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Autore: VaVa_95    12/02/2015    1 recensioni
Le persone sono complicate. E tutti, ad un certo punto della loro vita, riescono a creare dei demoni che non riescono a domare, neanche per sbaglio.
Questo Matt lo sa bene.
E lo sa bene anche Liz.
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"- Sai, si dice che le storie portino demoni. -
Non aveva ben capito perché aveva detto proprio quella parola. Lui in fondo non la usava. Pensava che essi fossero semplicemente dei brutti pensieri, che prendevano forma solo quando la propria mente lo permetteva. Come diceva sempre a Matt, ogni persona aveva i propri demoni con cui fare i conti".
Genere: Generale, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Matthew Shadows, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nota: i fatti riportati a seguire sono completamente immaginari. Scrivo per semplice diletto personale, e i personaggi di cui parlo non mi appartengono.
 

CAP. 3




 
“And I'm thinking 'bout how people fall in love in mysterious ways
maybe just the touch of a hand”
Ed Sheeran – Thinking Out Loud
 
 
 
 
Ottobre 1999
Huntington Beach, California
 
 
 
Liz uscì dall'aula di matematica, pensierosa. Era entrata quella mattina in tutta tranquillità e si era seduta, come sempre ormai, accanto ad Eleanor, che le teneva il posto in quanto arrivava prima di lei (a differenza sua la giovane aveva quasi sempre un passaggio e non doveva usare lo scuolabus, anche se non l'avrebbe fatto in ogni caso dato che casa sua non era poi così lontana dalla scuola e, con passo svelto, ci si poteva arrivare in qualcosa come venti minuti). Era di buon umore e aveva chiacchierato con l'amica fino all'entrata del professore in aula, che dopo aver salutato e fatto l'appello si era messo a spiegare il grafico di una funzione esponenziale, con tanto di disegni e simboli che, avrebbe potuto giurarlo, né lei né l'amica capivano. Ci sarebbero arrivate, prima o poi, ne doveva della loro media.
Qualche fila dietro di loro, Jimmy sonnecchiava, mentre accanto a lui Valary DiBenedetto aveva cominciato a fissarla intensamente, come se volesse cogliere qualcosa sulla sua persona.
O, forse, come se fosse un nemico da annientare, ma che prima bisognava osservare attentamente per capirne le debolezze.
Aveva cercato di non farci caso (né lì né tutte le altre volte che si era ritrovata in quella situazione con la ragazza, ed erano tante), ma poco prima della fine della lezione aveva chiesto ad Eleanor se era vero che la giovane la stesse fissando o se era lei che aveva le traveggole. La ragazza si era voltata leggermente verso la cheerleader, per poi sorriderle e salutarla con un gesto della mano, come se il gesto di voltarsi verso di lei fosse completamente innocente e solo con quello scopo. Poi si era sporta verso di lei, bisbigliandole un "è vero, ma non farci caso". Le aveva spiegato che lei ormai era entrata a tutti gli effetti nel loro gruppo e che, per quella ragione, Val la stava osservando per capire bene di che pasta fosse fatta.
Liz non ci aveva creduto molto, ma aveva deciso di non dire niente. Li conosceva da poco tempo, di conseguenza non voleva impicciarsi nei loro affari. Anche se, doveva ammetterlo, aveva capito che una cosa o due non quadravano, nel gruppetto delle ragazze. Sembrava che fossero tutte grandi amiche ma la verità era sicuramente un'altra.
Quando era suonata la campanella aveva salutato distrattamente l'amica, dandole appuntamento a pranzo, poi era uscita dall'aula in tutta velocità, in modo da non essere nemmeno seguita. Aveva una brutta sensazione e voleva uscire di lì il più in fretta possibile.
Stava camminando per i corridoi diretta verso l'aula di arte. Era un corso facoltativo, alternativo ad educazione fisica, che non aveva in comune con nessuno. Eleanor aveva fatto la scelta più saggia e aveva deciso di fare informatica, che di fatto aveva più crediti. Ma Liz era un'artista... a modo suo, di conseguenza quel corso le piaceva.
- Ciao - la salutò una voce familiare, facendola sobbalzare.
Era agitata di suo, in circostanze normali non avrebbe reagito in quel modo.
Phoebe stava muovendo gli occhi azzurri dall'alto in basso, in modo da osservarla nella sua integrità e capire che cosa ci fosse che non andava. O che cosa avesse fatto lei di sbagliato per farla spaventare.
