ».
« C’è stata una festa e un
incendio, sicuramente ci dovevano essere rifiuti. Invece è pulita ».
Bellocchio esitò, poi i suoi
ingranaggi mentali iniziarono finalmente a girare. Si alzò in piedi, apparendo
persino ringiovanito « Per caso il mio me passato ti dava delle medaglie? ».
« Mai ».
« Dovrei cominciare! » esclamò,
ripassando la conclusione del ragionamento: se la spiaggia era pulita
significava che qualcuno era passato a raccogliere i rifiuti prima di far
passare lo schiacciasassi. E non poteva che averli portati in un posto. « Dov’è
la discarica? ».
Serena sorrise, felice che
Bellocchio, il suo Bellocchio fosse
tornato. « Ti sembro un topo? Chiediamo a qualcuno! ».
L’uomo si fece nuovamente serio
d’un tratto, ribattendo categorico « No ».
« Come? » chiese sbigottita la
ragazza. Che voleva dire no? Eppure
sembrava quello di prima, finalmente. Che si fosse solo illusa?
« Voglio fare questa cosa da solo
» spiegò lui, cercando di risultare quanto meno ostile riusciva. Sapendo che
sarebbero giunte immediate proteste le anticipò, prevedendone la tipologia « Sei
una grande amica, la persona a cui tengo di più, ma questa è una cosa mia. Sono
sempre stato da solo quando leggevo il taccuino, e voglio che resti così ».
Da un lato Serena sapeva che non
poteva abbandonarlo. Ma dall’altro a parlare non era la versione rinunciataria
del suo compagno di viaggio. Era completamente in sé, ed entrambi erano ben
consci della ragione per cui non voleva essere visto: nessuno vuole avere
testimoni nel suo momento di massima vulnerabilità. Doveva lasciargli spazio,
avere fiducia in lui e non preoccuparsi di una possibile crisi. « Promettimi di
avvertirmi quando lo troverai ».
Bellocchio sorrise e sfilò una
penna dal cappotto, iniziando ad annotare il patto sulla propria mano sinistra «
Adesso se anche non lo trovassi sarai l’unica persona di cui mi ricorderò ».
« Buona fortuna ».
L’uomo in nero ricambiò con uno
sguardo incisivo, poi si diresse a passo sostenuto verso la reception del resort
per informarsi sulla raccolta di scarti di Altoripoli. Controllò lestamente
l’orologio da polso: sei e mezzo del mattino. Iniziavano le sue ultime dodici
ore.
Serena trovò la porta della sua
dimora temporanea ancora aperta quando rientrò, e la chiuse sperando che nessuno
avesse portato via qualcosa per causa sua. Il soggiorno si era infreddolito
poiché aveva lasciato la portafinestra del terrazzo spalancata, ma la cosa non
la sfiorava minimamente: da quando aveva finito di parlare con Bellocchio si era
sentita stravolta, del tutto ripudiata dalla precedente insonnia. Si sarebbe
volentieri concessa di riposare, ma il suo amico avrebbe potuto fare ritorno da
un momento all’altro, e trovandosi nella sua ora peggiore non poteva lasciare
che rimanesse solo. Si sdraiò sul letto e iniziò a guardare il soffitto, senza
curarsi della gelida brezza ancora non riscaldata dal sole. Tanto non aveva
intenzione di dormire, pensò. Avrebbe rilassato un po’ gli occhi. Questo poteva
permetterselo.
Dong…
Dong…
DONG!
Destata dal frastuono di campane
proveniente da fuori Serena spalancò le palpebre. C’era qualcosa che non andava:
l’illuminazione era più elevata e i raggi entravano da un’angolazione diversa.
Più di qualcosa che non andava:
c’erano persone per casa. Si alzò seduta sul materasso cercando di metterle a
fuoco, verificando che si trattava di due uomini che trasportavano un ponderoso
cubo argenteo. Indossavano abiti da lavoro consistenti di pantaloni grigi e
maglie bianche su cui era riportato un logo che somigliava a una bolla
scarlatta. L’intero scenario le appariva surreale, era quasi come se…
« Ti sei svegliata! Scusa per il
casino, stanno portando via la lavatrice rotta ».
… fosse un’ora diversa del
giorno. Si era addormentata. Serena controllò dietro di sé, dove poco davanti a
Cornelius che le aveva dato il buongiorno era appoggiata una sveglia da mensola.
Erano le nove del mattino, il che significava che erano trascorse due ore. Due
ore di pennichella, e tanti saluti all’autocontrollo.
« La… lavatrice? ».
« Sì, stamattina ho visto che si
era rotta, così ho chiamato l’assistenza e ora me la stanno ritirando. Rientra
nella garanzia ».
Ora la ragazza riusciva a
ricordare meglio, rammentando il problema riscontrato con i vestiti suoi e del
suo compagno notturno. Ciò, a catena, le riportò alla mente proprio lui. Chissà
quanta strada aveva fatto in centoventi minuti, forse aveva persino concluso la
ricerca. « Bellocchio si è visto? » domandò.
« No. Stavo per chiedere a te
dove fosse ».
Uno dei due tecnici, i quali nel
frattempo avevano ultimato il faticoso trasporto della lavabiancheria guasta
all’uscita, si presentò con un fitto modulo precompilato. « Noi abbiamo finito,
dovrebbe ricevere un rimpiazzo nel giro di una settimana. Servirebbe una sua
firma… qua, qua e qua ».
« Subito, prendo una penna »
annuì Cornelius, poi si rivolse a Serena ancora sotto l’influsso del torpore da
risveglio « Fai pure colazione, dovrei avere dei cereali in alto a destra in
cucina, ma niente latte ».
