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Autore: CassandraBlackZone    11/02/2015    3 recensioni
AGGIORNAMENTO: 13° capitolo
[Jeff the Killer]
È impossibile. È una sua complice. L’ha tenuta in vita per uccidere più persone: è un’esca umana. Ci farà ammazzare tutti.
No, è inutile. Ogni giorno cerco di farmi coraggio e provare a raccontare la mia versione, così da smentire ogni sorta di voce, ma non ci riesco. Io vorrei davvero… raccontare cosa successe realmente quella notte di un anno fa. La notte in cui i miei genitori vennero uccisi.
Il mio nome è Elizabeth Grell. Sedici anni. E sono sopravissuta al tentato omicidio di Jeff the killer.
Genere: Azione, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jeff the Killer
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Giorno 8
 
Niente. Non riesco proprio a ricordare. Cerco invano di rimettere insieme più immagini possibili, ma appaiono tutte sfuocate e senza alcun rilievo nella mia mente.
È passata una settimana da quando tutto iniziò e non c’è stato un solo giorno in cui non mi sia svegliata nel cuore della notte. Ogni volta è una continua battaglia prima col piumino e poi con il pigiama, il collo in fiamme per dei graffi che stento sempre a credere essere opera mia e il tutto accompagnato da urla isteriche, sudore e lacrime. Il cuore batte a più non posso, finché mia nonna non raggiunge la mia stanza e mi tranquillizza più che può. Lei mi abbraccia, mi parla e chiama il mio nome con una sofferenza insostenibile negli occhi, ma nonostante tutto è sempre rimasta al mio fianco, fino alla fine: proprio come fece al funerale dei miei genitori.
Nonna Jo fu l’unica parente da parte di mio padre ad aver commemorato la loro morte sull’altare, se non anche l’unica che affrontò a testa alta i suoi stessi parenti e quelli di mia madre, che si rifiutarono di avere a che fare con me. E così successe: nessuna telefonata, nessun biglietto di auguri di Natale o Pasqua, figurarsi una visita.
«Non abbiamo bisogno di loro. Ti prenderò cura io di te, d’ora in poi. Stai tranquilla»
Quel giorno, finita la riunione di famiglia, piansi. In silenzio, ma piansi.
Come mio padre, nonna Jo è forte di carattere, una sorta di maschiaccio e non si fa mettere sopra i piedi da nessuno, anche quando il nonno ci lasciò quando ero solo una bambina, era rimasta irremovibile. Alla notizia della mia disgrazia, iniziò inaspettatamente ad essere dolce, carina e più materna nei miei confronti.
Anche oggi tentò per l’ennesima volta di persuadermi a restare a casa, ed io risposi a tono che la sua tisana aveva fatto nuovamente miracolo. Un falso sorriso, se fatto bene, riesce sempre a scioglierla dalla tensione. Quando ridacchia e annuisce, significa che la farsa ha funzionato.
Il peso della responsabilità che deve sostenere sulle sue spalle, non è niente in confronto a quello che mi aspetta ogni giorno, ed è proprio questo pensiero a darmi la forza di andare avanti. Il mio compito è di non crearle nessun tipo di problema, pensare a prendere bei voti e non finire nei guai.
 