- Oh, ciao Phoebe - la salutò, rallentando il passo e facendosi raggiungere dall'amica.
- Tutto bene? - domandò la ragazza, cominciando a camminare insieme a lei. Il lunedì le due avevano gli stessi corsi, anche se lei era al secondo anno e di conseguenza entrava nell'aula del corso di grado inferiore al suo.
- Eh, diciamo di sì. -
- Che cosa è successo? - domandò, di nuovo.
- Niente. Strani sguardi. -
Ovviamente la ragazza voleva farsela spiegare. Mentre camminavano lungo il corridoio, così, Liz aveva raccontato tutto, anche perché aveva già inquadrato la più piccola delle sorelle Rigby da tempo. Phoebe non aveva peli sulla lingua, era molto spigliata e soprattutto diretta. Non le piacevano i giri di parole, quello era sicuro.
Le due si fermarono davanti ad una porta con scritto 2A, l'aula di arte del secondo anno, dove poterono notare il professore che stava sistemando i cavalletti. Avrebbero dipinto, cosa che fece alzare alla ragazza appartenente a quel corso gli occhi al cielo: non potevano limitarsi a studiare la teoria, come succedeva a chi si era iscritto al corso avanzato?
- Quindi, fammi capire, è per questi sguardi che noti alle lezioni che cerchi di stare il più lontana possibile da Matt? -
La giovane sospirò: qualcuno l'aveva notato, allora.
In quel periodo di tempo aveva cercato di allontanarsi sempre di più dal ragazzo: gli rivolgeva solo dei piccoli cenni di saluto, annuiva o scuoteva la testa in segno di approvazione o disapprovazione quando gli veniva fatta una domanda, dava una scrollata di spalle oppure si limitava a tenere gli occhi bassi quando lui parlava. Si era andati avanti così per un po', tanto che alla fine lo stesso Matt aveva praticamente alzato le braccia e sventolato bandiera bianca: aveva vinto lei, non avrebbe più provato ad attaccare bottone.
Il motivo del suo atteggiamento era semplice, però. Pensava che Valary la osservasse proprio perché, nei primi periodi, aveva tanto, forse fin troppo, legato con il suo ragazzo. E probabilmente quello era una specie di affronto nei suoi confronti, lei non ne aveva la minima idea, quelle cose non le capiva. Si era semplicemente limitata a farsi da parte. Non voleva creare problemi fra i due.
- Beh... -
- Tesoro, lascia stare - esclamò la ragazza, pronta - insomma, Matt non è un bambolotto, non appartiene a questo o a quello. Ha fatto la stessa cosa con me quando sono entrata al liceo l'anno scorso, io l'ho rigirata completamente come un calzino e non mi ha dato più fastidio. Ora, non ti dico di andare lì e prenderla a parole come ho fatto io, anche perché le conseguenze non sono state poi così buone, ma... - fece una pausa, riflessiva - forse, ora che mi ci fai pensare, con te è un po' diverso.
Diverso? E perché mai avrebbe dovuto essere diverso, con lei?
Quella era un'altra cosa, l'ennesima probabilmente, che lei non capiva. Aveva notato che veniva osservata con molta attenzione da parte di tutti, nel primo periodo. Era passato su per giù un mese da quando lei aveva cominciato a frequentarli e la curiosità di tutti si era smorzata, ma di fatto c'era stata e lei non riusciva a capire perché.
"Dovresti chiedere", gli sussurrava continuamente la sua coscienza, ma lei cercava di ignorarla in tutti i modi, perché di fatto non era buona educazione. La suddetta coscienza le rispondeva che fissarla senza ritegno era altrettanta maleducazione, ma quelli erano dettagli.
- In che senso? -
Phoebe si guardò intorno, come a constatare che non ci fosse nessuna amica dell'oggetto della conversazione in giro, tantomeno lei stessa. Abbassò comunque la voce.