La giovane si diresse nel lato
designato dell’appartamento con andatura dinoccolata, sapendo fin da subito che
non aveva per nulla fame. Invece esaminò gli scomparti del frigorifero fino a
rinvenire un cartone di succo etichettato come
gusto tropicale, senza ulteriori specifiche. Lo versò pigramente
mentre udiva la porta di casa serrarsi, segno che gli operai se n’erano andati,
e gettò uno sguardo al buco lasciato sotto il lavello, dove ora erano visibili
le tubature. Sorseggiò il liquido, trovandolo terribilmente caldo e rammentando
solo allora che il refrigeratore era stato trovato difettoso la sera prima.
« Dovresti far riparare anche il
frigo, sai? » comunicò ad alta voce per farsi sentire nella sala limitrofa.
« Ho chiamato, ma hanno detto che
potranno passare solo nel pomeriggio. Hanno ricevuto parecchie telefonate
stanotte ».
Serena aggrottò la fronte e
sporse il capo nel soggiorno. Cornelius si era disteso sul letto senza nemmeno
richiuderlo nella sua forma di divano e aveva acceso la televisione su
Kalosmattina. L’uomo si rese presto conto di essere osservato e ricambiò lo
sguardo « Ah, vuoi vedere la TV? Tra una mezz'oretta vado a lavorare ed è tutta
tua ».
« Puoi passare un attimo sul TG?
».
Quello eseguì controvoglia e
sullo schermo comparve lo studio celeste in cui era registrato il notiziario
delle nove. Visto l’orario esso era ovviamente appena cominciato, e più
precisamente si era appena concluso il primo servizio. Serena si posizionò
dietro il comodino longilineo dietro al giaciglio per avere una visuale
migliore.
«
E non solo gli incendi hanno turbato molti sonni stanotte. In tutta la
regione sono stati riscontrati malfunzionamenti a ogni tipo di elettrodomestico,
particolarmente nei grandi centri abitati. Ci colleghiamo con il nostro inviato
da Luminopoli ».
La raffinata
anchorwoman scomparve lasciando il
posto a una ripresa sul campo: un giornalista basso e grassottello, alquanto
somigliante a Tierno per certi versi, stagliato di fronte a un edificio dalle
prominenti ciminiere, facilmente una fabbrica. Vi fu un attimo di silenzio
dovuto al ritardo di diretta, poi iniziò a parlare «
Sì, mi trovo proprio ora davanti allo stabilimento centrale della Dive,
la principale produttrice di lavatrici di Kalos, con il responsabile delle
relazioni esterne dell’azienda ».
L’inquadratura si allargò fino a
mostrare il PR appena nominato, abbigliato in stile trasandato salvo per una
fine spilla appuntata al petto. Il reporter non perse tempo e instradò subito
l’intervista « Ci sono state lamentele
provenienti da ogni città di malfunzionamenti dei vostri prodotti, cosa sa
dirci? ».
«
Beh, per cominciare farei notare che lavatrici di ogni marca hanno
riportato lo stesso tipo di danno, quindi non si tratta di un difetto di
fabbrica ». Il cronista tentò di riprendere la parola, ma fu prontamente
fermato « In ogni caso stiamo provvedendo
a sostituire gli apparecchi sotto garanzia con modelli operanti. Chiediamo solo
pazienza perché il volume di richieste è tale che prima di sei ore dalla
chiamata difficilmente potremo soddisfare la vostra ».
Il resto della conversazione si
dipanò senza spunti culminanti, vertendo sugli ignoti motivi dei guasti, ma
Serena non ascoltò concentrandosi sulla clip dell’addetto alle pubbliche
relazioni. Dove l’aveva già vista?
Certo! Sulle maglie dei tecnici venuti per le riparazioni! « La tua
lavatrice era una Dive? » chiese a Cornelius.
L’uomo sfoggiava un’espressione
annoiata, quasi irritata dal telegiornale « Certo, bellezza. Solo il meglio per
un pirata ».
« Ha detto sei ore… » rifletté a
voce alta la ragazza « Perché qui sono venuti così presto? ».
« Beh, immagino… Di essere stato
uno dei primi a chiamare, non so ».
Forse, pensò Serena, o forse
loro non erano della Dive. Era un’idea assurda, ma quanto più razionale era
il fatto comprovato che in tutta Kalos gli elettrodomestici si stessero rompendo
in sincronia? Fece un salto sul balcone per inquadrare il pianterreno: poco
distante dall’ingresso la coppia aveva giusto ultimato le procedure di carico
della lavabiancheria sul loro furgonato e ora si accingevano a partire. Con un
guizzo si ripresentò da Cornelius, srotolando fuori le parole dalla bocca senza
sprecare un secondo.
« Hai mica una bicicletta da
prestarmi? ».
Sacchetti stagni, scatole di
legno, confezioni cartonate, scarti organici, residui stradali e Wingull in
cerca di cibo che schiamazzavano. La quantità di spazzatura solida urbana
accumulata nella discarica produceva un fetore che avrebbe provocato uno
svenimento in chiunque meno quelli che la visitavano nella speranza di trovare
tra gli avanzi altrui le proprie necessità. Bellocchio rovistava in una pila di
rifiuti cartacei a schiena curva, con movenze altalenanti simili a quelle di una
belva randagia. Rinvenne quello che doveva essere un volume scolastico a
giudicare dallo spessore, e lo esaminò: trattava di storia antica, anche se il
titolo era illeggibile. Tutte quelle memorie, tutti quei ricordi impressi su
carta per l’eternità… E lui si sarebbe scordato la sua identità nel giro di
mezza giornata.
D’un tratto il silenzio etereo
che aleggiava fu interrotto da un rumore secco che lo fece voltare di scatto.
Dietro di lui un senzatetto alzò le mani in segno di scusa. Bellocchio lo scrutò
con occhi ferali, quasi inumani per come guizzavano: era un mendicante robusto e
alto più di due metri. Dalle rughe che gli solcavano il volto pareva assai
attempato, ma si sa che dopo una certa età azzardare numeri diventa
problematico.
