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Autore: NoceAlVento    09/02/2015    1 recensioni
Cosa succede a Kalos? Forze oscure agiscono nell'ombra, perseguendo i loro ignoti obiettivi ai danni di innocenti; misteriosi frammenti di una gemma celeste sono apparsi nella regione dal nulla; una ragazza, anche se non ancora non lo sa, è stata tenuta sotto segreta osservazione per tutta la sua vita. E in tutto ciò c'è Bellocchio, appena precipitato da un'aeronave in fiamme e portato a scoprire che cela un passato lontano a Kalos, anche se non l'ha mai vista in vita sua. Nuovi capitoli ogni due settimane!
 
***
 
« Ehi, non mi hai detto come ti chiami! ».
« Bellocchio ».
« Bellocchio chi? ».
« Cos’ho appena detto riguardo le domande stupide? ».
« Ma ti chiami davvero così? ».
« Ma certo che no! Chi mai si chiamerebbe Bellocchio, è un nome ridicolo! ».
Genere: Avventura, Comico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: OOC, Otherverse | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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PREVIOUSLY ON LKNA: Bellocchio e Serena giungono ad Altoripoli, dove è in corso una festa in spiaggia per il giuramento del nuovo presidente Lysandre Faubourg. Per cause ignote diversi apparecchi hanno un malfunzionamento, scatenando un incendio in cui i due aiutano Cornelius, venditore di frutta schiacciato da un traliccio. Ospitati a casa sua per ringraziamento scoprono che l’intera Kalos è vittima di roghi simili; solo in quel momento Bellocchio sembra accorgersi di aver perso qualcosa in spiaggia e si getta freneticamente alla sua ricerca. Quando Serena lo raggiunge lui pronuncia una strana, enigmatica frase.

« Tra dodici ore non avrò la minima idea di chi tu sia ».

 

 

 

 

 

 

« Le ho già detto chi sono. Ora mi faccia entrare ».

Certe persone si potevano sentire intimidite dagli imperiosi cancelli del Palais de Saint-Honoré, da più di centotrent’anni residenza ufficiale del Presidente di Kalos e Grande Assessore di Luminopoli. Ginger lo affrontava a testa alta e schiena dritta, persino nel pietoso stato in cui era ridotta se raffrontata alla guardia che da dieci minuti le negava l’accesso, un monumentale ispanico che non fosse per il colore della pelle le avrebbe ricordato molto il suo collega Kibwe.

« L’appartenenza alla fondazione Flare non le garantisce un accesso gratuito, men che meno se il Presidente non c’è. Se ne vada o dovrò avvertire le autorità di competenza ».

La donna alzò gli occhi al cielo. Sapeva benissimo perché la trattava con tanta ostilità: la sua uniforme bianca era sgualcita, i suoi capelli spettinati e il trucco disfatto. D’altronde sfidava chiunque a uscire meglio di così da una notte all’addiaccio ai piedi del Palais per reclamare un’udienza. Al suo arrivo a Luminopoli la sera prima avevano già chiuso i battenti, ma si trattava di un colloquio troppo urgente e la sua reazione istintiva era stata un accampamento tenace.

« Quando arriverà il Presidente? ».

« Non sono autorizzato a dirglielo ».

« È molto utile, a quanto vedo ».

Un uomo di passaggio, probabilmente attirato dal diverbio in corso, si intromise nel dialogo « Scusate, c’è qualche problema? ».

Il buttafuori reagì impulsivamente, sentendosi attaccato da due fronti « Se ne stia fuori, signore. E lei, Xaad o quello che è, credo che un neopresidente abbia di meglio da fare il suo primo giorno che stare a sentirla ».

« Se permette decido io cosa voglio fare il mio primo giorno ».

Sia Ginger che la guardia tacquero di colpo, storditi, rivolgendo la loro attenzione al terzo arrivato. Era vestito in abiti senz’altro distinti, ma fin troppo sgargianti e atipici per un luogo austero come Saint-Honoré, in genere frequentato unicamente da pinguini in business suit. Eppure nonostante il timbro di voce più mansueto di quello categorico con cui demoliva gli esigui detrattori in televisione, non c’era dubbio che quel soggetto fosse Lysandre Faubourg, da poco più di dodici ore nuovo Presidente della Regione.

« Mi… Mi scusi, non l’avevo… » farfugliò il gorilla « Sono mortificato! Questa donna ha cercato di entrare in sua assenza! ».

Lysandre si voltò verso Ginger e, riscontrato che doveva essere membro della sua associazione, domandò con il suo usuale sorriso carismatico « Chi sei? ».

« Xaad, Ufficiale Flare e leader della Seconda Unità ».

« Ah, certamente, Xaad! Xaros mi ha parlato di te. Condoglianze per tuo fratello, è stata una perdita terribile per la fondazione ».

Ginger provò al tempo stesso rammarico al ricordo dei brutti avvenimenti del Le Crésus Hotel e onore all’idea che il suo capo sapesse ciò che era accaduto. « La ringrazio, signore ».

Lysandre annuì come a ribadire la sua partecipazione al dolore; poi, quasi volesse sbeffeggiare la guardia, proseguì « La prego, non stiamo qui a infreddolirci. Posso accompagnarla nel mio ufficio? ».

 

 

Quando Ginger rientrò nell’elegante studio privato del Presidente, il cui arredamento principe era un magnifico candelabro che si rifletteva nello specchio dietro la scrivania – quasi l’architetto avesse voluto farlo ammirare contemporaneamente da due angolazioni per esaltarne la finezza –, non poté che sentirsi a disagio. Lysandre le aveva concesso di usare il suo bagno per rimettersi in sesto e nel frattempo aveva ordinato personalmente la colazione ora artisticamente disposta su un vassoio appoggiato al suo tavolo. Se si fosse trattato di chiunque altro la donna avrebbe pensato che sarebbero seguite delle avances, ma l’uomo che le stava davanti doveva essere l’unico in tutta Kalos da cui non se le sarebbe attese.

« Prego, siediti. Avevi detto croissant e caffè, giusto? ».

Ginger annuì e sorrise per quanto trovava bizzarra la situazione « Grazie mille, signore. È troppo gentile ».

« Non esiste qualcosa come troppo gentile. Serviti pure ».

« A dire il vero volevo parlarle di una questione urgente ».

« Perché non fare entrambe le cose? ».

L’ingegnera era sempre più sorpresa. Non aveva mai incontrato Faubourg di persona, avendolo intravisto solo una volta alla propria nomina a Ufficiale – nella quale occasione, pressato dai suoi compiti di Intermediario, non aveva potuto trattenersi. Gliel’avevano descritto come un individuo eccentrico, ma mai si sarebbe immaginata fino a quale punto quell’affermazione fosse veritiera.

Dapprima si sedette e sorseggiò il caffè con un po’ di resistenza, poi addentò il cornetto realizzando la fame tremenda che l’attanagliava. Divorò il cibo in un batter d’occhio, abbozzando poi un tentativo di scuse per il comportamento inappropriato.

Lysandre la fermò sul nascere alzando la mano « All’affamato spetta il pane che si spreca nella tua casa. Parla pure ».

« Ieri sono stata al Consiglio dei Superquattro ».

Il presidente ridacchiò, quasi immaginasse l’ovvio seguito – il che era più che logico, considerando la sua esperienza con tale organo istituzionale. « Non ti han fatto parlare, vero? ».

« No ».

« Beh, non ti preoccupare, non sono come loro ».

La sensazione di disagio di Ginger si acuì. Non si era fatta problemi ad attaccare i Superquattro, che non erano cariche meno importanti di quella che aveva davanti, ma per qualche ragione l’idea di esporre le sue idee stravaganti a Faubourg la imbarazzava. Ciononostante decise di raccontare tutto: del furto di zinco, della scomparsa dei gioielli e, per ultimo, della sua vaga ipotesi esplicativa.

« … Lo zinco è un catalizzatore sinaptico, per questo è parte della lega che compone le Poké Ball. Ma oltre a sapere che hanno rubato un generatore di quel tipo non so dire. Lo so che è poco, ma… » concluse al termine di un prolungato discorso, non trovando parole per continuare.

L’uomo meditò per un minuto buono, poi pronunciò il suo verdetto « Fai quello che devi ».

