Zombie
Another head hangs slowly,
child is slowly taken …
and the violence caused such silence
who
are we
mistaken?
La mia canzone
preferita mi diede il
buongiorno. Guardai la radiosveglia: erano le sette. Scelsi un paio di
vestiti
da indossare e mi diressi verso il bagno (il mio
bagno!). La prima
doccia nella nuova casa fu più lunga del previsto. Avevo
intenzione di godermi
appieno il nuovo bagno tutto mio, e così feci. Mentre mi
sciacquavo i capelli,
non potei fare a meno di pensare alle parole di “Let
it be” scritte sul foglietto nel davanzale della
mia finestra.
“Benché essi siano separati,ci
sarà sempre
una possibilità che loro vedranno …”.
Cavolo, Giacomo
doveva essere proprio cotto
di me. E forse pensava che anche io, nel profondo, fossi perdutamente
innamorata di lui. Che brutta situazione … quando non
ricambi l’amore di
qualcuno, è quasi più difficile per te farglielo
capire che per lui sentirselo
dire.
Specie se quel lui
ha un disturbo
dissociativo d’identità e potrebbe perdere il
controllo da un momento
all’altro.
Altro che Edward
Cullen, pensai amaramente.
Bella poteva pure lamentarsi del suo lui, ma il disturbo di Giacomo era
decisamente più temibile che avere a che fare con un vampiro
vegetariano buono
e inoffensivo, per giunta con i modi di un signorino dei primi del
Novecento.
«Mely,
sono quasi le sette e mezza».
Era mio padre.
«Ho quasi
finito!» mentii.
Stavo diventando
brava con le bugie. Un corso
accelerato di spionaggio e avrei potuto fare l’agente
segreto. Il tempo
di asciugarmi i capelli ed ero già in
cucina.
«A
qualcuno piace fin troppo la sensazione di
avere un bagno tutto per sé» osservò
mia madre, porgendomi il pacco di cereali.
«Potrei
abituarmici, in effetti» risi.
Tra lei e mio padre
doveva essere successo
qualcosa la sera prima: notai che evitavano di guardarsi in faccia.
«Allora,
come è andata ieri sera a cena?»
domandai, improvvisando un tono neutro.
«Benissimo,
cara» si limitò a rispondere mia
madre.
«Certo, benissimo.
Abbiamo imparato a memoria tutte le malattie della vicina, ma
è andata comunque
benissimo» intervenne mio
padre.
Ed ebbi la certezza
che avevano litigato.
«Anche
Davide si è divertito» puntualizzò mia
mamma.
Avevo seri dubbi che
fosse vero, conoscendo
mio fratello da (ahimè) ormai molti anni.
Finimmo la colazione
in silenzio e mio padre
ci accompagnò a scuola.
«Vai
piano» furono le uniche parole che gli disse la
mamma.
Dovevano aver
litigato seriamente, visto che di
solito al mattino si baciavano come minimo tre volte, prima di uscire
di casa.
«Melissa».
Eravamo quasi
arrivati a scuola, quando mio
padre si rivolse a me.
«Non mi
piacciono i nuovi vicini».
Davide era
già sceso da un paio di minuti.
«Ok»
fu la mia risposta.
Non capivo cosa
volesse da me.
«La
signora Dorotea è strana. E suo nipote …
bè, strano è un eufemismo, rivolto a
lui».
Capii dove voleva
arrivare.
«Papà
puoi stare tranquillo».
Sembrò
sorpreso da quella mia affermazione.
«Certo che
posso stare tranquillo» si
ricompose. «Mi preoccupo per tua madre. Adesso ha voglia di
socializzare con
loro, non so perché».
Avrei voluto dirgli
che non ci trovavo nulla
di strano nella volontà della mamma, ma lasciai perdere;
conoscevo troppo bene
mio padre: quando si fissava con qualcosa, era impossibile fargli
cambiare
idea.
«Questa
è la mia fermata, comunque» dissi.
Eravamo arrivati a
scuola.
«Non so
cosa sia successo fra te e mamma, ma
penso sia stupido che vi mettiate a litigare per così
poco» aggiunsi, scendendo
dall’auto.
«Fai la
brava!» mi urlò alle spalle.
Come se stessi
andando all’asilo.
All’ingresso
dell’istituto scorsi Giada, la
mia migliore amica.
«Qualcuno
qui ha fatto una doccia bella
lunga, stamattina» commentò, salutandomi.
«E tu come
fai a saperlo? Devo preoccuparmi,
hai messo delle microcamere in casa mia?».
Rise.
«Sì,
e sono ben nascoste. Non le troverai
mai. Dovresti smetterla di ascoltare “Zombie”,
mi sta stancando».
La guardai, un
po’ divertita un po’ scioccata.
«Semplicemente,
sei in ritardo. E non è da
te. Mi delude, signorina Martini »
dichiarò, in una credibilissima imitazione della
professoressa di latino.
Scoppiai a ridere.
Era sempre stata
bravissima, con le imitazioni.
