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Autore: Christa Mason    09/02/2015    2 recensioni
Julian Casablancas è uno studente del Le Rosey e fa tremendamente freddo quando incontra Gil.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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  Non conoscevo Gary Simmons, che no, non è ancora morto. Ho solo visto cosa è successo, ho cercato di dare una mano ma non sapevo cosa fare. No, non avevo mai visto né parlato con Alex Watts prima di allora, no, neanche con Julian Casablancas, mai neanche una volta. Vivo alle case popolari, ed è lì che voglio tornare. Ripeto le stesse cose tre o quattro volte, poi un taciturno agente mi porta a casa con un’auto di pattuglia. Non ho avuto modo neanche di salutare Casablancas, ma mi convinco che non importa perchè non lo vedrò mai più. Appoggio la testa al finestrino e vedo scorrere davanti a me la desolata visione del lago notturno. S’era quasi inghiottito quel Gary Simmons, e ora riposa tranquillo, come se niente fosse successo e come se fosse pronto a inghiottire qualcun altro. 
  Trovo la mia enorme e bellissima madre sul letto, il suo sguardo rivolto alla porta aspettando solo che tornassi. Non riesce a dimenticare quell’estate di due anni fa in cui non tornai più per una settimana, arrivai appena a Milano in autostop e poi la chiamai in lacrime. per ricevere i soldi per il treno di ritorno, e tornai tra le sue braccia. Mi chino su di lei, ci abbracciamo per qualche attimo. 
  “Pensavo te ne fossi andata.” mi dice. 
  “Lo so.”
 Mia madre a mala pena si alza da quel letto da cinque anni almeno. Vorrei quasi fosse per una malattia vera, invece è solo obesa. Non capirò mai perchè le cose cambiano per tutti tranne che per lei, ma non mi arrabbio mai con mia madre, noi non litighiamo. Ogni mese riceve il suo assegno d’invalidità che spende in cibo industriale (la spesa ci viene recapitata a casa ogni settimana dal supermercato sulla statale) e per la televisione via cavo, a tutto il resto penso io. A mia madre va bene così, le va bene aver dimenticato di esser stata la più bella ragazza che si vedeva da queste parti, e deve andare bene anche a me. Certe volte non so a cosa pensa, perchè il grasso le ha reso il volto buffo e inespressivo che un tempo ricordavo strapazzare, sfiorare e baciare con l’amore che solo i figli piccoli hanno per le proprie madri. Vorrei sapere se soffre, lei dice di no. 
   “Non volevo pensare che mi avresti lasciato, ma…”
   “Non c’è problema ma’, davvero… Ho visto un ragazzo cadere nel lago e…”
   “Me l’hanno detto quando mi hanno chiamata. Tu stai bene?” 
   “Benissimo. Sono solo stanca.” sorrido ma non ci credo. 
Chiudo la porta della mia camera alle mie spalle, un’occhiata ai piedi del letto, alla pila di videocassette che devo ancora vedere sul mio venti pollici. Mi sfilo il giaccone di mia madre, trovo in tasca ancora la bottiglietta da minibar di scotch che Julian Casablancas mi aveva offerto e che non avevo bevuto. La poggio sul comodino, pieno di spiccioli e due quaderni con le storie che non faccio leggere a nessuno e alcune lettere per Hans, che non ho mai ricopiato e non gli ho mai consegnato. Ora sono passati anni, e non lo amo più. Ogni tanto lo incrocio per strada, abbasso la testa e faccio finta di non vederlo. Il ricordo del nostro primo bacio e di quelli che sono seguiti mi riempie di imbarazzo e se ci parlassimo so che lui mi prenderebbe teneramente la mano e direbbe cose tipo Stavamo proprio bene insieme, vero Gil? Perchè non… Conosco abbastanza bene Hans da sapere che non finirebbe la frase e mi bacerebbe con quella sua irritante e completamente falsa timidezza. Non me ne accorgerei neanche e finirei a festeggiare ogni Natale a casa sua, e non riesco a immaginare niente di più terribile. 
  Fisso il soffitto, non dormo perchè penso al lago ghiacciato e a Julian che estrae Gary dall’acqua per poi cadere con me nella neve. Non so perchè penso a me e Julian che invece di essere spaventati per la sorte di Gary rotoliamo ridendo come degli scemi, e ci lanciamo la neve con la confidenza che non abbiamo e che non avremo mai. Mi addormento con il suono della risata di Julian. 