« Davvero? » si sorprese sinceramente la donna. Si sarebbe attesa un contrasto sulla plausibilità di tutto ciò, non certo un via libera simile.

« Ignora i Superquattro, hai la mia autorizzazione. Mandali da me se persistono ».

« Io… Io non so che dire, signore. La ringrazio infinitamente ».

Lysandre assunse d’improvviso un’espressione preoccupata, si alzò dalla scrivania e si avvicinò alla finestra. Guardò all’esterno pensieroso, scrutando la via antistante. « Non hai dormito stanotte, vero? ».

Ginger rimase perplessa dalla domanda. Ma doveva rispondere: in fondo era il Presidente di Kalos a porla, per di più dopo averle fatto un enorme favore. « No… Ma immagino fosse per il freddo, no? ».

« Forse » disse l’uomo, marcatamente poco convinto. Si passò la mano sugli occhi con un gesto quasi buffo, come se stesse controllando se tutte le dita fossero ancora al loro posto; poi si voltò verso Ginger, che solo allora si accorse di due vistose occhiaie che scavavano il suo viso « Non ho dormito nemmeno io. E anche Xaros, e parecchie persone che conosco. Tutti abbiamo la sensazione che Kalos stia per entrare nella sua ora più nera. E tutti sentiamo una litania ».

L'Ufficiale Flare rabbrividì. Non tanto all'idea che ci fosse una sorta di collegamento onirico tra varie personalità della regione, quanto per il fatto che temeva di sapere quale fosse la litania, e soprattutto la raggelava l'ipotesi che anche lei l'avesse udita. Un paio di volte negli scorsi giorni le era parso di sentire una voce. Accadeva nei momenti più impensabili, quando si concedeva attimi di distrazione. E quella voce ripeteva sempre la stessa cosa, quattro sillabe prive di senso. « Le due lettere, signore? ».

Di colpo Lysandre parve affaticato. Si diresse nuovamente alla scrivania, appoggiandovisi con entrambe le braccia e annuendo rabbuiato « Buona fortuna, Xaad ».

 

 

 

Episodio 1x28

L’ultimo tramonto

 

 

 

« Tra dodici ore non avrò la minima idea di chi tu sia ».

Serena non distolse lo sguardo dal suo amico anche dopo che lui ebbe ripreso a fissare il mare tinto di rosa. Non ricordava in tempi recenti un momento in cui si fosse sentita tanto spaesata, tanto bisognosa di sapere di più.

« Cosa? » domandò. Bellocchio tacque, estraniatosi dal mondo esterno, ma lei non era disposta ad accettarlo. Non ora. « Ehi, rispondimi. Non puoi dirmi una cosa simile e poi nulla ».

Il giovane perdurò il silenzio, ma non perché fosse sua intenzione. La verità è che non aveva mai rivelato a nessuno il suo segreto prima d’ora, o quantomeno credeva di non averlo fatto. Nel vero senso della locuzione non sapeva cosa dire.

« Descrivimi un tramonto ».

« Eh? ».

« Descrivimi un tramonto » ripeté lui con il tono più serio che riusciva a imprimere alla propria voce. Poi aggiunse « Per favore ».

Era una richiesta tanto pazza che Serena decise di fare ciò che normalmente si fa con i pazzi: dare loro corda. « Beh, è quando il sole va oltre l’orizzonte… ».

« No, no, non il fenomeno fisico! » esclamò Bellocchio scocciato « Descrivimelo esteticamente ».

« Uhm… Il cielo si fa… Rosso, direi, o arancione… E le nuvole… ». Si interruppe irritata. Non ci stava a fare la bambina a cui insegnare le basi. Non avrebbe preso parte a nessuno dei suoi giochetti finché non avesse detto tutta la verità. « Perché perdiamo tempo così? ».

« Perché io non so com’è fatto un tramonto. Io non saprò mai com’è fatto un tramonto ».

Sempre meno senso. « Non hai mai visto un tramonto? ».

« Ne ho visti parecchi, come tutti. Ma… Ecco, è difficile da spiegare ». Bellocchio fece una pausa per riordinare le parole che gli frullavano in testa. Non c’era un modo per dirlo, se ne rendeva conto solo ora, quindi c’era solo una via per non risultare paternalistico: spiegarlo esattamente come lo veniva a sapere lui ogni giorno. Tornò a guardarla direttamente e si fece coraggio « Serena, non ho la minima idea del perché, ma io a ogni tramonto perdo completamente la memoria ».

Le reazioni che si susseguirono nel giro di un istante nella mente della ragazza sono difficili da elencare ordinariamente. Dapprima pensò che fosse uno scherzo, uno scherzo di pessimo gusto perpetrato ai suoi danni. Ma quegli occhi, quei tristi occhi… Non li aveva mai visti così sinceri. Non stava scherzando né mentendo. Forse per la prima volta da quando si erano incontrati era stato completamente onesto con lei. E ciononostante era impossibile.

« Ma… Ma non è vero, tu… Tu sai chi sono io! ». Appena dopo la protesta si fermò, colta da un dubbio. Che avesse… finto? Improvvisato continuamente? « … Lo sai, vero? ».

Il breve silenzio che precedette la sua risposta le fece cadere il mondo addosso, ma le parole negarono l’eventualità. « Sì, lo so. So che sei bionda, che ti ho incontrata a Borgo Bozzetto, che ti ho salvata dai Beedrill, che tu mi hai salvato da Omastar ». Una smorfia amara segnò il volto di Bellocchio « Ma non è che lo so, io ci credo. Io credo a tutte queste cose, così come credo che quando il sole tramonta il cielo diventa rosso. Non ho modo di saperle ».

« Ma le ricordi! Se le ricordi vuol dire che sono dentro di te, no? Se no vuol dire che ogni… ». Che ogni giorno qualcuno te le dice, stava per dire, ritenendola una possibilità assurda. Ma c’era qualcosa, qualcosa che si era spesso chiesta sul suo compagno di viaggio, che così assumeva un senso sconvolgente.

« Ho letto tutto sul mio taccuino. Come credo di aver fatto il giorno prima, e il giorno prima ancora e via così ».

Serena ammutolì incredula. Tutte le volte che l’aveva visto scrivere aveva pensato fosse un diario, o un altro elemento della sua infinita stravaganza, ma mai un promemoria. « Ogni giorno dopo il tramonto leggi la tua intera storia? ».

« Beh, non dimentico proprio tutto. Per esempio so come camminare. In generale non scordo come parlare o come fare le cose. So che devo mangiare e bere o morirò, e so più o meno cosa devo mangiare. Mi rendo conto di essere un uomo ». Da come parlava era evidente il suo intento: addolcire la pillola. E non a Serena, ma a se stesso. Forse ogni giorno doveva convincersi che la sua condizione non era la peggiore possibile, perché chi avrebbe accettato di vivere se avesse affrontato una realtà simile? Non lei, probabilmente. Il suo amico aveva una determinazione persino superiore a quella già dimostrata, un caso praticamente impareggiabile. « Il taccuino le chiama conoscenze pregresse, è come se mi ricordassi ciò che serve per sopravvivere. Oltre lì, buio totale ».

Il modo in cui ne parlava, come se fosse una cosa naturale, era l'aspetto più sorprendente: se davvero scordava tutto al tramonto questa per lui era tecnicamente la prima volta. D’altronde, che motivo avrebbe avuto per mentire, scartando l’assurdità di una burla irrealizzabilmente complessa?

« Ma non ci metti ore? Non ti ho mai visto durante un tramonto, ma qualche minuto dopo sì ».

« La seconda cosa che scopro è che so leggere molto velocemente. Cioè, la seconda cosa che ho scoperto oggi ».

« E la prima? ».

« Il mio nome. Cioè, i miei due nomi, quello vero e Bellocchio ».

Serena iniziava solo ora a riprendersi dallo shock della prima di quella caterva di rivelazioni e rimase assorta un attimo ad ammirare l’alba ormai definitivamente compiuta. Non poteva permettersi di esitare, di chiedersi come fosse possibile: se Bellocchio le aveva detto la verità voleva dire che, consciamente o meno, necessitava del suo aiuto.

« Da quanto va avanti? ».