- Chiariamo una cosa: non sono una ficcanaso, ma ho orecchie, e queste non possono fare a meno di ascoltare*. Ho sentito dire che Matt e Val sono molto, molto vicini alla rottura. Sono troppo diversi. Prima non lo erano, te lo posso garantire, ma adesso sì. Lui stringe i denti e cerca di andare avanti perché... diciamocelo, si sente in debito. Lui continua a sostenere il contrario, ma fidati, te lo dico io che lo conosco come le mie tasche, si sente in debito eccome. E questa è una storia lunga che ti racconterò un'altra volta - disse dopo aver udito il suono della seconda campanella, che intimava gli studenti ad andare in classe per la lezione successiva - resta il fatto che i loro problemi sono improvvisamente venuti alla luce da quando ci sei tu. Pensaci. -
Appena finì di parlare la giovane le diede le spalle ed entrò nell'aula, senza aspettare nemmeno una risposta da parte sua.
Liz era perplessa: perché mai i problemi di una coppia si sarebbero accentuati da quando lei era entrata a far parte della loro combriccola? Era una cosa senza senso. Ogni coppia aveva problemi, di conseguenza essi non comparivano all'improvviso quando si stringeva una nuova amicizia.
"Pensaci", aveva detto. 
La ragazza girò i tacchi, per poi entrare nell'aula 4A, il corso di arte, sedersi sul banco e tirare fuori il libro di teoria. 
Non aveva la minima idea su cosa riflettere.
 
 
 
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Zachary Baker era sempre stato di poche parole. Non perché fosse particolarmente riservato (lo era, ma quelli erano altri discorsi), semplicemente perché lui era così, e lo sarebbe sempre stato.
Come gli dicevano i suoi fratelli, “sembra che tutto ti scivoli addosso”. Lui riteneva di avere le sue priorità. Si fidava di pochi, e quei pochi sarebbero rimasti lì con lui per la vita.
- Ciao tesoro – lo salutò la madre appena fece ingresso in cucina, cosa che gli fece alzare gli occhi al cielo.
Aveva diciannove anni e lo trattava ancora come un bambino, a volte. 
- Ti sei svegliato presto, vuoi un caffè? – domandò la donna, mentre il ragazzo indossava la giacca di pelle e prendeva al volo le chiavi della macchina.
Nonostante la madre fosse una delle persone più a modo che avesse conosciuto, a lui non piaceva passare del tempo a casa sua. In circostanze normali sarebbe già stato fuori casa, ma non aveva soldi. Anzi, era ancora a scuola, all’ultimo anno… di nuovo.
Zacky era molto intelligente, fin troppo per gli standard del diciottenne medio. Nell’ultimo periodo poi era maturato così tanto che la famiglia lo riteneva quasi irriconoscibile. Era anche vero che, proprio per il fatto che detestasse ogni secondo passato in casa sua, i suoi famigliari non lo vedevano poi così spesso.
Sua sorella era al college e ogni volta che partiva spariva. Non si faceva sentire e non si faceva vedere fino all’estate successiva. Non tornava a casa né a Natale né alle vacanze primaverili. Tutto, pur di restare fuori casa.
Il fratello minore invece era fatto di tutt’altra pasta. Era molto diligente e aveva già un futuro nell’azienda di famiglia. Matthew Baker era il “figlio buono”, come diceva il padre.
E poi c’era lui.
Essendo il mezzano, era sempre stato il classico bambino fantasma. Non gli avevano mai prestato parecchie attenzioni e per questo il padre pensava che fosse completamente allo sbando. Zacky si limitava a scuotere la testa e a non rispondere, perché quell’uomo era tutto fuorché una persona… come dire? Non riusciva a trovare il termine: giusta? Responsabile? Un normale adulto medio?
Il padre non lo era, quindi perché lamentarsi di lui?
Era anche vero che lui la sua figura paterna non la conosceva quasi per niente. Non era mai a casa, e quando vi era non perdeva certo tempo dietro ai suoi figli, fatta eccezione per il fratello che avrebbe ereditato l’azienda.
Nel corso degli anni però, lui aveva imparato a costruirsi un equilibrio tutto suo, che non avrebbe mai dovuto rompersi, in alcun modo. La cosa funzionava piuttosto bene, dato che non aveva mai avuto particolari problemi.
- No grazie, vado a prendere un’amica – annunciò, per poi salutare con un piccolo gesto della mano il fratello che si era appena svegliato, uscire di casa e balzare in macchina.
“Sembra che ti scivoli tutto addosso”, gli dicevano sempre i suoi fratelli, quando lui sosteneva che non gli importava poi così tanto di ciò che succedeva alle persone intorno a lui (fatta eccezione per loro, s’intende, che erano le persone più importanti della sua vita).