  Quando mi sveglio la testa mi fa male, le tempie sembrano voler esplodere. Mi risuona nei timpani il suono squillante della sveglia. Cazzo mi dico mentre mi alzo scuotendo il capo cercando un po’ di sollievo. Fino a dopo le feste lavorerò alla stazione sciistica, appena sopra Rolle. Il mio lavorerò è e  sarà sempre servire ai tavoli e pulire, cambierà solo il luogo, ma sono sicura che nel giro di tre anni avrò lavorato ovunque sia possibile in questa zona, e da allora la mia vita sarà solo un ripetersi di posti e datori di lavoro e colleghi che ho già visto e che si ripresentano non ricordandosi della piccola Gil che ha lavorato con loro solo quella settimana. L’acqua colpisce il mio volto e sembro vedere più chiaro, mi lego i capelli increspati e rovinati dal vento e dal freddo svizzero, ricordano la paglia che si intreccia e con cui si fanno le sedie da esterni. Fai proprio schifo, Gil. Mi guardo allo specchio mentre mi vesto, mi fermo a disegnare con le dita le mie costole sporgenti. Proprio schifo, Gil
  Lavorare al ristorante di una stazione sciistica è abbastanza facile. Non puoi truccarti o vestirti in modo troppo vistoso, e questo non è mai stato un problema per me, devi indossare un bel grembiule, saper prendere e comunicare le ordinazioni velocemente, fare silenzio e non fare telefonate durante le ore di lavoro. A differenza degli altri ristoranti, in una stazione sciistica non ci sono orari: la gente comincia a pranzare alle dieci di mattina, e continua fino a tarda sera. Non si fanno domande, e non si tengono le mance, e anche un idiota potrebbe riuscirci. I frequentatori abituali sono gli inevitabili studenti dell’istituto Le Rosey che i genitori non vogliono a casa durante le vacanze e ricche signore sportive che vengono in Svizzera a controllare i loro conti e i loro amanti. 
  Sputo nel lavandino il dentifricio. Esco di casa, mia madre dorme ancora: a portata di mano ha due pacchi di cereali, quelli che preferisce, e una confezione di quegli enormi biscotti americani con il cioccolato a scaglie che si fonde con la pasta frolla. Aspetto l’autobus, poi la funivia di collegamento. Wild Is The Wind, sempre Wild Is The Wild. 
  Un caffè, due caffè, un hamburger della casa, una torta di mele senza gelato, una torta di mele senza zucchero a velo, passo di tavolo in tavolo a prendere le ordinazioni e non penso a niente, mi aspetto da un momento all’altro una torta di mele senza mele. Comunico le ordinazioni in cucina con il numero del tavolo, qualcuno porterà i piatti, non sono ancora una cameriera a tutti gli effetti, lavoro qui da un paio di giorni, hanno paura che non sappia tenere due piatti in mano, hanno paura di doverne raccogliere i cocci e di doversi scusare con tutti i clienti, e siamo ormai un ristorante importante, una garanzia per tutto il cantone, non possiamo permetterci che questo accada. Per questo, Gil, limitati semplicemente a prendere le ordinazioni, andrà bene così. E limitarmi è una cosa che so di saper fare molto bene.
  Durante la pausa vado sul retro delle cucine, fumo la mia sigaretta giornaliera fremendo appena e combattendo il gelo della stazione sciistica, nessuno mi vede perchè sono solo una cameriera in pausa. Nessuno, neanche Julian Casablancas che si trascina un paio di sci in spalla con passo sbilenco rallentato dalla neve alta. Per un attimo gli vorrei dirgli ciao, ma lui non mi vede, tira dritto facendo il giro del ristorante, solo quando lo vedo dentro seduto a uno dei tavoli, circondato da una mandria di studenti del Le Rosey capisco che era diretto all’ingresso del ristorante. Accolto da fischi e abbracci, eccolo qua, Casablancas, brutto bastardo!, appoggia noncurante gli scii al tavolo, egli rivolgono frasi di scherno Pensavo fossi tu ad essere caduto nel lago, Casablancas! 
  Julian racconta i fatti della sera prima con i classici particolari inventati da narratore esperto. “Io vi giuro che per tirare fuori Gary da quel maledetto lago stavo per caderci pure io. Ci è mancato davvero pochissimo. Ma cosa dovevo fare? Voi coglioni ve n’eravate tutti andati come delle fottute puttane all’arrivo di una volante! Dovevo salvarlo. E volete sapere una cosa? La polizia credeva pure che io, io che l’avevo tirato fuori, ce l’avessi invece buttato in quel dannato lago. Davvero! Mi ha chiesto se per caso avevo dei problemi con Gary, se avevo qualche motivo per fargli del male…”
  Non ci credo. dicevano tutti.
  “Ve lo giuro.” conclude Julian, annuendo con quel suo modo da teatrante vagabondo di porsi davanti a un pubblico. 
  Rimango immobile ad ascoltarlo, non mi nomina neanche una volta. Non dice di aver incontrato una bella bionda, come invece immaginavo avrebbe fatto, una fottuta svizzera astemia
  “Gil…” mi dice la direttrice di sala. Ha un paio di ridicoli occhiali con la montatura anni Sessanta. Non la sento pertanto mi chiama ancora. “Gil…” 
  Mi volto. “Sì?” 
  “Fai il tavolo Dodici, non restare lì a far niente.” 
  “Sì, subito.” dico prima di rendermi conto che il tavolo Dodici è quello dove Julian Casablancas sta portando avanti il suo show sugli avvenimenti di ieri sera. 

  
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