« Scusa, capo. Non volevo
spaventarti » gli disse. Il giovane lo ignorò, tornando a frugare
nell’immondizia. « Sei vestito bene per trovarti qui ».
Non poteva dire di no: colui che
gli aveva rivolto la parola indossava stracci vecchi di decenni. Lui, con
l’abito scuro ed elegante preso in prestito da Cornelius, appariva come un pesce
fuor d’acqua. « Sto cercando una cosa che ho perso ».
« Le cose si perdono. Lascia
perdere, capo, non la troverai mai ».
L’anima della festa, pensò l’uomo prima di ribattere « Devo trovarla
per forza ».
Il vagabondo si approcciò a lui,
tendendogli la mano guantata sorprendentemente nitida per uno che si aggirava
per la discarica di Altoripoli. « Mi chiamo Azrael ».
« Bellocchio » si presentò
l’altro ricambiando il gesto di cameratismo.
« Davvero? ».
Il giovane ci rifletté per bene
prima di rispondere, perché era una domanda che, forse intesa come una battuta,
era in realtà spinosa al momento. « Non lo so » disse infine. Poi, colto da un
dubbio, soggiunse « Tu per caso mi conosci? ».
« Non ti ho mai visto prima di
oggi ».
« Allora siamo in due ».
Bellocchio si allontanò barcollante verso un altro cumulo, infilandovi le mani
tremanti. Le chiuse nel lerciume digrignando i denti e iniziò a prendere a calci
il pattume, un colpo dopo l’altro, con una violenza tanto improvvisa quanto
inaudita, demolendo il mucchio. Scoppiò in un pianto isterico e si rannicchiò
tra i fondi di alimenti senza curarsi nemmeno di quanto fosse salutare. Perché a
lui? Perché era dovuto toccare a lui? Che cosa aveva fatto per meritarsi un destino tanto ignobile
come dimenticare chi era a ogni tramonto?
Come poteva verificarsi un fatto simile?
Azrael gli venne incontro
preoccupato. « Ehi, capo, tutto bene? ».
«
VATTENE! » gridò quello tra le lacrime che gli rigavano le guance. Non
gli importava più nemmeno della ricerca, voleva restare da solo e basta.
« Dimmi che cosa stai cercando,
posso aiutarti a trovarla » propose una volta vinta una certa dose di titubanza.
Bellocchio,
sul punto di soffocare tra i singhiozzi, mormorò « Un taccuino ».
« Un… taccuino? » ripeté Azrael
stranito « Già un altro oggi mi ha chiesto di un taccuino ».
Il giovane frenò il pianto come
riuscì e alzò la testa « Davvero? ».
« Un’ora fa circa. Diceva che gli
serviva assolutamente. Gli ho dato una mano e alla fine ne abbiamo trovato uno
nero in pelle… ».
Alzatosi in piedi, Bellocchio si
asciugò gli occhi umidi, riprendendosi nel frattempo dallo sgomento. Un taccuino
nero di pelle era la perfetta descrizione del
suo. Se si trovava nella discarica adibita ai rifiuti urbani,
l’unica alternativa era che qualcun altro avesse perso un clone del suo
bloc-notes nello stesso giorno. Poco credibile.
« Chi era? ».
« Si chiamava… Logan Kashlinsky,
mi pare… Era sulla trentina, vestito di tutto–– ».
L’uomo gli scosse le braccia per
la sovreccitazione, in un cambio d’umore tanto repentino da risultare
angosciante « Ti ha detto dove andava? ».
« No » spiegò Azrael rammaricato,
appena prima che un ricordo degno di nota gli sovvenisse « Però ha detto che era
della radio. Probabilmente è andato all’Antenna ».
« L’Antenna? ».
Il senzatetto indicò un edificio
in lontananza, uno dei pochi della cittadina ad avere uno stile architettonico
moderno. Si trovava ai piani elevati di Altoripoli, il che spiegava come mai
fosse visibile anche da lì. « C’entra qualcosa con la radio, anche se non so
bene. Magari lo trovi là ».
Lì Bellocchio si esibì in quello
che Azrael avrebbe definito come un
sorriso interiore: la sua bocca rimase inerte e mai nella conversazione ne
aveva mostrato uno, ma l’euforia che muoveva ora ogni suo passo era palpabile. «
… Grazie! Grazie, grazie mille! » esclamò prima di andarsene.
Il poderoso mendicante lo frenò
con un braccio per trattenerlo, così da potergli porre una domanda che aveva
voluto fargli fin da quando era collassato sui rifiuti. « Sicuro di stare bene?
».
Si guardarono per un po’, ma
Bellocchio non pronunciò alcuna risposta. Attese solo che la stretta si
allentasse appena per sfuggirgli e inseguire la nuova pista con rinnovata
fiducia, il cappotto nero sfarfallante al vento.
Il furgonato dei presunti
tecnici, terminato il giro di segnalazioni, si stava ora inoltrando in una
stradicciola sterrata dopo essere giunto nella sezione disabitata di Altoripoli.
Gli abitanti del paese le chiamavano le
Fondamenta: un quartiere ormai spopolato per via del processo di
inurbamento, sito al limitare del borgo. Serena aveva seguito la vettura in
bicicletta e non avendo nemmeno mangiato a colazione ora si sentiva spossata, ma
non pensò nemmeno per un istante di desistere.
Per sua fortuna il camioncino le
facilitò le cose fermandosi di fronte a un magazzino di legno smantellato e
deserto, probabilmente solo casa di piccoli insetti. La ragazza svoltò l’angolo
per nascondersi dietro la parete prima che gli uomini scendessero dal loro
veicolo, così da non farsi scoprire, e protese l’orecchio. Per quanto non
potesse vedere nulla di quanto stesse accadendo, a giudicare dai rumori prodotti
dovevano stare scaricando le lavatrici recuperate dai cittadini in quel
deposito, e la cosa più disturbante è che non avevano ancora pronunciato una
sola parola. In effetti, a ben pensarci, non li aveva notati impegnati in nessun
vaniloquio leggero nemmeno a casa di Cornelius. Che fossero degli insospettabili
stakanovisti?