Eppure, lui aveva un debole per un piccolo fattore che tutti, ma proprio tutti, avevano. Quello che Zacky aveva imparato nel corso della sua (per quanto breve) vita era che tutti, nel bene e nel male, avevano una storia. Poteva essere nei limiti della normalità, poteva avere avvenimenti al limite dell’assurdo.
Ma erano storie.
E quelle storie rendevano una determinata persona quello che era.
Amava sentire ciò che la gente aveva da raccontare. Avere qualcuno di importante, così tanto da condividere ogni aspetto della propria vita, era qualcosa di cui tutti avrebbero dovuto godere. E a lui sarebbe piaciuto fare davvero la differenza per molte persone. Significare così tanto da sentirle tutte, quelle storie.
Il successo degli Avenged Sevenfold a lui sarebbe servito anche a quello. Avrebbe scavato nelle storie dei suoi fan, se le sarebbe fatte raccontare. E avrebbe trovato un modo per condividere anche la sua, di storia.
Esse non erano mai banali.
Quando conosceva una persona pensava subito alla sua storia, a ciò che aveva vissuto, ai suoi obiettivi, a ciò che avrebbe voluto fare in un ipotetico futuro.
Accostò poco lontano da un grande condominio in cemento armato, uno di quelli costruiti dal governo per i quartieri popolari. Erano inutili, avere un piccolo appartamento in uno di essi non significava uscire dalla condizione di povertà in cui versavano le persone di quella zona. Lui lo sapeva, perché per un po’ di tempo in quelle condizioni ci era finito anche lui. L’azienda andava male e loro a stento avevano i soldi per pagare le bollette. La madre non lavorava e nessuno sembrava volerla assumere, neanche per dei piccoli lavoretti qua e là. Era stato un brutto periodo, ma alla fine avevano risolto tutto. Non poteva dire che la famiglia Baker stesse bene, ma nemmeno male. Vivevano in una piccola villetta poco lontana da quel quartiere, dalla quale non si sarebbero mossi neanche se l’azienda avesse prosperato.
Suonò il clacson tre volte, per poi lasciarsi andare sullo schienale e aspettare. Liz viveva al terzo piano e il palazzo non aveva l’ascensore, di conseguenza ci avrebbe messo un po’. Guardò l’orologio: le otto e venti. Sarebbero arrivati a scuola relativamente presto.
Quando poteva le offriva un passaggio alla mattina, in fondo anche lui sapeva quanto lo scuolabus potesse essere fastidioso. Faceva sempre grandi giri per passare a prendere gli studenti e non c’era verso di arrivare a scuola presto. Si arrivava sempre cinque minuti prima del suono della campanella.
- Ehi – lo salutò la ragazza, aprendo la portiera del passeggero e distogliendolo dal flusso dei suoi pensieri.
- Ciao – la salutò di rimando, per poi mettere in moto.
Avevano legato parecchio, i due. Per Zacky, la ragazza era davvero simpatica, per non parlare del fatto che fosse veramente una brava persona. Era sempre stata sincera con loro, poi. Non si faceva problemi a dire che cosa le passava per la testa. Lui era stato il primo con cui si era completamente aperta, anche se lui lo sapeva che aveva tante altre cose da dire, cose che riguardavano il suo passato e che non avrebbe ammesso facilmente. Era come se nascondesse un segreto. Anche Eleanor l’aveva notato, tanto che a volte la chiamava addirittura “occhi tristi”, cosa che faceva arrabbiare Matt, che si limitava a dire che dovevano lasciarla in pace, perché con quell’atteggiamento da lei non avrebbero mai ottenuto niente. Il chitarrista ridacchiava: la verità era che a lui dava fastidio. Voleva sapere, ma la giovane non sembrava nemmeno dargli confidenza. Si allontanava, lo spingeva via.
Phoebe aveva detto che il giorno prima le aveva raccontato di strani sguardi che le lanciava nientemeno che Val, che ovviamente non erano per nessun motivo particolare se non per quella strana attrazione soffocata che il suo ragazzo provava nei confronti della giovane. In fondo, l’amica era intelligente, aveva capito. E aveva anche capito che presto i due si sarebbero lasciati. Zacky era quasi sicuro che lo amasse, un sentimento sincero e soprattutto puro, di conseguenza voleva capire se i due stessero rompendo per colpa della nuova arrivata.
Dal canto suo, lui sperava che non ci arrivasse mai.