« Il taccuino non lo dice. Si ferma al mio soggiorno a Sinnoh iniziato due anni fa ».

« Due anni… E per due anni tu hai segnato tutto ciò che vivevi? Tutte le nostre avventure le hai scritte lì? ».

« A quanto pare… ». Lo sguardo di Bellocchio appariva tutto meno che sollevato dal fatto di aver detto tutto a qualcuno. E anche la sua amica lo avvertiva: c’era qualcosa che ancora non aveva capito.

Poi ci arrivò. La colpì come una pugnalata, una testata improvvisa dritta sulla fronte. Ora sapeva la verità, compresa la parte che non le era stata ancora rivelata.

« Hai perso il taccuino ».

Il giovane fece un cenno afflitto di conferma. Adesso era chiaro, adesso era palese perché avesse deciso di dirglielo. Adesso la prima frase pronunciata in quella sede acquisiva un’interpretazione, un contesto vero e proprio.

« Beh, e allora che aspetti? » proruppe alzandosi in piedi e invitandolo a fare lo stesso « Iniziamo a cercarlo, no? ».

« L’ho già cercato mentre tu non c’eri, ma non ce n’è traccia in tutta la spiaggia ».

« Sì, ma forse non… ». Si arrestò, sorpresa di se stessa: non poteva stare seriamente per dire che il suo amico, la persona più intelligente che conoscesse, avesse peccato di superficialità nella ricerca di un oggetto di tale importanza. Aveva risolto l’enigma del Palais Chaydeuvre, che andava a pensare? « … Era buio! Ora c’è il sole, possiamo… ».

« Lascia perdere, Serena, non c’è. È meglio che inizi a scriverne uno nuovo, anche se ne ricordo forse metà ».

La ragazza faticava a crederci. Si stava arrendendo? « Questo non è il Bellocchio che conosco io! ».

« Beh, io nemmeno conosco il Bellocchio che conosci tu, giusto? » replicò adirato il giovane.

Così non andava, non doveva metterla su quel piano o avrebbe solo alimentato il suo istinto di autocommiserazione. Doveva far leva su qualcosa che lo spingesse a reagire. « Il Bellocchio che conosco io ha salvato Luminopoli da un Dusknoir. Ha salvato me dai Beedrill rischiando la vita. Ha affrontato da solo uno Zoroark e gli elicotteri del governo insieme ».

« Sì, ma non sono stato io. Hai idea di che cosa significa svegliarsi in un corpo che non senti appartenerti? Qualche uomo strano ha fatto azioni a mio nome, non certo io. E ora, se non ti spiace, devo trovare un nuovo taccuino, e il me passato non mi ha nemmeno lasciato dei soldi ».

Non era stato lui. Serena comprese: non si sentiva se stesso. Le sue azioni passate non contavano perché dal suo punto di vista non le aveva compiute. Chissà quante crisi aveva avuto in quei due anni o più, quante volte aveva dubitato, e nemmeno poteva ricordare di aver mai tremato di fronte alla sua amnesia cronica. Per la prima volta nel dialogo riuscì a percepire l’estrema solitudine che doveva affliggerlo costantemente e che aveva sapientemente celato fino ad allora. Ma non poteva lasciarlo a se stesso, lo doveva al vecchio Bellocchio. Lo doveva al Bellocchio che ora non riusciva a vedere, ma che doveva essere ancora lì.

« E Cornelius? ».

« Come? ».

« Chi l’ha salvato dall’incendio? ».

Serena lo vide incespicare nella risposta, e sorrise appagata quando fu costretto ad ammettere l’evidenza. « … Noi ».

« No, io sono arrivata dopo. Chi ha rischiato la sua vita per soccorrerlo? ».

Il giovane stava disperatamente dando la caccia a una risposta che avvalorasse la sua tesi, anche se visibilmente non ce n’erano. « È stato un caso » mugugnò, quasi vergognandosi egli stesso di essere giunto a una reazione così scontata come negare la realtà.

Ora serviva una terapia d’urto, qualcosa che gli desse il colpo di grazia scrollandogli di dosso l’alone rinunciatario. « È evidente che non ricordi più chi è Bellocchio, quindi al momento dovrò sostituirti io. Che cosa direbbe Bellocchio in questa situazione? ». Serena si fermò a pensare guardandosi attorno, poi ebbe un’illuminazione e puntò il dito sul suo amico a indicare un eureka gestuale « Direbbe che la spiaggia è pulita ».

« E con ciò? ».

« C’è stata una festa e un incendio, sicuramente ci dovevano essere rifiuti. Invece è pulita ».

Bellocchio esitò, poi i suoi ingranaggi mentali iniziarono finalmente a girare. Si alzò in piedi, apparendo persino ringiovanito « Per caso il mio me passato ti dava delle medaglie? ».

« Mai ».

« Dovrei cominciare! » esclamò, ripassando la conclusione del ragionamento: se la spiaggia era pulita significava che qualcuno era passato a raccogliere i rifiuti prima di far passare lo schiacciasassi. E non poteva che averli portati in un posto. « Dov’è la discarica? ».

Serena sorrise, felice che Bellocchio, il suo Bellocchio fosse tornato. « Ti sembro un topo? Chiediamo a qualcuno! ».

L’uomo si fece nuovamente serio d’un tratto, ribattendo categorico « No ».

« Come? » chiese sbigottita la ragazza. Che voleva dire no? Eppure sembrava quello di prima, finalmente. Che si fosse solo illusa?

« Voglio fare questa cosa da solo » spiegò lui, cercando di risultare quanto meno ostile riusciva. Sapendo che sarebbero giunte immediate proteste le anticipò, prevedendone la tipologia « Sei una grande amica, la persona a cui tengo di più, ma questa è una cosa mia. Sono sempre stato da solo quando leggevo il taccuino, e voglio che resti così ».

Da un lato Serena sapeva che non poteva abbandonarlo. Ma dall’altro a parlare non era la versione rinunciataria del suo compagno di viaggio. Era completamente in sé, ed entrambi erano ben consci della ragione per cui non voleva essere visto: nessuno vuole avere testimoni nel suo momento di massima vulnerabilità. Doveva lasciargli spazio, avere fiducia in lui e non preoccuparsi di una possibile crisi. « Promettimi di avvertirmi quando lo troverai ».

Bellocchio sorrise e sfilò una penna dal cappotto, iniziando ad annotare il patto sulla propria mano sinistra « Adesso se anche non lo trovassi sarai l’unica persona di cui mi ricorderò ».

« Buona fortuna ».

L’uomo in nero ricambiò con uno sguardo incisivo, poi si diresse a passo sostenuto verso la reception del resort per informarsi sulla raccolta di scarti di Altoripoli. Controllò lestamente l’orologio da polso: sei e mezzo del mattino. Iniziavano le sue ultime dodici ore.

 

 

Serena trovò la porta della sua dimora temporanea ancora aperta quando rientrò, e la chiuse sperando che nessuno avesse portato via qualcosa per causa sua. Il soggiorno si era infreddolito poiché aveva lasciato la portafinestra del terrazzo spalancata, ma la cosa non la sfiorava minimamente: da quando aveva finito di parlare con Bellocchio si era sentita stravolta, del tutto ripudiata dalla precedente insonnia. Si sarebbe volentieri concessa di riposare, ma il suo amico avrebbe potuto fare ritorno da un momento all’altro, e trovandosi nella sua ora peggiore non poteva lasciare che rimanesse solo. Si sdraiò sul letto e iniziò a guardare il soffitto, senza curarsi della gelida brezza ancora non riscaldata dal sole. Tanto non aveva intenzione di dormire, pensò. Avrebbe rilassato un po’ gli occhi. Questo poteva permetterselo.

Dong…

Dong…

DONG!

Destata dal frastuono di campane proveniente da fuori Serena spalancò le palpebre. C’era qualcosa che non andava: l’illuminazione era più elevata e i raggi entravano da un’angolazione diversa.

Più di qualcosa che non andava: c’erano persone per casa. Si alzò seduta sul materasso cercando di metterle a fuoco, verificando che si trattava di due uomini che trasportavano un ponderoso cubo argenteo. Indossavano abiti da lavoro consistenti di pantaloni grigi e maglie bianche su cui era riportato un logo che somigliava a una bolla scarlatta. L’intero scenario le appariva surreale, era quasi come se…

« Ti sei svegliata! Scusa per il casino, stanno portando via la lavatrice rotta ».