Il processo di sgombero si
concluse dopo un quarto d’ora di quiete assordante, cui seguì il suono meccanico
dell’avvio di un motore e la sterzata degli pneumatici sul terreno. Serena cercò
di capirci qualcosa, ma a ripeterselo aveva anche meno senso: quei due avevano
raccattato per conto della Dive gli elettrodomestici guasti e li avevano deposti
lì. L’unica possibilità era una discarica abusiva.
Quando entrò nell’edificio anche
quest’ultima idea svanì, sostituita da un’altra incombente domanda. Il tetto era
stato squarciato da anni di intemperie e le finestre erano rotte o assenti, il
che significava che l’interno era ben illuminato. Ma di lavatrici neanche
l’ombra.
La giovane compì due volte un
giro completo su se stessa, ma non c’era alcun dubbio, era vuoto. Prima ancora
di chiedersi come fosse possibile, al suo udito in allerta da prima giunse uno
strano ronzio. Non erano Beedrill, e in effetti difficilmente si trattava di
qualcosa di organico; sembrava più una ventola. Si chinò a livello del pavimento
e chiuse gli occhi per localizzarlo meglio, e alla fine individuò la sorgente:
l’angolo in fondo a sinistra. Essendo vuoto e avendo le pareti troppo spesse per
un doppio fondo, restava una sola ipotesi plausibile: Serena batté i pugni sul
pavimento e avvertì l’eco cadere vuota. Furono necessari solo pochi attimi per
svelare quella che era a tutti gli effetti una
botola.
Sotto di essa, celato all’occhio
poco avveduto, si trovava un cunicolo a sezione quadrata di due metri per lato
su cui giaceva un nastro trasportatore in funzione che produceva il brusio
traditore. Per quanto inizialmente insicura, la ragazza ci salì sopra vinta
dalla curiosità, e attraverso un viaggio con graduali variazioni di inclinazione
giunse a muoversi parallela al terreno. Infine la galleria terminò, svelando
oltre essa un’altra sorpresa della giornata: un’ampia stanza sotterranea
percorsa a mezz’aria dal tapis roulant sospeso su cui si trovava.
L’ambiente era di forma cubica,
delle dimensioni approssimative di un cortile scolastico; dovunque sul pavimento
in cemento erano sparse scatole impolverate contenenti pezzi di ricambio di ogni
sorta, nonché oggetti che per tipologia parevano reliquie di un trasferimento.
In effetti l’intera zona somigliava all’interno di un camion per traslochi,
salvo per due elementi fuori posto: il piano scorrevole su cui si trovava Serena
e una singola porta posizionata sul lato opposto su cui campeggiava ermetico il
numero trentuno.
Si tuffò giù, garantendosi un
atterraggio parzialmente soffice grazie ai cartoni accatastati su un fianco, e
dalla nuova posizione ribassata riuscì a scorgere il proseguimento del nastro su
cui aveva viaggiato: al di là del varco d’uscita esso iniziava progressivamente
a risalire, seguitando nel suo itinerario. Era ovvio, a questo punto, che i due
tecnici dovevano avervi piazzato sopra le lavatrici guaste, le quali erano ora
impegnate in un tragitto clandestino nel quartiere. Ma perché?
La ragazza esaminò una pila di
scartoffie informalmente abbandonata in un cantuccio, ma se quello che vi era
scritto era linguaggio umano lei non era in grado di decifrarlo. Lì vicino le
saltò all’occhio il case di un
computer fisso scollegato. Lo analizzò premendo un paio di volte il pulsante di
accensione, ma come ipotizzabile non reagì minimamente allo stimolo.
« I visitatori sono pregati di
non toccare le proprietà della Dive Corporation ».
Serena trasalì: una voce monotòna
aveva appena pronunciato quelle parole da dietro di lei. Ma c’era qualcosa di
ancor più sconvolgente: lei conosceva quella voce. Si voltò incredula,
verificando che non si era sbagliata: dritta sulle gambe come un’atleta in posa,
sua madre le aveva appena parlato. Sua madre. La giovane rimase senza parole, incapace di formulare un
concetto anche solo nella sua testa.
Impossibile, le ronzava, impossibile.
Poi comprese, o almeno pensò di
farlo. « … Bellocchio? ».
« Indicare la natura
dell’affermazione ».
La risposta e soprattutto il
timbro di pronuncia incrementarono i dubbi di Serena, ma ormai non aveva senso
tirarsi indietro. Il suo amico si era già travestito una volta in quel modo e,
accantonando l’idea che sua madre avesse fatto chilometri di strada per
spaventarla, quella era la spiegazione più probabile. « Tu sei… Bellocchio? »
ripeté.
« Negativo. I visitatori sono
pregati di allontanarsi dalle proprietà della Dive Corporation ».
Proprietà della Dive Corporation… Doveva trattarsi del PC. Serena si
fece lentamente da parte, cominciando a girarle intorno senza osare avvicinarsi
di un centimetro. Aveva detto Dive
Corporation, il che significava che quel locale era davvero di proprietà
della Dive e i due uomini non erano truffatori. O almeno, ciò avrebbe dedotto se
non avesse significato fidarsi di sua madre. Che
non poteva essere lì.
« Chi o cosa sei? ».
La donna replicò meccanicamente
sciorinando una formula con fedeltà decisamente inumana « Guida Interattiva
dello Stabilimento “L” di Altoripoli, proprietà intellettuale e fattuale della
Dive Corporation. Giselle in breve ».