Giorno 9
 
Nonna Jo ha rischiato di cadere dal letto avendomi sentito urlare più forte del solito. Assonnata e di cattivo umore, ho lasciato in bianco il test di chimica. Due propositi su tre sono già andati in fumo nel giro di ventiquattro ore: bel colpo Elizabeth.
La situazione sta diventando a dir poco ridicola. Tutti i farmaci che mi sono stati prescritti sembrano non aiutarmi a dormire, anzi, non fanno che peggiorare la mia condizione. Oltre ai graffi sono spuntati dei morsi sugli avambracci che hanno lasciato sulla pelle grossi lividi, ma che fortunatamente sono riuscita a nascondere con una maglia a maniche lunghe, onde evitare che nonna Jo si preoccupasse più di quanto non lo fosse già.
Ho continuato a sperare fino all’ora di pranzo che non si presentasse un’altra sorpresa inaspettata. Mi sarei mangiata tranquillamente la mia bella bistecca asciutta con un purè di patate annacquato come contorno e me ne sarei tornata a casa; ma pregustai l’immagine di me sul letto o sul divano troppo presto, poiché il terzo proposito si fece avanti, pronto a essere distrutto.
«Ciao. »
In quel momento persi due battiti del cuore e con lui anche l’appetito. Ci misi un po’ a capire che vicino a me si stavano per sedere tre ragazzi.
«Possiamo sederci?» continuò il ragazzo moro.
Fintanto che pensavo a cosa rispondere, mi concessi due secondi per vedere con chi avevo a che fare, e alla fine li riconobbi tutti e tre: quello che parlò era Benedict Scott, che frequenta il mio stesso corso di matematica. Alla sua sinistra il quattrocchi riccioluto Matthew Smith e al fianco di quest'ultimo c'era il mingherlino pel di carota David Baker, caporedattore il primo e vice il secondo del giornalino scolastico.
«Sì?»
«È una domanda o una risposta?» mi chiese ridendo.
«No, scusa… io…» Ecco cosa succede a non parlare con qualcuno al di fuori di professori e nonna Jo. Non so perché, ma ero particolarmente nervosa e imbarazzata.
«Tranquilla. Possiamo immaginare che sia strano per te vedere qualcuno sedersi al tuo stesso tavolo a pranzo.»
«Sì, infatti…»
«Be', ti ci abituerai. Lizzie» disse con un certo entusiasmo Matthew.
Lizzie. È da tanto che nessuno mi chiamava così. Mi vennero in mente i miei due migliori amici, Rose e Jordan, che ovviamente per paura la prima si trasferì in un’altra città e il secondo rimase, ma cambiò scuola. Ho sempre saputo che il motto amici per sempre era un’emerita cavolata, è questa ne era la prova.
«Scusate, sono un po’ confusa.»
«E lo credo bene, Lizzie. Tre ragazzi di cui sai probabilmente solo il nome ti stanno parlando.»
«Posso sapere cosa volete?»
«Oh, vai dritta al punto! Wow!» urlò David a bocca aperta. Disgustoso.
«No. Dico sul serio. Se starete vicino a me tutti vi eviteranno.»
«E credi che questo ci possa fermare?»
I loro inquietanti sorrisi mi davano l’impressione di avere davanti tre bambini impazienti di aprire il loro regalo di Natale in anticipo, invece di tre liceali. Era evidente che qualsiasi cosa avessi risposto, loro non se ne sarebbero andati.
«Senti, so bene che… potrebbe suonare anormale come cosa…»
«Al momento sto solo cercando di capire, Scott. Ora, vorrei sapere cosa volete da me. E siate chiari e diretti.» ero troppo stanca e arrabbiata per ulteriori e inutili ansie. Chissà come, in un certo senso sapevo cosa volessero, anche se una parte di me preferiva non parlarne. Pregai che ciò non accadesse.
«D’accordo. Come vuoi.» Ben si preparò a parlare schiarendosi la voce e accogliendo i consensi dei due amici che annuirono. «Un anno. Abbiamo aspettato un anno per questo. Anzi, un anno e tre mesi e mezzo, per chiederti questo»
Come volevasi dimostrare, le mie mani erano già pronte a prendere il vassoio.  Non ero del tutto sicura se lanciarglielo addosso o semplicemente buttarlo a terra, sapevo solo che avevo bisogno di tenere le mani impegnate, che dovevo far passare quel fastidioso prurito che partiva dalle dita fino ai polsi. Se ero arrabbiata? Certo che lo ero.
«Per favore, Lizzie.  Raccontaci come sei sfuggita a Jeff the killer.»
 