… fosse un’ora diversa del giorno. Si era addormentata. Serena controllò dietro di sé, dove poco davanti a Cornelius che le aveva dato il buongiorno era appoggiata una sveglia da mensola. Erano le nove del mattino, il che significava che erano trascorse due ore. Due ore di pennichella, e tanti saluti all’autocontrollo.

« La… lavatrice? ».

« Sì, stamattina ho visto che si era rotta, così ho chiamato l’assistenza e ora me la stanno ritirando. Rientra nella garanzia ».

Ora la ragazza riusciva a ricordare meglio, rammentando il problema riscontrato con i vestiti suoi e del suo compagno notturno. Ciò, a catena, le riportò alla mente proprio lui. Chissà quanta strada aveva fatto in centoventi minuti, forse aveva persino concluso la ricerca. « Bellocchio si è visto? » domandò.

« No. Stavo per chiedere a te dove fosse ».

Uno dei due tecnici, i quali nel frattempo avevano ultimato il faticoso trasporto della lavabiancheria guasta all’uscita, si presentò con un fitto modulo precompilato. « Noi abbiamo finito, dovrebbe ricevere un rimpiazzo nel giro di una settimana. Servirebbe una sua firma… qua, qua e qua ».

« Subito, prendo una penna » annuì Cornelius, poi si rivolse a Serena ancora sotto l’influsso del torpore da risveglio « Fai pure colazione, dovrei avere dei cereali in alto a destra in cucina, ma niente latte ».

La giovane si diresse nel lato designato dell’appartamento con andatura dinoccolata, sapendo fin da subito che non aveva per nulla fame. Invece esaminò gli scomparti del frigorifero fino a rinvenire un cartone di succo etichettato come gusto tropicale, senza ulteriori specifiche. Lo versò pigramente mentre udiva la porta di casa serrarsi, segno che gli operai se n’erano andati, e gettò uno sguardo al buco lasciato sotto il lavello, dove ora erano visibili le tubature. Sorseggiò il liquido, trovandolo terribilmente caldo e rammentando solo allora che il refrigeratore era stato trovato difettoso la sera prima.

« Dovresti far riparare anche il frigo, sai? » comunicò ad alta voce per farsi sentire nella sala limitrofa.

« Ho chiamato, ma hanno detto che potranno passare solo nel pomeriggio. Hanno ricevuto parecchie telefonate stanotte ».

Serena aggrottò la fronte e sporse il capo nel soggiorno. Cornelius si era disteso sul letto senza nemmeno richiuderlo nella sua forma di divano e aveva acceso la televisione su Kalosmattina. L’uomo si rese presto conto di essere osservato e ricambiò lo sguardo « Ah, vuoi vedere la TV? Tra una mezz'oretta vado a lavorare ed è tutta tua ».

« Puoi passare un attimo sul TG? ».

Quello eseguì controvoglia e sullo schermo comparve lo studio celeste in cui era registrato il notiziario delle nove. Visto l’orario esso era ovviamente appena cominciato, e più precisamente si era appena concluso il primo servizio. Serena si posizionò dietro il comodino longilineo dietro al giaciglio per avere una visuale migliore.

« E non solo gli incendi hanno turbato molti sonni stanotte. In tutta la regione sono stati riscontrati malfunzionamenti a ogni tipo di elettrodomestico, particolarmente nei grandi centri abitati. Ci colleghiamo con il nostro inviato da Luminopoli ».

La raffinata anchorwoman scomparve lasciando il posto a una ripresa sul campo: un giornalista basso e grassottello, alquanto somigliante a Tierno per certi versi, stagliato di fronte a un edificio dalle prominenti ciminiere, facilmente una fabbrica. Vi fu un attimo di silenzio dovuto al ritardo di diretta, poi iniziò a parlare « Sì, mi trovo proprio ora davanti allo stabilimento centrale della Dive, la principale produttrice di lavatrici di Kalos, con il responsabile delle relazioni esterne dell’azienda ».

L’inquadratura si allargò fino a mostrare il PR appena nominato, abbigliato in stile trasandato salvo per una fine spilla appuntata al petto. Il reporter non perse tempo e instradò subito l’intervista « Ci sono state lamentele provenienti da ogni città di malfunzionamenti dei vostri prodotti, cosa sa dirci? ».

« Beh, per cominciare farei notare che lavatrici di ogni marca hanno riportato lo stesso tipo di danno, quindi non si tratta di un difetto di fabbrica ». Il cronista tentò di riprendere la parola, ma fu prontamente fermato « In ogni caso stiamo provvedendo a sostituire gli apparecchi sotto garanzia con modelli operanti. Chiediamo solo pazienza perché il volume di richieste è tale che prima di sei ore dalla chiamata difficilmente potremo soddisfare la vostra ».

Il resto della conversazione si dipanò senza spunti culminanti, vertendo sugli ignoti motivi dei guasti, ma Serena non ascoltò concentrandosi sulla clip dell’addetto alle pubbliche relazioni. Dove l’aveva già vista?

Certo! Sulle maglie dei tecnici venuti per le riparazioni! « La tua lavatrice era una Dive? » chiese a Cornelius.

L’uomo sfoggiava un’espressione annoiata, quasi irritata dal telegiornale « Certo, bellezza. Solo il meglio per un pirata ».

« Ha detto sei ore… » rifletté a voce alta la ragazza « Perché qui sono venuti così presto? ».

« Beh, immagino… Di essere stato uno dei primi a chiamare, non so ».

Forse, pensò Serena, o forse loro non erano della Dive. Era un’idea assurda, ma quanto più razionale era il fatto comprovato che in tutta Kalos gli elettrodomestici si stessero rompendo in sincronia? Fece un salto sul balcone per inquadrare il pianterreno: poco distante dall’ingresso la coppia aveva giusto ultimato le procedure di carico della lavabiancheria sul loro furgonato e ora si accingevano a partire. Con un guizzo si ripresentò da Cornelius, srotolando fuori le parole dalla bocca senza sprecare un secondo.

« Hai mica una bicicletta da prestarmi? ».

 

 

Sacchetti stagni, scatole di legno, confezioni cartonate, scarti organici, residui stradali e Wingull in cerca di cibo che schiamazzavano. La quantità di spazzatura solida urbana accumulata nella discarica produceva un fetore che avrebbe provocato uno svenimento in chiunque meno quelli che la visitavano nella speranza di trovare tra gli avanzi altrui le proprie necessità. Bellocchio rovistava in una pila di rifiuti cartacei a schiena curva, con movenze altalenanti simili a quelle di una belva randagia. Rinvenne quello che doveva essere un volume scolastico a giudicare dallo spessore, e lo esaminò: trattava di storia antica, anche se il titolo era illeggibile. Tutte quelle memorie, tutti quei ricordi impressi su carta per l’eternità… E lui si sarebbe scordato la sua identità nel giro di mezza giornata.

D’un tratto il silenzio etereo che aleggiava fu interrotto da un rumore secco che lo fece voltare di scatto. Dietro di lui un senzatetto alzò le mani in segno di scusa. Bellocchio lo scrutò con occhi ferali, quasi inumani per come guizzavano: era un mendicante robusto e alto più di due metri. Dalle rughe che gli solcavano il volto pareva assai attempato, ma si sa che dopo una certa età azzardare numeri diventa problematico.

« Scusa, capo. Non volevo spaventarti » gli disse. Il giovane lo ignorò, tornando a frugare nell’immondizia. « Sei vestito bene per trovarti qui ».

Non poteva dire di no: colui che gli aveva rivolto la parola indossava stracci vecchi di decenni. Lui, con l’abito scuro ed elegante preso in prestito da Cornelius, appariva come un pesce fuor d’acqua. « Sto cercando una cosa che ho perso ».

« Le cose si perdono. Lascia perdere, capo, non la troverai mai ».

L’anima della festa, pensò l’uomo prima di ribattere « Devo trovarla per forza ».

Il vagabondo si approcciò a lui, tendendogli la mano guantata sorprendentemente nitida per uno che si aggirava per la discarica di Altoripoli. « Mi chiamo Azrael ».