« Questo risponde a
chi » osservò Serena cercando di
controllare la paura che l’attanagliava «
Cosa sei? ».
« Sono un’interfaccia olografica
con l’obiettivo di assistere i visitatori nell’orientamento ».
« Okay ». No, non era okay. Aveva
appena detto che era un… robot? No,
olografica, quindi un ologramma. Non riuscì a credere a ciò che stava per
chiedere. « Giselle… perché hai l’aspetto di mia madre? ».
« Il cervello dei visitatori è
scandito quando entrano nello Stabilimento e una figura di fiducia ne è
estrapolata per favorire il massimo comfort durante il tour ».
« Risultato non propriamente
raggiunto ». Al vocabolo massimo era
stata dedicata un’inflessione diversa, che non faceva altro che rendere il modo
di parlare di Giselle meno realistico. Quindi, in poche parole, le avevano letto
in testa e avevano tirato fuori la faccia di sua madre per applicarla alla guida
turistica. Sicuramente era una violazione dei diritti di qualcosa, non poteva
essere legale.
« I visitatori sono pregati di
esporre la natura della loro visita ».
« Io… » Serena tentennò. Doveva
muoversi con cautela: c’era un’alta probabilità che la sua presenza non fosse
autorizzata. « Sono qui per caso. Anzi, se possibile vorrei uscire ».
L’interfaccia assunse un volto
annoiato, che però anziché convogliare una sensazione di umanità appariva solo
inquietante « Sfortunatamente non esistono uscite dirette dalla cella di
ricevimento periferico. La via di accesso più vicina è la scala primaria ».
« Okay… Puoi portarmici? ».
« Certamente. Tempo stimato di
arrivo: venti minuti. I visitatori sono pregati di seguirmi oltre il Link 31 ».
Per la prima volta Giselle iniziò
a camminare con movenze singolarmente fluide, quasi migliori di quelle del
modello che impersonava. Rendendosi conto che il
Link 31 doveva essere la porta che aveva visto prima, e verso cui la
donna si stava dirigendo, Serena le si accostò per il terrore di essere lasciata
indietro senza via di fuga. Il risultato era alquanto imbarazzante: lei
affiancata a qualcuno che nemmeno esisteva come quando passeggiava con sua
madre. E sarebbe dovuta resistere venti minuti!
« Non puoi almeno cambiare
aspetto? » propose speranzosa.
« Negativo ».
« E figurati ».
« Nessun Logan Kashlinsky risulta
lavorare qui » confermò Garrett dopo aver trascorso gli ultimi due minuti a
effettuare ricerche nel database dell’Antenna, peraltro costretto a usare la
tastiera con una mano sola dal momento che l’altra era ferma sul naso per velare
il fetore diffuso da colui che gli stava di fronte. Quell’uomo era un’antitesi
vivente: indossava abiti adatti per entrare a Palais Brongniart, ma il tanfo di
cui era impregnato erano tali da suggerire che provenisse da una immondezzaio o
un posto simile.
« Ne è sicuro? È importante ».
Il maleodorante individuo si
sporse oltre il banco delle informazioni per dare uno sguardo allo schermo del
computer. Garrett recedette nauseato, sforzandosi di trattenere il respiro. « Ho
controllato due volte per sicurezza. Penso l’abbiano informata male ». Quindi,
rendendosi conto che senza una sua esortazione non se ne sarebbe mai liberato,
aggiunse « La invito ad andare, ci sono altre persone in coda ».
Bellocchio annuì, producendo con
la bocca qualcosa a metà tra uno sbuffo e un sospiro. Anche solo arrivare alla
segreteria era stata un’impresa, dato che il complesso dell’Antenna era poco
meno di un labirinto e si era perso già due volte – e di certo la totale assenza
di indicazioni leggibili non giocava a suo favore. Sulla via di ritorno per il
pianterreno, o almeno quella che sperava essere tale, i pensieri che gli
affollavano la testa erano tuttavia altri.
L'inesistenza di Logan Kashlinsky
apriva due scenari possibili: o aveva mentito Azrael o aveva mentito Logan
Kashlinsky. Ma Azrael non avrebbe avuto alcun motivo per dargli un nome falso,
cosa gliene sarebbe venuto in tasca? Quindi il mendace doveva essere quel Logan.
Questo, però, non aveva alcun senso: ciò che sapeva di lui era che cercava un
taccuino che doveva aver perso nella discarica in circostanze oscure. Perché non
usare il suo vero nome?
Ah, sentirlo, parlava proprio lui
che adoperava pseudonimi di pseudonimi. Però c’era un’altra possibilità che
avrebbe conferito più senso alle sue azioni: che stesse cercando proprio
il taccuino di Bellocchio? Ciò avrebbe
implicato che lui conoscesse Logan a qualche livello, il che era del tutto
plausibile considerando la sua memoria pericolante. Che complicazione.
E nel frattempo si era perso.
Sovrappensiero com’era avrebbe dovuto aspettarselo, ma era troppo sovrappensiero
anche per considerare quell’eventualità. La sua posizione attuale era una
piattaforma longilinea separata da due dei quattro corpi principali
dell’Antenna, le cui pareti vetrate rendevano visibile la grande Croce Centrale
che fungeva anche da pianoterra all’aperto. Bellocchio procedette fino a
ritrovarsi in uno stretto e opprimente corridoio grigio, denso da ambo i lati di
porte anonime. Di facciata doveva trattarsi di una zona uffici, ma nessun rumore
proveniva dai supposti studi. Dovevano essere lavoratori alquanto taciturni.
D’un tratto un cigolio annunciò
che un’anta in fondo era stata aperta. L’uomo si guardò attorno istintivamente,
ma nessuno si era unito a lui nell’androne, e di certo era difficile che
qualcuno avesse percorso il suo medesimo tratto per poi entrare in una delle
stanze. Si diresse verso il rumore, localizzandone la probabile sorgente in un
portone metallico fortemente diverso dai suoi soci per dimensioni e peso.