Giorno 12
 
Alla fine non riuscii a rispondere a Benedict. Lasciai il tavolo subito dopo senza nemmeno guardarlo in faccia. Mi aspettai che mi fermasse o mi urlasse di tornare indietro, e invece… lui rimase seduto coi suoi due amici con un’espressione comprensiva in volto. Tornai a casa arrabbiata e delusa, non ebbi nemmeno voglia di mangiare la speciale torta alle noci di nonna Jo preparata con amore e mi rinchiusi in camera.
Per la gioia di nonna Jo le dissi che non mi sentivo bene per via delle precedenti nottate insonne e che quindi decisi di restare a casa almeno per due o tre giorni.
Fino ad oggi ho avuto tutto il tempo per riflettere  sulle parole e sulla richiesta di Benedict: mi sentii, e tutt’ora mi considero, una stupida. Ho finalmente compreso che il mio era stato un comportamento immaturo. Volevo che qualcuno mi ascoltasse per filo e per segno e io cosa faccio? Scappo via? Dov’era finito tutto quel coraggio che mi ero ripromessa di conservare? Non sono solo stupida, ma anche vigliacca. Non amo particolarmente questa parola, ma sfido chiunque ad obbiettare che stare sotto le coperte a mangiare m&m’s  dalla mattina alla sera non sia un gesto di codardia.
È dura da ammettere, ma… ho paura.
Ho paura di ricordare quella notte primaverile, una come tante altre, rovinata da un tonfo improvviso al piano di sotto; di sentire ancora quel orribile fetore che mi investì appena aprii la porta della mia stanza. Ho paura di seguire quella scia rossa e viscosa a piedi nudi, di tenere stretta tra le mani la mazza da baseball preferita di papà per farmi coraggio. Ho paura… di girare l’angolo per raggiungere il salotto, di lasciar cadere la pesante mazza di metallo sul parquet e urlare davanti ai corpi dei miei genitori orribilmente accoltellati e con un falso sorriso intagliato direttamente sui loro volti.
 
Ho paura…
 
Come successe nelle precedenti notti, iniziai a sentirmi male, mi strinsi nelle coperte a costo di rompermi anche le costole. Cercai di sopprimere ogni singola immagine chiudendo più che potevo le palpebre, di non sentire più le mie urla coprendomi le orecchie e di trattenere i conati di vomito stimolati da quell’odore pungente e nauseabondo.
Non ebbi la forza di urlare, di chiamare nonna Jo. Non respiravo, mi faceva male tutto il corpo, ma per qualche strano motivo… sapevo che sarei riuscita a resistere. Che avrei dovuto resistere.
Per tutto questo tempo, per un intero anno, io… ero riuscita a dimenticare a mia insaputa; tutto. E solo ora compresi a cosa erano dovute quelle notti passate nell’agonia. Non erano incubi, bensì ricordi che cercavano di riaffiorare dai meandri della mia mente; ricordi che inconsciamente archiviai come falsi e che reputavo impossibili.
Quando mi alzai dal letto, sentii tutti i muscoli tirati, le orecchie che pulsavano e vedevo luci che mi ballavano sul naso. I morsi della fame furono gli ultimi a farsi sentire.
Ero alquanto confusa, ma… al tempo stesso ero sollevata e inaspettatamente rilassata. Ci misi un po’ a capire cosa fosse successo, da dove tutto fosse cominciato.
Capisco solo ora cosa tutti i medici e la psicologa intendessero per trauma, e capisco inoltre quanto sia stata cieca fino adesso. Negavo l’evidenza, rispondevo ad ogni loro singola domanda con un sto bene ripetitivo, quando in realtà dentro mi sentivo… così.
Ora come ora, mi è tutto più chiaro. Mi sento come se avessi già la soluzione tra le mani e sapessi già cosa fare e spero vivamente che questa volta sia la volta buona.
 