« Bellocchio » si presentò l’altro ricambiando il gesto di cameratismo.

« Davvero? ».

Il giovane ci rifletté per bene prima di rispondere, perché era una domanda che, forse intesa come una battuta, era in realtà spinosa al momento. « Non lo so » disse infine. Poi, colto da un dubbio, soggiunse « Tu per caso mi conosci? ».

« Non ti ho mai visto prima di oggi ».

« Allora siamo in due ». Bellocchio si allontanò barcollante verso un altro cumulo, infilandovi le mani tremanti. Le chiuse nel lerciume digrignando i denti e iniziò a prendere a calci il pattume, un colpo dopo l’altro, con una violenza tanto improvvisa quanto inaudita, demolendo il mucchio. Scoppiò in un pianto isterico e si rannicchiò tra i fondi di alimenti senza curarsi nemmeno di quanto fosse salutare. Perché a lui? Perché era dovuto toccare a lui? Che cosa aveva fatto per meritarsi un destino tanto ignobile come dimenticare chi era a ogni tramonto? Come poteva verificarsi un fatto simile?

Azrael gli venne incontro preoccupato. « Ehi, capo, tutto bene? ».

« VATTENE! » gridò quello tra le lacrime che gli rigavano le guance. Non gli importava più nemmeno della ricerca, voleva restare da solo e basta.

« Dimmi che cosa stai cercando, posso aiutarti a trovarla » propose una volta vinta una certa dose di titubanza.

 Bellocchio, sul punto di soffocare tra i singhiozzi, mormorò « Un taccuino ».

« Un… taccuino? » ripeté Azrael stranito « Già un altro oggi mi ha chiesto di un taccuino ».

Il giovane frenò il pianto come riuscì e alzò la testa « Davvero? ».

« Un’ora fa circa. Diceva che gli serviva assolutamente. Gli ho dato una mano e alla fine ne abbiamo trovato uno nero in pelle… ».

Alzatosi in piedi, Bellocchio si asciugò gli occhi umidi, riprendendosi nel frattempo dallo sgomento. Un taccuino nero di pelle era la perfetta descrizione del suo. Se si trovava nella discarica adibita ai rifiuti urbani, l’unica alternativa era che qualcun altro avesse perso un clone del suo bloc-notes nello stesso giorno. Poco credibile.

« Chi era? ».

« Si chiamava… Logan Kashlinsky, mi pare… Era sulla trentina, vestito di tutto–– ».

L’uomo gli scosse le braccia per la sovreccitazione, in un cambio d’umore tanto repentino da risultare angosciante « Ti ha detto dove andava? ».

« No » spiegò Azrael rammaricato, appena prima che un ricordo degno di nota gli sovvenisse « Però ha detto che era della radio. Probabilmente è andato all’Antenna ».

« L’Antenna? ».

Il senzatetto indicò un edificio in lontananza, uno dei pochi della cittadina ad avere uno stile architettonico moderno. Si trovava ai piani elevati di Altoripoli, il che spiegava come mai fosse visibile anche da lì. « C’entra qualcosa con la radio, anche se non so bene. Magari lo trovi là ».

Lì Bellocchio si esibì in quello che Azrael avrebbe definito come un sorriso interiore: la sua bocca rimase inerte e mai nella conversazione ne aveva mostrato uno, ma l’euforia che muoveva ora ogni suo passo era palpabile. « … Grazie! Grazie, grazie mille! » esclamò prima di andarsene.

Il poderoso mendicante lo frenò con un braccio per trattenerlo, così da potergli porre una domanda che aveva voluto fargli fin da quando era collassato sui rifiuti. « Sicuro di stare bene? ».

Si guardarono per un po’, ma Bellocchio non pronunciò alcuna risposta. Attese solo che la stretta si allentasse appena per sfuggirgli e inseguire la nuova pista con rinnovata fiducia, il cappotto nero sfarfallante al vento.

 

 

Il furgonato dei presunti tecnici, terminato il giro di segnalazioni, si stava ora inoltrando in una stradicciola sterrata dopo essere giunto nella sezione disabitata di Altoripoli. Gli abitanti del paese le chiamavano le Fondamenta: un quartiere ormai spopolato per via del processo di inurbamento, sito al limitare del borgo. Serena aveva seguito la vettura in bicicletta e non avendo nemmeno mangiato a colazione ora si sentiva spossata, ma non pensò nemmeno per un istante di desistere.

Per sua fortuna il camioncino le facilitò le cose fermandosi di fronte a un magazzino di legno smantellato e deserto, probabilmente solo casa di piccoli insetti. La ragazza svoltò l’angolo per nascondersi dietro la parete prima che gli uomini scendessero dal loro veicolo, così da non farsi scoprire, e protese l’orecchio. Per quanto non potesse vedere nulla di quanto stesse accadendo, a giudicare dai rumori prodotti dovevano stare scaricando le lavatrici recuperate dai cittadini in quel deposito, e la cosa più disturbante è che non avevano ancora pronunciato una sola parola. In effetti, a ben pensarci, non li aveva notati impegnati in nessun vaniloquio leggero nemmeno a casa di Cornelius. Che fossero degli insospettabili stakanovisti?

Il processo di sgombero si concluse dopo un quarto d’ora di quiete assordante, cui seguì il suono meccanico dell’avvio di un motore e la sterzata degli pneumatici sul terreno. Serena cercò di capirci qualcosa, ma a ripeterselo aveva anche meno senso: quei due avevano raccattato per conto della Dive gli elettrodomestici guasti e li avevano deposti lì. L’unica possibilità era una discarica abusiva.

Quando entrò nell’edificio anche quest’ultima idea svanì, sostituita da un’altra incombente domanda. Il tetto era stato squarciato da anni di intemperie e le finestre erano rotte o assenti, il che significava che l’interno era ben illuminato. Ma di lavatrici neanche l’ombra.

La giovane compì due volte un giro completo su se stessa, ma non c’era alcun dubbio, era vuoto. Prima ancora di chiedersi come fosse possibile, al suo udito in allerta da prima giunse uno strano ronzio. Non erano Beedrill, e in effetti difficilmente si trattava di qualcosa di organico; sembrava più una ventola. Si chinò a livello del pavimento e chiuse gli occhi per localizzarlo meglio, e alla fine individuò la sorgente: l’angolo in fondo a sinistra. Essendo vuoto e avendo le pareti troppo spesse per un doppio fondo, restava una sola ipotesi plausibile: Serena batté i pugni sul pavimento e avvertì l’eco cadere vuota. Furono necessari solo pochi attimi per svelare quella che era a tutti gli effetti una botola.

Sotto di essa, celato all’occhio poco avveduto, si trovava un cunicolo a sezione quadrata di due metri per lato su cui giaceva un nastro trasportatore in funzione che produceva il brusio traditore. Per quanto inizialmente insicura, la ragazza ci salì sopra vinta dalla curiosità, e attraverso un viaggio con graduali variazioni di inclinazione giunse a muoversi parallela al terreno. Infine la galleria terminò, svelando oltre essa un’altra sorpresa della giornata: un’ampia stanza sotterranea percorsa a mezz’aria dal tapis roulant sospeso su cui si trovava.

L’ambiente era di forma cubica, delle dimensioni approssimative di un cortile scolastico; dovunque sul pavimento in cemento erano sparse scatole impolverate contenenti pezzi di ricambio di ogni sorta, nonché oggetti che per tipologia parevano reliquie di un trasferimento. In effetti l’intera zona somigliava all’interno di un camion per traslochi, salvo per due elementi fuori posto: il piano scorrevole su cui si trovava Serena e una singola porta posizionata sul lato opposto su cui campeggiava ermetico il numero trentuno.

Si tuffò giù, garantendosi un atterraggio parzialmente soffice grazie ai cartoni accatastati su un fianco, e dalla nuova posizione ribassata riuscì a scorgere il proseguimento del nastro su cui aveva viaggiato: al di là del varco d’uscita esso iniziava progressivamente a risalire, seguitando nel suo itinerario. Era ovvio, a questo punto, che i due tecnici dovevano avervi piazzato sopra le lavatrici guaste, le quali erano ora impegnate in un tragitto clandestino nel quartiere. Ma perché?