«Mi scusi,
prof. Non succederà più».
«E
certo che non succederà più. Lasci stare i
Cranberries, oggi la interrogo in
latino» proseguì Giada.
«Dai,
Giada. Sai che potrebbe succedere, e
ieri non ho neppure aperto il libro, a causa del trasloco».
Entrammo in aula,
mestamente come ogni
mattina. Quel giorno faceva particolarmente caldo, nonostante fossimo
solo a
maggio. Mi venne in mente una cosa.
«Ehi, ti
ricordi il falò in spiaggia del
terzo anno?».
Giada mi
fissò. Sembrava turbata da quella
domanda.
«Giurammo
di non parlarne più, dopo la tua
prima – ed ultima - sbronia».
«Sul
serio?».
Non lo ricordavo.
«Ti
ricordi di qualche ragazzo?» chiesi.
«Di molti,
in effetti».
Tipico di Giada:
andava alle feste solo per
rimorchiare.
«Stupida
io, che ti faccio queste domande
retoriche. Hai presente quel tipo che mi segue da mesi?».
«Chi? Edward
Cullen?».
L’aveva
ribattezzato così, più che per i
capelli biondi per l’aria eccentrica e riservata.
«Cosa
c’entra, adesso? Certo che mi ricordo
di lui».
«Bene.
E’ il mio nuovo vicino, e dice di
avermi conosciuta al falò di due anni fa in spiaggia.
Peccato che io non mi
ricordi proprio di lui».
Sembrava divertita.
«Ma certo,
è per questo che ti seguiva! Io
neppure mi ricordo di lui, però. Ero più ubriaca
di te» esclamò.
Non sapevo se
raccontarle tutto: della sua
malattia, di quanto accaduto il giorno prima, della nonna …
Ma sì,
era la mia migliore amica: come avrei
potuto nasconderglielo?
«Ti devo
raccontare una cosa. Ma promettimi
che non ti scioccherai».
«Non mi
scioccherò». Era curiosissima. «Avanti,
sputa il rospo».
Iniziai a
raccontarle del disturbo
dissociativo d’’identità di Giacomo,
spiegandole cosa fosse; avevo iniziato ad
accennarle al dialogo della sera prima, quando la professoressa ci
interruppe.
«Martini,
De Fazio, sono oltre dieci minuti che
parlate ininterrottamente. Che ne dite di parlarmi di
Agostino?».
Ecco, proprio quello
che temevo. Rivolsi un’occhiata
di supplica a Giada, che la colse al volo.
«Oggi
vengo io, prof. Melissa è reduce da un
trasloco».
Era proprio
un’amica. Peccato che neanche lei
avesse studiato, infatti l’interrogazione non fu proprio un
successo.
«Grazie,
Giada. Ma avresti potuto dirle che
eri ad aiutarmi, ieri pomeriggio. Ti saresti salvata anche
tu» le dissi, all’uscita
da scuola.
«Ma
sì, un quattro in più non rovinerà la
mia
media. E poi, ci penserai tu ad alzarla: domani abbiamo compito in
classe. E io
ti voglio bene».
«Te
l’avrei passato lo stesso».
Ci abbracciamo.
«Io vado,
Mely. O vuoi che aspetti con te tuo
padre?».
Era chiaro che il
racconto su Giacomo l’avesse
spaventata, anche se non voleva ammetterlo.
«Stai
tranquilla, non ho bisogno della
guardia del corpo» la rassicurai. «Tra poco
arriverà mio padre».
Non sembrava
convinta, ma non insistette. Mi
salutò e salì sulla moto del suo ragazzo.
Guardai
l’orologio: erano ancora le cinque.
Mio padre ci avrebbe messo ancora un po’ per arrivare. Mi
sedetti sul
marciapiede, stanca. Stavo ascoltando l’ipod, quando si
fermò un’auto.
Era Giacomo.
«Ehilà»
esclamò, a mo di saluto.
«Ciao».
«Cosa fai
tutta sola?».
«Aspetto
mio padre».
Eravamo entrambi
incredibilmente imbarazzati.
«Vuoi un
passaggio?» chiese. Era evidente che
farmi quella domanda era stato non poco impegnativo per lui.
«Non ti
preoccupare, tra poco arriverà mio
padre» gli dissi.
Continuava a
guardarmi.
«Dai, sta
per piovere».
Era vero, dovetti
constatare.
«Giuro che
non ti ucciderò e non farò a pezzi
il tuo cadavere» aggiunse, pentendosene subito dopo.
Mi sforzai a ridere,
ma ne uscì fuori solo un
sorrisetto appena abbozzato. In quel momento, mi squillò il
cellulare: era mio
padre. Lessi l’sms: “Mely,
stasera
ritardo un po’. Arriverò per le sei”.
Fantastico.
Giacomo dovette
cogliere l’espressione sul
mio viso, perché uscì dalla macchina in fretta e
mi spalancò la portiera.
«Avanti,
Sali. E non accetto rifiuti».
Così
salii.