Giorno 19
 
Non mi sorprese più di tanto l’attacco d’ira di nonna Jo. Il telecomando finì fuori dalla finestra frantumandosi sull’asfalto – fortuna che non c’era Billy, il ragazzo dei giornali.
Il telegiornale annunciò di prima mattina un omicidio di massa, il più grande dopo diversi mesi; questa volta successe in un dormitorio maschile militare.
Fu una strage, in cui nessun cadetto aveva avuto scampo e se qualcuno avesse provato a fuggire, la conseguenza fu venir bruciati. Successe tutto in una notte, e riconosciuto il modus operandi, la polizia capii subito chi fosse l’artefice di tutto ciò, ma prima che potesse pronunciare il suo nome... ciao ciao telecomando.
Già mi stavo immaginando la gente della città. A quest’ora saranno in preda al panico, dal momento che il dormitorio non dista molto da qui. Cercheranno tutti di tornare presto da scuola o dal lavoro e di evitare ogni sorta di turno notturno. Dopotutto, era ritornato il famigerato Jeff the killer, in seguito ad una sua lunga assenza di circa sei mesi.
«Quel bastardo»
Nonna Jo non faceva che ripeterlo tra un piatto sporco e l’altro. L’ha sempre rilassata lavare i piatti , oltre che estirpare le erbacce del giardino. Mi dice sempre che si immaginava di strappare i capelli di quelle oche delle sue sorelle più grandi di lei.
Quando finii la colazione, accolsi con piacere il dolce sorriso di nonna Jo prima che iniziassi a salire le scale. Mi disse che era contenta di vedermi rilassata, ma soprattutto riposata bene. Io le risposi che io ero contenta quanto lei e che decisi finalmente di riprendere la scuola.
Nonna Jo mi abbracciò forte a sé, ripetendomi che era orgogliosa di me per essere riuscita a dimenticare quella disgrazia, ma io le dissi subito che non era così. Io non avevo affatto dimenticato.
Fu a dir poco esilarante la sua reazione, mentre io le sorrisi semplicemente. Era uno di quelli sinceri, per niente forzato. Chiarii subito il fraintendimento spiegandole che ieri pensai a lungo ad ogni mia singola azione da allora e che arrivai ad una conclusione. Ovviamente lei mi chiese preoccupata di che cosa trattasse, ma io mi limitai a risponderle che sarebbe andato tutto bene.
Arrivata a scuola, non aspettai altro che l’ora di pranzo, così da poter finalmente attuare i miei piani. Non ci misi molto a trovare i diretti interessati, poiché erano seduti allo stesso tavolo di due settimane fa.
Colsi l’occasione per spaventare da dietro Benedict. Una reazione da manuale, tralasciando il petto di pollo affogato nel tè.
«Lizzie?!»
La luce negli occhi di Ben, Matt e David mi invitarono ad allargare il sorriso più di quanto non lo fosse già. Due secondi dopo lo fecero anche loro.
«Ciao Ben. David. Matt.»
«Che bello, sei tornata! Sei… stata male?»
«Qualcosa del genere. Voi? Tutto bene?»
«Noi sì, tutto bene. Beh, ecco… noi volevamo… chiederti scusa. Per quello che successe qualche giorno fa. Non avremmo dovuto chiedertelo così all’improvviso.»
Lo ammetto: mi si era scaldato il cuore. Tutti e tre erano evidentemente mortificati da come tenevano la testa bassa come dei cani bastonati, ma io accettai subito le loro scuse, dicendo loro di non fare quelle facce scure.
«Bene. Ora che ci siamo chiariti, io sono ritornata proprio per voi.»
«Per… noi?»
«Esatto. Se non fosse stato per voi, io a quest’ora non sarei qui.»
«Sono un po’ confuso…»
«Ogni cosa ha il suo tempo, Matt. Ora. Sono pronta a soddisfare la vostra richiesta.»
«D-davvero?!» urlò entusiasta Ben, seguito da David e Matt.
«Dopo scuola andremmo tutti a casa mia. E vi racconterò tutto. Dopotutto, avete dovuto aspettare un anno per questo, no?»