Aprendolo, Bellocchio si ritrovò davanti a una rampa di scale. Era del tutto
normale, ma c’era qualcosa in essa che lo turbava profondamente.
Comunque non ebbe modo di mettere
a fuoco cosa fosse: qualcuno gli sferrò un violento colpo alla testa,
tramortendolo.
I passi di Serena generavano una
piacevole melodia mentre cadevano sulla grata che fungeva da piattaforma sopra
un reticolo di tubature color bronzo. Da ormai quasi tutti i venti minuti
previsti seguiva Giselle in un andito largo a malapena per loro due e dalla
manutenzione di opinabile qualità. Come se non bastasse un brusio persistente le
fischiava nelle orecchie, qualcosa di simile ad attrezzature in perenne
attività; un’opzione considerabile se non fosse rimasto perfettamente costante
in intensità per l’intero tragitto. Come quel luogo potesse essere parte di un
itinerario turistico eludeva la sua comprensione.
Gli occhi le caddero su una delle
pareti scalcinate contro cui strisciava da un po’: qualche promessa
cabarettistica in vena di scherzi aveva scarabocchiato termini ingiuriosi in uno
svolazzo. Poco sotto era apposta anche un’enigmatica frase:
IL PIANETA NERO
è REALE
Serena si rivolse a Giselle,
facendo appello a tutta la sua concentrazione per non chiamarla
mamma come effetto collaterale del suo
aspetto. Le era già sfuggito una volta poco prima, e come risultato aveva
taciuto subito dopo soverchiata dall’imbarazzo. « Che cos’è il
pianeta nero? ».
L’interfaccia olografica arrestò
temporaneamente la marcia per dare un’occhiata al muro imbrattato « Opera di
visitatori poco cortesi. Sarà immediatamente notificata al personale perché sia
rimossa ».
« Sì, ma io ho chiesto cos’è il
pianeta nero ».
Giselle riprese a camminare « Un
riferimento alla filastrocca ».
« Quale filastrocca? ».
«
Il pianeta nero il vecchio sormonterà /
Nel tempo del lungo confronto /
Il buio su entrambi i mondi calerà /
Nel tempo dell’ultimo tramonto ». Il
testo era di per sé un’accozzaglia di luoghi comuni presi in prestito da altri
scrittori che sarebbe forse andata bene per qualche storiella adolescenziale, ma
enunciata dalle meccaniche corde vocali della guida assunse una sfumatura
incombente.
« Com’è che non l’ho mai sentita?
».
« La filastrocca è divenuta
popolare nella generazione di trent’anni fa, quando furono ritrovate le Profezie
Perdute. Per accedere ai file pubblici del cloud dire “uno” ».
« Ancora non mi hai risposto.
Cos’è il pianeta nero? ».
« Siamo arrivati ».
Senza accorgersene le due erano
giunte a un’altra stanza connessa direttamente al corridoio da cui provenivano e
questa volta di forma più prossima a un parallelepipedo. Dovunque erano
ravvisabili scatoloni della medesima fattura di quelli che affollavano la cella
di riferimento periferico, ma in proporzione molti di più date le dimensioni più
strette dell’ambiente. Direttamente di fronte si trovava la porta d’uscita,
gentilmente segnalata da una lampada d’emergenza appesa al telaio.
« Oltre quella soglia si trova
l'Antenna, il maggiore studio radiofonico e televisivo di Kalos. La Dive
Corporation spera che la visita sia stata di vostro gradimento e vi augura una
buona giornata ».
Una infrastruttura della Dive si
trovava al di sotto di una sede pubblica di produzione?
Strano era dir poco. Prima di poter riflettere oltre Serena si
accorse di un suono che aveva sostituito, o più facilmente stava sovrastando, il
ronzio precedente: definirlo era difficile, ma pareva una collisione di oggetti
metallici. Solo allora la ragazza si avvide di una seconda porta: era defilata
sul lato destro, immersa tra i cartoni nemmeno avesse voluto nascondersi. Come
poteva non averla notata prima?
« Cos’è quella? ».
«
La Dive Corporation spera che la visita sia stata di vostro gradimento e
vi augura una buona giornata ». Giselle indicò perentoriamente l’uscio
principale, e la tenacia del suo sorriso non fece che aumentare il senso di
disagio che procurava.
Serena si avvicinò sospettosa
alla sua nuova scoperta, rilevando che il suono giungeva più carico alle sue
orecchie di conseguenza: l’origine si trovava per forza lì. Finalmente si decise
a dischiudere l’anta, rivelando ciò che si celava dietro: un’altra, vasta
stanza, forse più voluminosa di quella in cui si era ritrovata attraverso
l’ingresso segreto del magazzino abbandonato. E in effetti c’era qualcosa che le
collegava: anche lì era presente un nastro trasportatore. A differenza della
sezione intravista prima, tuttavia, qui ne convergevano diversi, ognuno facente
capolino da una fessura a sé, e tutti riversavano il loro contenuto in un
recipiente ora stracolmo di elettrodomestici di ogni tipo.
« Oh mio Dio » mormorò la giovane
sconvolta mentre Giselle la raggiungeva a passi lenti. Forni, tagliaerba,
aeratori: una pletora di oggetti di uso comune pienamente illuminati dalle
vigorose luci al neon incastonate nello sporco soffitto. Modelli molto discordi,
ma accomunati da marche tra le più famose della regione. Alzò gli occhi ai tapis
roulant e notò che proprio da uno di essi era appena caduta una lavatrice, che a
sua volta era rimbalzata su una di quelle in cima alla pila. Una che le
ricordava qualcosa.
Era la lavatrice di Cornelius.