La più piccola delle sorelle Rigby non aveva avuto il coraggio di dirgli che, se i due non riuscivano proprio a connettere, era per colpa della ragazza di lui. Anche se probabilmente gliel’avrebbe detto lui, giusto per levargli le fette di salame dagli occhi. Era quello a cui servivano i fratelli, in fondo.
Ma lì per lì non gli interessava. Lì per lì voleva capire altro. Quella mattina Liz aveva gli occhi più tristi del solito, cosa che l’aveva fatto leggermente preoccupare.
- Tutto bene? – le domandò, senza distogliere lo sguardo dalla strada.
- Sì, diciamo di sì. -
- Sicura? -
La giovane alzò gli occhi al cielo.
- Sto bene, Zack. Davvero. Non farti contagiare da Eleanor. -
Il chitarrista rise.
- Dimmi un po’, Liz: qual è la tua storia? -
Di nuovo quella domanda. Che, ovviamente, saltava sempre fuori nei momenti meno opportuni. A volte, Zacky balzava davanti al suo armadietto chiedendole la storia della sua vita. La ragazza rideva, anche se poi di fatto non gli diceva niente.
- Chi lo sa, forse non ce l’ho. -
Quella mattina non aveva voglia di scherzare. Forse era ancora turbata dagli avvenimenti del giorno prima. In fondo gliel’aveva detto, che le parole di Phoebe l’avevano fatta quasi spaventare.
- Tutti hanno una storia. Nel bene e nel male. -
La ragazza diede una scrollata di spalle - La mia è complicata. -
- Lo immaginavo – esclamò, ridacchiando – sai, si dice che le storie portino demoni. -
Non aveva ben capito perché aveva detto proprio quella parola. Lui in fondo non la usava. Pensava che essi fossero semplicemente dei brutti pensieri, che prendevano forma solo quando la propria mente lo permetteva. Come diceva sempre a Matt, ogni persona aveva i propri demoni con cui fare i conti. Ed essi, probabilmente, erano proprio ciò che si era stati in passato e che ora non si era più, oppure un episodio andato a finire male, lui non lo sapeva. Non era nella mente degli altri, in fondo, ma solo nella sua.
- D-demoni? -
Le labbra di Zacky si incresparono in un sorriso. Se la immaginava, quella reazione. Liz non lo sapeva, ma lei e Matt erano dannatamente simili. Una volta aveva detto all’amico che doveva trovare semplicemente una persona cui demoni si sposavano bene con i suoi. Chi lo sa, forse la ragazza era… scosse la testa, decidendo di non pensarci e di andare avanti con il suo discorso.
- Già. L’uomo ha paura delle proprie storie. Per questo si dice che l’unica cosa di cui dovrebbe aver paura l’uomo è sé stesso. Sembra quasi innocente, ma di fatto c’è tutto un meccanismo dietro. I demoni sono le nostre storie, con cui ancora non riusciamo a ragionare. Esse portano paure che non riusciamo ad affrontare, eccetera, eccetera, eccetera… di fatto, ci tormentano in continuazione, ma ciò che si deve fare è essere consapevole che non se ne andranno mai. In fondo sono proprio quelle storie appartenenti al passato che fanno della persona ciò che è ora. Si possono bruciare fotografie del proprio passato, ma ciò che non si capisce è che tutti hanno dei demoni che fluttuano nella propria mente. E quindi ci si solleva un po’, e improvvisamente le storie non sono più portatrici di piccoli mostriciattoli dagli occhi iniettati di sangue. Sono semplicemente ciò che si era e che adesso non si è più. E ciò che si vive momento per momento un giorno sarà una storia anch’essa, forse da raccontare o forse no. Perché in fondo, una storia ce l’abbiamo tutti – fece una pausa – nel bene e nel male. -
Liz l’aveva ascoltato per tutto il tempo, attentamente. Forse perché, nel dire tutto quello, era stato quasi ironico.
- Già, hai ragione. -
- E…? -
- E un giorno ve la racconterò – esclamò la ragazza, aprendo la portiera e balzando giù dalla macchina che il ragazzo aveva appena posteggiato nel parcheggio della scuola – ma quel giorno non è oggi. -
E anche quella volta l’aveva spuntata lei.
 
 
 
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Matt era tornato a casa con un diavolo per capello e si era chiuso in camera sua, sbattendo energicamente la porta.