La ragazza esaminò una pila di scartoffie informalmente abbandonata in un cantuccio, ma se quello che vi era scritto era linguaggio umano lei non era in grado di decifrarlo. Lì vicino le saltò all’occhio il case di un computer fisso scollegato. Lo analizzò premendo un paio di volte il pulsante di accensione, ma come ipotizzabile non reagì minimamente allo stimolo.

« I visitatori sono pregati di non toccare le proprietà della Dive Corporation ».

Serena trasalì: una voce monotòna aveva appena pronunciato quelle parole da dietro di lei. Ma c’era qualcosa di ancor più sconvolgente: lei conosceva quella voce. Si voltò incredula, verificando che non si era sbagliata: dritta sulle gambe come un’atleta in posa, sua madre le aveva appena parlato. Sua madre. La giovane rimase senza parole, incapace di formulare un concetto anche solo nella sua testa. Impossibile, le ronzava, impossibile.

Poi comprese, o almeno pensò di farlo. « … Bellocchio? ».

« Indicare la natura dell’affermazione ».

La risposta e soprattutto il timbro di pronuncia incrementarono i dubbi di Serena, ma ormai non aveva senso tirarsi indietro. Il suo amico si era già travestito una volta in quel modo e, accantonando l’idea che sua madre avesse fatto chilometri di strada per spaventarla, quella era la spiegazione più probabile. « Tu sei… Bellocchio? » ripeté.

« Negativo. I visitatori sono pregati di allontanarsi dalle proprietà della Dive Corporation ».

Proprietà della Dive Corporation… Doveva trattarsi del PC. Serena si fece lentamente da parte, cominciando a girarle intorno senza osare avvicinarsi di un centimetro. Aveva detto Dive Corporation, il che significava che quel locale era davvero di proprietà della Dive e i due uomini non erano truffatori. O almeno, ciò avrebbe dedotto se non avesse significato fidarsi di sua madre. Che non poteva essere lì.

« Chi o cosa sei? ».

La donna replicò meccanicamente sciorinando una formula con fedeltà decisamente inumana « Guida Interattiva dello Stabilimento “L” di Altoripoli, proprietà intellettuale e fattuale della Dive Corporation. Giselle in breve ».

« Questo risponde a chi » osservò Serena cercando di controllare la paura che l’attanagliava « Cosa sei? ».

« Sono un’interfaccia olografica con l’obiettivo di assistere i visitatori nell’orientamento ».

« Okay ». No, non era okay. Aveva appena detto che era un… robot? No, olografica, quindi un ologramma. Non riuscì a credere a ciò che stava per chiedere. « Giselle… perché hai l’aspetto di mia madre? ».

« Il cervello dei visitatori è scandito quando entrano nello Stabilimento e una figura di fiducia ne è estrapolata per favorire il massimo comfort durante il tour ».

« Risultato non propriamente raggiunto ». Al vocabolo massimo era stata dedicata un’inflessione diversa, che non faceva altro che rendere il modo di parlare di Giselle meno realistico. Quindi, in poche parole, le avevano letto in testa e avevano tirato fuori la faccia di sua madre per applicarla alla guida turistica. Sicuramente era una violazione dei diritti di qualcosa, non poteva essere legale.

« I visitatori sono pregati di esporre la natura della loro visita ».

« Io… » Serena tentennò. Doveva muoversi con cautela: c’era un’alta probabilità che la sua presenza non fosse autorizzata. « Sono qui per caso. Anzi, se possibile vorrei uscire ».

L’interfaccia assunse un volto annoiato, che però anziché convogliare una sensazione di umanità appariva solo inquietante « Sfortunatamente non esistono uscite dirette dalla cella di ricevimento periferico. La via di accesso più vicina è la scala primaria ».

« Okay… Puoi portarmici? ».

« Certamente. Tempo stimato di arrivo: venti minuti. I visitatori sono pregati di seguirmi oltre il Link 31 ».

Per la prima volta Giselle iniziò a camminare con movenze singolarmente fluide, quasi migliori di quelle del modello che impersonava. Rendendosi conto che il Link 31 doveva essere la porta che aveva visto prima, e verso cui la donna si stava dirigendo, Serena le si accostò per il terrore di essere lasciata indietro senza via di fuga. Il risultato era alquanto imbarazzante: lei affiancata a qualcuno che nemmeno esisteva come quando passeggiava con sua madre. E sarebbe dovuta resistere venti minuti!

« Non puoi almeno cambiare aspetto? » propose speranzosa.

« Negativo ».

« E figurati ».

 

 

« Nessun Logan Kashlinsky risulta lavorare qui » confermò Garrett dopo aver trascorso gli ultimi due minuti a effettuare ricerche nel database dell’Antenna, peraltro costretto a usare la tastiera con una mano sola dal momento che l’altra era ferma sul naso per velare il fetore diffuso da colui che gli stava di fronte. Quell’uomo era un’antitesi vivente: indossava abiti adatti per entrare a Palais Brongniart, ma il tanfo di cui era impregnato erano tali da suggerire che provenisse da una immondezzaio o un posto simile.

« Ne è sicuro? È importante ».

Il maleodorante individuo si sporse oltre il banco delle informazioni per dare uno sguardo allo schermo del computer. Garrett recedette nauseato, sforzandosi di trattenere il respiro. « Ho controllato due volte per sicurezza. Penso l’abbiano informata male ». Quindi, rendendosi conto che senza una sua esortazione non se ne sarebbe mai liberato, aggiunse « La invito ad andare, ci sono altre persone in coda ».

Bellocchio annuì, producendo con la bocca qualcosa a metà tra uno sbuffo e un sospiro. Anche solo arrivare alla segreteria era stata un’impresa, dato che il complesso dell’Antenna era poco meno di un labirinto e si era perso già due volte – e di certo la totale assenza di indicazioni leggibili non giocava a suo favore. Sulla via di ritorno per il pianterreno, o almeno quella che sperava essere tale, i pensieri che gli affollavano la testa erano tuttavia altri.

L'inesistenza di Logan Kashlinsky apriva due scenari possibili: o aveva mentito Azrael o aveva mentito Logan Kashlinsky. Ma Azrael non avrebbe avuto alcun motivo per dargli un nome falso, cosa gliene sarebbe venuto in tasca? Quindi il mendace doveva essere quel Logan. Questo, però, non aveva alcun senso: ciò che sapeva di lui era che cercava un taccuino che doveva aver perso nella discarica in circostanze oscure. Perché non usare il suo vero nome?

Ah, sentirlo, parlava proprio lui che adoperava pseudonimi di pseudonimi. Però c’era un’altra possibilità che avrebbe conferito più senso alle sue azioni: che stesse cercando proprio il taccuino di Bellocchio? Ciò avrebbe implicato che lui conoscesse Logan a qualche livello, il che era del tutto plausibile considerando la sua memoria pericolante. Che complicazione.

E nel frattempo si era perso. Sovrappensiero com’era avrebbe dovuto aspettarselo, ma era troppo sovrappensiero anche per considerare quell’eventualità. La sua posizione attuale era una piattaforma longilinea separata da due dei quattro corpi principali dell’Antenna, le cui pareti vetrate rendevano visibile la grande Croce Centrale che fungeva anche da pianoterra all’aperto. Bellocchio procedette fino a ritrovarsi in uno stretto e opprimente corridoio grigio, denso da ambo i lati di porte anonime. Di facciata doveva trattarsi di una zona uffici, ma nessun rumore proveniva dai supposti studi. Dovevano essere lavoratori alquanto taciturni.

D’un tratto un cigolio annunciò che un’anta in fondo era stata aperta. L’uomo si guardò attorno istintivamente, ma nessuno si era unito a lui nell’androne, e di certo era difficile che qualcuno avesse percorso il suo medesimo tratto per poi entrare in una delle stanze. Si diresse verso il rumore, localizzandone la probabile sorgente in un portone metallico fortemente diverso dai suoi soci per dimensioni e peso. Aprendolo, Bellocchio si ritrovò davanti a una rampa di scale. Era del tutto normale, ma c’era qualcosa in essa che lo turbava profondamente.

Comunque non ebbe modo di mettere a fuoco cosa fosse: qualcuno gli sferrò un violento colpo alla testa, tramortendolo.