Non c’era dubbio: non solo l’esemplare combaciava, ma anche i segni che aveva
trascurato e che ciononostante si erano impressi nel suo subconscio, così da
essere riconoscibili una volta rivisti. Il lungo graffio anteriore visibile
anche da lì, per esempio. Ora che ci pensava, Bellocchio…
… aveva controllato
lì dentro? Certo, sviste simili non
erano da lui, ma in quel momento era tutto fuorché lucido. Vale la pena
tentare, pensò mentre, completamente incurante di Giselle, scalava una serie
di piattaforme per giungere al deposito. I nastri nel frattempo si erano tutti
fermati, segno che gli approvvigionamenti si erano almeno per ora conclusi,
lasciandole campo libero. Si gettò sull’oggetto prescelto, spalancandone l’oblò
frontale e frugando all’interno. Il cuore iniziò a batterle a mille quando,
oltre ogni aspettativa, scoprì che il cestello d’acciaio per gli abiti era
perforato: una spaccatura si era
aperta tra esso e l’intelaiatura, nulla di enorme ma quanto bastava perché ci
passasse una mano.
Ed eccolo lì, adagiato sul fondo
della vasca: il famigerato taccuino di Bellocchio! Quasi si ferì il dorso
nell’operazione di salvataggio, ma alla fine lo riportò alla luce. A prima vista
pareva intatto, probabilmente mai raggiunto da sufficiente acqua per superare lo
strato di pelle. Lo svolse febbrilmente, ripromettendosi di non leggere nulla
dei fatti privati del suo amico e di accertarsi solo che l’inchiostro non fosse
sbiadito. E quando sulla prima pagina verificò che un eloquente “non
smettere di leggere” campeggiava intatto, la ragazza esplose in un boato
interiore di gioia. Si estraniò completamente dal mondo per un istante, ridendo
soddisfatta: ora avrebbe potuto riconsegnarglielo e tutto sarebbe finito per il
meglio. E in quell’unico, breve istante, non si rese conto che qualcosa si era
appena sollevato dal cumulo di elettrodomestici.
Serena fu molto, molto fortunata:
nel moto di festa che la colse si scostò di quei centimetri sufficienti per non
finire congelata da un raggio ghiacciato. Quello che realizzò appena dopo la
colse completamente alla sprovvista: un frigorifero aveva preso vita. Un
frigorifero che ora la puntava avvolto da un alone violaceo, con il bagliore
interno acceso e due fari che parevano occhi alieni sullo sportello. La ragazza
mise mano alla cintura per prepararsi a un secondo attacco e con la coda
dell’occhio scorse la sua guida turistica, che non aveva battuto ciglio.
« Giselle… ? » balbettò cercando
di soffocare la paura.
«
La Dive Corporation spera che la visita sia stata di vostro gradimento e
vi augura una buona giornata ». Giselle d’improvviso aveva cambiato il suo
timbro vocale, apparendo ora molto più umana di prima.
Il respiro della ragazza si
appesantì quando si accorse di una cosa che avrebbe dovuto notare ben prima. «
La Dive non produce frigoriferi… ».
« Affermazione esatta ».
Le era stato sotto il naso per
tutto il tempo: la Dive Corporation vendeva
solo lavatrici, e lì dentro c’era
molto altro. Quella struttura sotterranea
non poteva essere la loro. Il frigorifero si alzò in aria e altre due coppie
di barlumi iniziarono a brillare sepolti sotto la catasta.
« Speriamo che apprezzerete
l'organizzazione dell'invasione » annunciò Giselle compiaciuta.
L’invasione? La questione era di colpo diventata più grave di quanto
fosse lecito aspettarsi. C’era solo una cosa da fare ora. « Devo trovare
Bellocchio ».
Serena scansò un altro attacco
della creatura, stavolta notando che aveva proteso un vero e proprio arto per
scagliarlo. Con un balzo si ritrovò giù dal recipiente e, schizzando accanto
all’interfaccia, la udì commentare « Oh, non ti preoccupare, ormai sarà già
nostro ».
Una volta varcata la porta
primaria a cui era stata indirizzata qualche minuto prima dovette solo
percorrere una rapida scalinata prima di trovarsi all’aperto. Come
configurazione avrebbe azzardato che la zona dove era giunta avesse la forma di
una croce: ciò perché si trattava di una piazza quadrata ai cui angoli erano
posti altrettanti edifici, probabilmente quattro sezioni dell'Antenna. Lei
proveniva proprio da uno di essi, anche se la sua era un’entrata etichettata
dall’esterno come utilizzabile solo da addetti ai lavori. Il suo piano era stato
di rintracciare Bellocchio e spiegargli la situazione, con il bonus di
restituirgli il suo blocco delle memorie, ma ora non era più praticabile.
Era il tramonto. Era stata nei
sotterranei forse mezz’ora in tutto da quando vi si era inoltrata quella
mattina, come poteva essere il tramonto?
Non avrebbe mai reperito il suo amico in tempo!
La cosa peggiore non era nemmeno
quella, bensì un fatto molto più banale: lo spiazzo era
colmo di gente. Un andirivieni continuo di individui, coppie che
parlavano e solitari al telefono, a due passi da un cimitero di elettrodomestici
pronti, a quanto pare, a resuscitare e per nulla restii a uccidere. Prima ancora
di Bellocchio i civili avevano la precedenza: doveva mandarli via il prima
possibile.
«
SCAPPATE! » gridò correndo verso il centro per essere più visibile e
udibile « NON RESTATE QUI, VI PRENDERANNO!