Non a caso chiesi a loro di venire a casa mia proprio oggi. Avevo sbirciato nell’agenda di Nonna Jo e fortunatamente aveva un pick-up da riparare fuori città. Sarebbe stata fuori tutto il pomeriggio.
Lasciai che i ragazzi si ambientassero in casa, chiedendoli di fare attenzione a tutto ciò che era fragile( tra cui la collezione di statuette di marmo di nonna Jo, gelosamente tenute negli armadietti di vetro in salotto).
«Se volete possiamo restare in salotto. È più spazioso che in camera mia.»
Tutti e tre acconsentirono e si sedettero sul divano con il naso ancora per aria.
«Avete una casa molto grande.»
«Grazie, Ben. La costruirono i miei nonni.»
«Fantastico!»
«Allora vogliamo cominciare?»
«Aspetta, Lizzie. Sappi che noi abbiamo pensato a lungo durante la tua assenza, e non vogliamo assolutamente che tu ti sforzi per una richiesta tanto delicata.»
«Esatto. La nostra è semplice curiosità! Se vuoi aspettare noi…»
«Anche io ho avuto modo di pensare.»
Ben, Matt e David si guardarono uno alla volta increduli.
Non so perché, ma li trovavo estremamente divertente. Ho notato che oggi ero piuttosto euforica, forse perché non vedevo l’ora di fare qualcosa di nuovo. Non vedevo l’ora di cambiare.
«Se non fosse stato per voi, io a quest’ora non mi sarei decisa a parlare. E per questo io vi ringrazio. Mi scuso solo che abbiate dovuto aspettare così tanto.»
«Ne sei… davvero sicura?» chiese di nuovo Ben.
Io annuì «Sono sicura.»
Lentamente i ragazzi iniziarono a rilassarsi e a preparare tutto ciò per cui erano venuti.
David si preparò a stenografare ogni singola parola che sarebbero uscite dalla mia e dalla bocca di Ben, mentre Matt tirò fuori dal suo zaino un grosso raccoglitore etichettato Casi di omicidio di Jeff.
«Sbaglio o avete un amore indiretto verso Jeff?» scherzai.
«Direi piuttosto che ci ha affascinato la sua storia fin dal suo primo omicidio. È da circa quattro anni che noi raccogliamo ogni informazione legata a lui.»
«Capisco.»
«Noi qui siamo pronti.» dissero all’unisono i due redattori.
«Bene. A questo punto parto con la prima domanda, Lizzie. Hai tutto il tempo per rispondere con calma. Che cosa successe la notte in cui i tuoi genitori morirono?»
Come provai per una intera settimana, cercai di controllare il ritmo sia del mio respiro che del mio cuore. Formulai come meglio potevo ogni frase da pronunciare nella mia testa prima di parlare, di raccogliere ogni immagine senza che le mie emozioni potessero trafelare. Nei primi due giorni che provai fu molto difficile, sicché sono ancora confinata nel trauma, ma notai con piacere che era tutto sottocontrollo.
Sì. Ero pronta.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
in queste tre settimane la scuola ha avuto il sopravvento, senza contare che ho alle spalle altre storie, che purtroppo sono anch’esse arretrate… le mie aspettative di riuscire a raccontare sottoforma di diario beh… non so se stia facendo effettivamente giusto, perciò lascio il verdetto a voi e se avete consigli da darmi, ben venga. Io solitamente spiego ogni cosa per tempo, perciò se vi sembrerà che qualcosa manchi... non preoccupatevi, tutto verrà spiegato.
Premetto subito che il prossimo capitolo non farà parte del “diario” di Lizzie. Di cosa parlerà? Beh, lo leggerete poi ( o forse lo avrete già intuito).
Ho il vizio di fare stupidi errori di ortografia per distrazione, ma spesso anche grammaticali. Accetto ogni tipo di segnalazione. Spero di riuscire ad aggiornare il più presto possibile la prossima volta. Grazie per la vostra attenzione.
 
Cassandra

 

   
 
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