 

 

I passi di Serena generavano una piacevole melodia mentre cadevano sulla grata che fungeva da piattaforma sopra un reticolo di tubature color bronzo. Da ormai quasi tutti i venti minuti previsti seguiva Giselle in un andito largo a malapena per loro due e dalla manutenzione di opinabile qualità. Come se non bastasse un brusio persistente le fischiava nelle orecchie, qualcosa di simile ad attrezzature in perenne attività; un’opzione considerabile se non fosse rimasto perfettamente costante in intensità per l’intero tragitto. Come quel luogo potesse essere parte di un itinerario turistico eludeva la sua comprensione.

Gli occhi le caddero su una delle pareti scalcinate contro cui strisciava da un po’: qualche promessa cabarettistica in vena di scherzi aveva scarabocchiato termini ingiuriosi in uno svolazzo. Poco sotto era apposta anche un’enigmatica frase:

 

IL PIANETA NERO è REALE

 

Serena si rivolse a Giselle, facendo appello a tutta la sua concentrazione per non chiamarla mamma come effetto collaterale del suo aspetto. Le era già sfuggito una volta poco prima, e come risultato aveva taciuto subito dopo soverchiata dall’imbarazzo. « Che cos’è il pianeta nero? ».

L’interfaccia olografica arrestò temporaneamente la marcia per dare un’occhiata al muro imbrattato « Opera di visitatori poco cortesi. Sarà immediatamente notificata al personale perché sia rimossa ».

« Sì, ma io ho chiesto cos’è il pianeta nero ».

Giselle riprese a camminare « Un riferimento alla filastrocca ».

« Quale filastrocca? ».

« Il pianeta nero il vecchio sormonterà / Nel tempo del lungo confronto / Il buio su entrambi i mondi calerà / Nel tempo dell’ultimo tramonto ». Il testo era di per sé un’accozzaglia di luoghi comuni presi in prestito da altri scrittori che sarebbe forse andata bene per qualche storiella adolescenziale, ma enunciata dalle meccaniche corde vocali della guida assunse una sfumatura incombente.

« Com’è che non l’ho mai sentita? ».

« La filastrocca è divenuta popolare nella generazione di trent’anni fa, quando furono ritrovate le Profezie Perdute. Per accedere ai file pubblici del cloud dire “uno” ».

« Ancora non mi hai risposto. Cos’è il pianeta nero? ».

« Siamo arrivati ».

Senza accorgersene le due erano giunte a un’altra stanza connessa direttamente al corridoio da cui provenivano e questa volta di forma più prossima a un parallelepipedo. Dovunque erano ravvisabili scatoloni della medesima fattura di quelli che affollavano la cella di riferimento periferico, ma in proporzione molti di più date le dimensioni più strette dell’ambiente. Direttamente di fronte si trovava la porta d’uscita, gentilmente segnalata da una lampada d’emergenza appesa al telaio.

« Oltre quella soglia si trova l'Antenna, il maggiore studio radiofonico e televisivo di Kalos. La Dive Corporation spera che la visita sia stata di vostro gradimento e vi augura una buona giornata ».

Una infrastruttura della Dive si trovava al di sotto di una sede pubblica di produzione? Strano era dir poco. Prima di poter riflettere oltre Serena si accorse di un suono che aveva sostituito, o più facilmente stava sovrastando, il ronzio precedente: definirlo era difficile, ma pareva una collisione di oggetti metallici. Solo allora la ragazza si avvide di una seconda porta: era defilata sul lato destro, immersa tra i cartoni nemmeno avesse voluto nascondersi. Come poteva non averla notata prima?

« Cos’è quella? ».

« La Dive Corporation spera che la visita sia stata di vostro gradimento e vi augura una buona giornata ». Giselle indicò perentoriamente l’uscio principale, e la tenacia del suo sorriso non fece che aumentare il senso di disagio che procurava.

Serena si avvicinò sospettosa alla sua nuova scoperta, rilevando che il suono giungeva più carico alle sue orecchie di conseguenza: l’origine si trovava per forza lì. Finalmente si decise a dischiudere l’anta, rivelando ciò che si celava dietro: un’altra, vasta stanza, forse più voluminosa di quella in cui si era ritrovata attraverso l’ingresso segreto del magazzino abbandonato. E in effetti c’era qualcosa che le collegava: anche lì era presente un nastro trasportatore. A differenza della sezione intravista prima, tuttavia, qui ne convergevano diversi, ognuno facente capolino da una fessura a sé, e tutti riversavano il loro contenuto in un recipiente ora stracolmo di elettrodomestici di ogni tipo.

« Oh mio Dio » mormorò la giovane sconvolta mentre Giselle la raggiungeva a passi lenti. Forni, tagliaerba, aeratori: una pletora di oggetti di uso comune pienamente illuminati dalle vigorose luci al neon incastonate nello sporco soffitto. Modelli molto discordi, ma accomunati da marche tra le più famose della regione. Alzò gli occhi ai tapis roulant e notò che proprio da uno di essi era appena caduta una lavatrice, che a sua volta era rimbalzata su una di quelle in cima alla pila. Una che le ricordava qualcosa.

Era la lavatrice di Cornelius. Non c’era dubbio: non solo l’esemplare combaciava, ma anche i segni che aveva trascurato e che ciononostante si erano impressi nel suo subconscio, così da essere riconoscibili una volta rivisti. Il lungo graffio anteriore visibile anche da lì, per esempio. Ora che ci pensava, Bellocchio…

… aveva controllato lì dentro? Certo, sviste simili non erano da lui, ma in quel momento era tutto fuorché lucido. Vale la pena tentare, pensò mentre, completamente incurante di Giselle, scalava una serie di piattaforme per giungere al deposito. I nastri nel frattempo si erano tutti fermati, segno che gli approvvigionamenti si erano almeno per ora conclusi, lasciandole campo libero. Si gettò sull’oggetto prescelto, spalancandone l’oblò frontale e frugando all’interno. Il cuore iniziò a batterle a mille quando, oltre ogni aspettativa, scoprì che il cestello d’acciaio per gli abiti era perforato: una spaccatura si era aperta tra esso e l’intelaiatura, nulla di enorme ma quanto bastava perché ci passasse una mano.

Ed eccolo lì, adagiato sul fondo della vasca: il famigerato taccuino di Bellocchio! Quasi si ferì il dorso nell’operazione di salvataggio, ma alla fine lo riportò alla luce. A prima vista pareva intatto, probabilmente mai raggiunto da sufficiente acqua per superare lo strato di pelle. Lo svolse febbrilmente, ripromettendosi di non leggere nulla dei fatti privati del suo amico e di accertarsi solo che l’inchiostro non fosse sbiadito. E quando sulla prima pagina verificò che un eloquente “non smettere di leggere” campeggiava intatto, la ragazza esplose in un boato interiore di gioia. Si estraniò completamente dal mondo per un istante, ridendo soddisfatta: ora avrebbe potuto riconsegnarglielo e tutto sarebbe finito per il meglio. E in quell’unico, breve istante, non si rese conto che qualcosa si era appena sollevato dal cumulo di elettrodomestici.

Serena fu molto, molto fortunata: nel moto di festa che la colse si scostò di quei centimetri sufficienti per non finire congelata da un raggio ghiacciato. Quello che realizzò appena dopo la colse completamente alla sprovvista: un frigorifero aveva preso vita. Un frigorifero che ora la puntava avvolto da un alone violaceo, con il bagliore interno acceso e due fari che parevano occhi alieni sullo sportello. La ragazza mise mano alla cintura per prepararsi a un secondo attacco e con la coda dell’occhio scorse la sua guida turistica, che non aveva battuto ciglio.

« Giselle… ? » balbettò cercando di soffocare la paura.

« La Dive Corporation spera che la visita sia stata di vostro gradimento e vi augura una buona giornata ». Giselle d’improvviso aveva cambiato il suo timbro vocale, apparendo ora molto più umana di prima.

Il respiro della ragazza si appesantì quando si accorse di una cosa che avrebbe dovuto notare ben prima. « La Dive non produce frigoriferi… ».

« Affermazione esatta ».