». Si rese quasi subito conto di essere soltanto ridicola, ma non aveva in mente
altre idee. Se non avevano intenzione di ascoltarla, le rimaneva solo l’opzione
di guidare la fuga, sperando che se anche non avessero reagito subito avrebbero
avuto chiaro cosa fare nel momento in cui il nemico si fosse rivelato. «
ANDATEVENE! » si sgolò, cominciando a
correre via dalla piazza a velocità che mai aveva sfiorato prima, sospinta dal
puro terrore. Tenne lo sguardo a terra senza nemmeno controllare di essere
seguita, e ciò ebbe l’ovvio effetto collaterale di mandarla in collisione con
qualcuno che resistette al colpo, facendola ruzzolare a terra. Quando alzò la
testa, però, si rese conto che non si era trattato di un urto qualsiasi. Era
appena andata a sbattere contro Giselle.
Ma è un ologramma! Come fa a essere solido? « Tu… Tu sei… »
farfugliò.
« Vi sono quasi ventimila
abitanti ad Altoripoli, e quasi ognuno di loro ha donato almeno uno degli
utensili che stanno per prendere vita ».
La ragazza ascoltò quelle parole
incredula. Quello non era un sistema automatizzato, quella era un’entità
cosciente. E parlava a nome di qualcuno, anche se non era chiaro di chi. « … Li
avete guastati voi? ».
« Il primo punto debole di voi
umani » la donna sorrise appagata, stendendo un braccio. Sul palmo della mano si
materializzò come magicamente la riconoscibile sagoma di un P5S « Non sapete
resistere alle novità ».
« Cosa… ? ».
« Emette onde magnetiche
superconduttive che producono cortocircuiti nel raggio di un chilometro. Ne
bastano pochi strategicamente piazzati per raccogliere migliaia di forni guasti
».
Serena, pur agghiacciata,
incominciò ad afferrare il letale piano progettato dall’ignota società di cui
Giselle faceva parte. In qualche modo si erano infiltrati nella produzione del
P5S dotandolo della funzione che a loro serviva, poi avevano atteso che si
diffondesse quel tanto che serviva a loro per mettere fuori uso larga parte
degli elettrodomestici della popolazione. A quel punto erano intervenuti
loro, fingendosi tecnici delle
principali industrie del settore per ritirarli. Nessuno contesta il piatto
quando il servizio è veloce, e di conseguenza non avevano incontrato intralci.
« Ed ecco qua le nostre anime! »
comunicò Giselle a gran voce. La ragazza che le stava di fronte, in un crescendo
di sgomento, osservò la piazza: la folla che in quel momento si trovava alla
Croce ora marciava in direzione della porta da cui lei era uscita, dritta tra le
fauci del lupo.
« Che cosa fanno? » domandò
confusa.
« Oh, stupida Serena, cerca di
ragionare. I corpi non possono animarsi senza delle menti, giusto? » la schernì
la donna, parlandole in tono falsamente condiscendente. Quindi con un gesto
comprensivo indicò tutta la fiumana intorno a sé « Ora le hai davanti! ».
« Li avete ipnotizzati? ».
Giselle sbuffò irritata « No, non
ipnotizzati! Serena, rifletti! Tutti quei giovani in spiaggia, da dove credevi
che venissero fuori? ». Quando vide la sua interlocutrice mettere insieme i
pezzi, solo allora si ritenne soddisfatta dal livello di terrore che aveva
originato in lei « Erano dei nostri, infiltrati che aspettavano questo momento
». Quasi volessero palesare il fatto,
le persone stesse appena prima di entrare nello stabilimento divenivano eteree
per un attimo, assumendo la loro vera forma: un piccolo corpo arancione avvolto
da scariche elettriche.
Erano dei
Rotom. Tutti gli esaltati alla festa, a due passi da loro: tutti
Rotom. Serena rammentò le leggende su quei Pokémon, di come fossero stati
ingegnerizzati in una terra lontana perché fossero in grado di entrare negli
apparecchi alimentati a corrente. Il cerchio si chiudeva.
« Avete raccolto tutti gli
elettrodomestici perché ci entrassero dentro… per invaderci? ».
« Finalmente ci sei arrivata,
iniziavo a disperare! Se avessi saputo fin da subito che eri così lenta mi sarei
risparmiata tutti quegli anni a tenerti d'occhio ».
Un’assordante esplosione demolì
una fiancata dell’edificio sotto il quale era stata operata la raccolta,
rivelando al suo interno una vera armata pronta a librarsi in aria e attaccare
Altoripoli. E così a Luminopoli, a Novartopoli, ovunque i P5S si erano diffusi e
gli incendi avevano funto da avvisaglia. La più grande invasione mai registrata
dalla Repubblica.
Serena fissò negli occhi Giselle,
invocando rimasugli del coraggio che Bellocchio l’aveva aiutata a coltivare
dentro di lei durante il viaggio e che ora era stato sradicato quasi
interamente. « Chi sei? ».
« Perlomeno non hai creduto alla
storiella della scansione cerebrale. Su, non sono in molti a poter imitare tua
madre » ghignò, manifestamente contenta della richiesta. Avrebbe voluto
dirglielo nel primo momento in cui l’aveva incontrata nella cella di raccolta,
ma si era imposta di trattenersi fino all’ultimo. E adesso, di fronte alla fine
imminente dell’umanità, ecco che le si avvicinava all’orecchio per
sussurrarglielo.
« E se ti dicessi… Maison
Darbois? ».
Il terrore in Serena svanì del
tutto, scavalcato da un’emozione ben più assoluta quale il panico. Strinse il
taccuino per ritardare il crollo totale dei nervi mentre sotto ai suoi occhi
atterriti la rassicurante figura di sua madre, come in un incubo, si tramutava
in uno dei suoi ricordi peggiori: un Chandelure dalle vampate cromatiche che
scintillavano scarlatte. In quel preciso istante il raggio verde del sole
morente ufficializzò il passaggio dell’astro oltre l’orizzonte. Dovunque fosse
Bellocchio aveva appena perso la memoria per sempre, la milizia dei Rotom
imperversava su Altoripoli e su ogni città della regione, e la Fiamma Cremisi
era tornata.
« Benvenuta all’ultimo tramonto di Kalos ».