Gary Sanders aveva provato a dirgli qualcosa quando lo aveva visto entrare in salotto, ma lui non l’aveva ascoltato.
Voleva stare da solo. Non voleva essere disturbato.
Amy non era della stessa opinione. Quando non l'aveva visto scendere nemmeno quando la madre gli aveva annunciato che l’aveva cercato Brian al telefono, aveva cominciato a preoccuparsi. “Tesoro, vai a vedere come sta tuo fratello”, le aveva detto Kim Sanders, anche se borbottava dicendo che quel ragazzo più cresceva più diventava ingestibile. Lei non era mai stata più felice di ricevere tale compito. Nonostante tutto, voleva bene a suo fratello. E voleva capire che accidenti ci fosse di sbagliato in lui.
Bussò ripetutamente alla porta della camera del ragazzo, sperando di ricevere risposta.
Niente.
Abbassò lo sguardo sulla maniglia della porta. Di solito non la chiudeva mai a chiave. Un po’ perché la serratura era praticamente rotta, ci voleva pazienza prima di chiudere la porta e non c’era l’assicurazione che poi si sarebbe riaperta. Un po’ perché non ne aveva nemmeno bisogno. Provò a spingere la maniglia in basso, sentendo poi la serratura scattare. Come aveva predetto lei, non era chiusa a chiave.
- Hai cinque secondi per andartene o davvero, ti alzo di peso e ti butto fuori di qui. -
Aveva la voce colma di rabbia e di risentimento, cosa che la fece deglutire rumorosamente. Quei due fattori combinati insieme non andavano bene, non andavano bene per niente.
- Posso sapere che cosa è successo? – domandò la ragazzina, entrando comunque in camera del fratello e sedendosi accanto a lui sul letto.
Nel corso degli anni aveva imparato a gestirlo. Quando tutto andava male, lei era l’unica che si degnava di ascoltare, di conseguenza era piuttosto sicura che anche quella volta si sarebbe confidato con lei.
- Non sono cose che ti riguardano. -
Amy era al primo anno e alcune cose le capiva perfettamente. Non era da molto tempo alla scuola superiore, ma aveva comunque quattordici anni e alcune cose le capiva anche senza il bisogno di essere lì dentro da tanto e conoscere questo o quello.
E lei sapeva di che si trattava.
- Si tratta di Valary, vero? -
Il fratello si ritrovò a sospirare, per poi annuire. Già, l’aveva intuito, da molto tempo anche. Aveva notato che fra loro le cose non andavano più bene, non li vedeva più sereni e spensierati come se li ricordava lei. Al contrario, le sembrava di trovarsi davanti una di quelle coppie sposate da più di quarant’anni, che si erano già detti tutto e che non potevano far altro che rinfacciarsi i propri difetti.
- Che cosa è successo? -
- Niente. Come al solito. Usciamo e per lei faccio o dico qualcosa che non va bene. E si comincia a litigare. Non va bene questo, non va bene quello, e tu mi trascuri, passi più tempo con i ragazzi che con me, tieni più alla musica che a me, io ti ho anche dato dei soldi, dovresti considerarmi di più… eccetera, eccetera, eccetera. E io non ce la faccio – fece una pausa – ho passato anni ad assecondarla, sempre comunque. A pretendere che i miei bisogni venissero dopo i suoi. Che prima contava lei, poi tutto il resto. Adesso basta. -
Su quello aveva ragione. A lei piaceva Val, era sempre stata molto gentile con lei. L’aveva aiutata all’inizio della scuola e, da quando la conosceva, si era comportata da sorella maggiore nei suoi confronti, sorella che lei non aveva mai avuto. Le voleva bene.
E sapeva che amava suo fratello, anche se aveva uno strano modo di dimostrarlo.
Ma, di fatto, la gente cambiava. Lei pensava che ogni due, massimo tre anni si diventava persone completamente diverse da quelle che si era un tempo, e non si poteva fare nulla per cambiare la situazione.
Forse non erano più compatibili. Era quasi convinta che una coppia si evolvesse insieme, ma…
- Forse è giunto il momento di dire basta per davvero. Sai… quel “basta” – disse la giovane, mimando le virgolette con le dita.
Matt si ritrovò a sospirare, di nuovo.