Le era stato sotto il naso per tutto il tempo: la Dive Corporation vendeva solo lavatrici, e lì dentro c’era molto altro. Quella struttura sotterranea non poteva essere la loro. Il frigorifero si alzò in aria e altre due coppie di barlumi iniziarono a brillare sepolti sotto la catasta.

« Speriamo che apprezzerete l'organizzazione dell'invasione » annunciò Giselle compiaciuta.

L’invasione? La questione era di colpo diventata più grave di quanto fosse lecito aspettarsi. C’era solo una cosa da fare ora. « Devo trovare Bellocchio ».

Serena scansò un altro attacco della creatura, stavolta notando che aveva proteso un vero e proprio arto per scagliarlo. Con un balzo si ritrovò giù dal recipiente e, schizzando accanto all’interfaccia, la udì commentare « Oh, non ti preoccupare, ormai sarà già nostro ».

Una volta varcata la porta primaria a cui era stata indirizzata qualche minuto prima dovette solo percorrere una rapida scalinata prima di trovarsi all’aperto. Come configurazione avrebbe azzardato che la zona dove era giunta avesse la forma di una croce: ciò perché si trattava di una piazza quadrata ai cui angoli erano posti altrettanti edifici, probabilmente quattro sezioni dell'Antenna. Lei proveniva proprio da uno di essi, anche se la sua era un’entrata etichettata dall’esterno come utilizzabile solo da addetti ai lavori. Il suo piano era stato di rintracciare Bellocchio e spiegargli la situazione, con il bonus di restituirgli il suo blocco delle memorie, ma ora non era più praticabile.

Era il tramonto. Era stata nei sotterranei forse mezz’ora in tutto da quando vi si era inoltrata quella mattina, come poteva essere il tramonto? Non avrebbe mai reperito il suo amico in tempo!

La cosa peggiore non era nemmeno quella, bensì un fatto molto più banale: lo spiazzo era colmo di gente. Un andirivieni continuo di individui, coppie che parlavano e solitari al telefono, a due passi da un cimitero di elettrodomestici pronti, a quanto pare, a resuscitare e per nulla restii a uccidere. Prima ancora di Bellocchio i civili avevano la precedenza: doveva mandarli via il prima possibile.

« SCAPPATE! » gridò correndo verso il centro per essere più visibile e udibile « NON RESTATE QUI, VI PRENDERANNO! ». Si rese quasi subito conto di essere soltanto ridicola, ma non aveva in mente altre idee. Se non avevano intenzione di ascoltarla, le rimaneva solo l’opzione di guidare la fuga, sperando che se anche non avessero reagito subito avrebbero avuto chiaro cosa fare nel momento in cui il nemico si fosse rivelato. « ANDATEVENE! » si sgolò, cominciando a correre via dalla piazza a velocità che mai aveva sfiorato prima, sospinta dal puro terrore. Tenne lo sguardo a terra senza nemmeno controllare di essere seguita, e ciò ebbe l’ovvio effetto collaterale di mandarla in collisione con qualcuno che resistette al colpo, facendola ruzzolare a terra. Quando alzò la testa, però, si rese conto che non si era trattato di un urto qualsiasi. Era appena andata a sbattere contro Giselle.

Ma è un ologramma! Come fa a essere solido? « Tu… Tu sei… » farfugliò.

« Vi sono quasi ventimila abitanti ad Altoripoli, e quasi ognuno di loro ha donato almeno uno degli utensili che stanno per prendere vita ».

La ragazza ascoltò quelle parole incredula. Quello non era un sistema automatizzato, quella era un’entità cosciente. E parlava a nome di qualcuno, anche se non era chiaro di chi. « … Li avete guastati voi? ».

« Il primo punto debole di voi umani » la donna sorrise appagata, stendendo un braccio. Sul palmo della mano si materializzò come magicamente la riconoscibile sagoma di un P5S « Non sapete resistere alle novità ».

« Cosa… ? ».

« Emette onde magnetiche superconduttive che producono cortocircuiti nel raggio di un chilometro. Ne bastano pochi strategicamente piazzati per raccogliere migliaia di forni guasti ».

Serena, pur agghiacciata, incominciò ad afferrare il letale piano progettato dall’ignota società di cui Giselle faceva parte. In qualche modo si erano infiltrati nella produzione del P5S dotandolo della funzione che a loro serviva, poi avevano atteso che si diffondesse quel tanto che serviva a loro per mettere fuori uso larga parte degli elettrodomestici della popolazione. A quel punto erano intervenuti loro, fingendosi tecnici delle principali industrie del settore per ritirarli. Nessuno contesta il piatto quando il servizio è veloce, e di conseguenza non avevano incontrato intralci.

« Ed ecco qua le nostre anime! » comunicò Giselle a gran voce. La ragazza che le stava di fronte, in un crescendo di sgomento, osservò la piazza: la folla che in quel momento si trovava alla Croce ora marciava in direzione della porta da cui lei era uscita, dritta tra le fauci del lupo.

« Che cosa fanno? » domandò confusa.

« Oh, stupida Serena, cerca di ragionare. I corpi non possono animarsi senza delle menti, giusto? » la schernì la donna, parlandole in tono falsamente condiscendente. Quindi con un gesto comprensivo indicò tutta la fiumana intorno a sé « Ora le hai davanti! ».

« Li avete ipnotizzati? ».

Giselle sbuffò irritata « No, non ipnotizzati! Serena, rifletti! Tutti quei giovani in spiaggia, da dove credevi che venissero fuori? ». Quando vide la sua interlocutrice mettere insieme i pezzi, solo allora si ritenne soddisfatta dal livello di terrore che aveva originato in lei « Erano dei nostri, infiltrati che aspettavano questo momento ». Quasi volessero palesare il fatto, le persone stesse appena prima di entrare nello stabilimento divenivano eteree per un attimo, assumendo la loro vera forma: un piccolo corpo arancione avvolto da scariche elettriche.

Erano dei Rotom. Tutti gli esaltati alla festa, a due passi da loro: tutti Rotom. Serena rammentò le leggende su quei Pokémon, di come fossero stati ingegnerizzati in una terra lontana perché fossero in grado di entrare negli apparecchi alimentati a corrente. Il cerchio si chiudeva.

« Avete raccolto tutti gli elettrodomestici perché ci entrassero dentro… per invaderci? ».

« Finalmente ci sei arrivata, iniziavo a disperare! Se avessi saputo fin da subito che eri così lenta mi sarei risparmiata tutti quegli anni a tenerti d'occhio ».

Un’assordante esplosione demolì una fiancata dell’edificio sotto il quale era stata operata la raccolta, rivelando al suo interno una vera armata pronta a librarsi in aria e attaccare Altoripoli. E così a Luminopoli, a Novartopoli, ovunque i P5S si erano diffusi e gli incendi avevano funto da avvisaglia. La più grande invasione mai registrata dalla Repubblica.

Serena fissò negli occhi Giselle, invocando rimasugli del coraggio che Bellocchio l’aveva aiutata a coltivare dentro di lei durante il viaggio e che ora era stato sradicato quasi interamente. « Chi sei? ».

« Perlomeno non hai creduto alla storiella della scansione cerebrale. Su, non sono in molti a poter imitare tua madre » ghignò, manifestamente contenta della richiesta. Avrebbe voluto dirglielo nel primo momento in cui l’aveva incontrata nella cella di raccolta, ma si era imposta di trattenersi fino all’ultimo. E adesso, di fronte alla fine imminente dell’umanità, ecco che le si avvicinava all’orecchio per sussurrarglielo.

« E se ti dicessi… Maison Darbois? ».

Il terrore in Serena svanì del tutto, scavalcato da un’emozione ben più assoluta quale il panico. Strinse il taccuino per ritardare il crollo totale dei nervi mentre sotto ai suoi occhi atterriti la rassicurante figura di sua madre, come in un incubo, si tramutava in uno dei suoi ricordi peggiori: un Chandelure dalle vampate cromatiche che scintillavano scarlatte. In quel preciso istante il raggio verde del sole morente ufficializzò il passaggio dell’astro oltre l’orizzonte. Dovunque fosse Bellocchio aveva appena perso la memoria per sempre, la milizia dei Rotom imperversava su Altoripoli e su ogni città della regione, e la Fiamma Cremisi era tornata.

« Benvenuta all’ultimo tramonto di Kalos ».

   
 
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