- Non lo so, Amy. Lei… lei è… -
- Sai perché secondo me il primo amore non si dimentica? Perché è quello dove si fanno più errori. È quello da cui si impara di più. Non puoi stare legato a lei per la vita, se non ti senti più compatibile con lei. Quindi… -
- Quindi dovrei chiudere e passare ad altro? -
E lui sapeva chi era, quell’altro. Aveva un nome, un cognome ed un volto.
Liz era sempre nei suoi pensieri da quando l’aveva vista in classe il primo giorno di scuola. Anzi, lo era da prima, sotto la forma di quel demone che sembrava tormentarlo più di tutti. E anche se i due non avevano confidenza (lei si allontanava e lui non capiva perché, non sapeva che cosa faceva di male per farle prendere le distanze in quel modo), lui sentiva che se doveva frequentare qualcuno, quel qualcuno doveva essere lei.
Sentiva come…
- Il mondo è pieno di persone. E io credo in te. È la prima volta che te lo dico, ma sono sicura che la band avrà successo, che arriverete in alto, che girerete il mondo da cima a fondo. E conoscerai altre persone, lo sai questo, vero? E una di queste persone è l’amore della mia vita. -
Il ragionamento in effetti filava.
- E se l’amore della mia vita è lei? -
Non sapeva bene a chi si stesse riferendo, con quel “lei”. A Val? Credeva davvero che la ragazza avrebbe potuto essere la sua anima gemella? Forse lo era davvero.
- Te ne renderai conto eventualmente. Se lo è per davvero, non scapperà. Rimarrà sempre lì. -
Il ragazzo sorrise, un sorriso sincero che Amy non gli vedeva più sul viso da tanto, troppo tempo.
- Forse hai ragione. -
Lei lo sapeva che aveva ragione. Ma non sapeva se Matt avrebbe seguito il suo consiglio.
 
 
 
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Se c’era un luogo dove ci si poteva riunire e lasciare fuori tutti i problemi o comunque tutto ciò che accadeva nella propria vita, quel posto era il garage di casa Sullivan (e il piccolo spazio nascosto fra i cespugli del parco centrale della città, il loro posto segreto, ma quella era un'altra storia). Era come se fosse stato incantato: si entrava e, improvvisamente, tutto ciò che turbava una persona spariva. Si pensava a cose semplici e si passava il tempo con gli amici.
Più semplice di così… le cose però si complicavano quando, in genere, lì c’erano anche le sorelle Rigby, o la ragazza di Matt, o a volte le scopa-amiche di questa o quella persona - in fondo, loro non erano gente che si impegnava.
- Prossimi progetti lavorativi? – domandò Eleanor, che era passata di lì insieme a Phoebe per dare ai ragazzi il giornale, dove aveva cerchiato degli appositi annunci.
Da quando si erano messi in testa che la loro band non sarebbe rimasta chiusa in un garage ma che, al contrario, sarebbe arrivata in alto e che loro avrebbero fatto della musica la loro carriera, i cinque componenti degli Avenged Sevenfold avevano cominciato a lavorare a tutto spiano, in modo da guadagnare più soldi possibili per cominciare.
Jimmy era di grandi vedute, pensava che entro la fine dell’anno scolastico avrebbero guadagnato abbastanza soldi da produrre non solo l’album, ma anche per fare qualche maglietta con il logo della loro band. Brian invece scuoteva la testa e lo riportava in pochi secondi con i piedi per terra: già tanto se riuscivano a diplomarsi, figurarsi anche guadagnare i soldi necessari per tutto ciò che diceva lui. Ma in fondo, il suo migliore amico era così, era un sognatore, e nessuno sarebbe mai riuscito a togliergli dalla testa le sue fantasie.
“Suoneremo con i Metallica, e gli Iron Maiden, già ci vedo lì”, diceva spesso, facendo ridere tutti gli altri ma al contempo far scuotere loro la testa. Nessuno, in fondo, sapeva dove sarebbero arrivati.
- Cercano aiuto ai magazzini generali, penso che andare lì e muovere un paio di scatoloni non sarà male – esclamò il batterista, indicando un annuncio che era già stato prontamente cerchiato in rosso dall’amica.
- Io posso ancora lavorare in cantiere, non mi pagano male – lo seguì a ruota il chitarrista, per poi strappare il giornale dalle mani del migliore amico e cominciare ad ispezionarlo, cercando di trovare qualcosa anche per gli altri.
Erano solo loro, in quel garage, il che non era neanche poi così raro il giovedì. In genere, dato che venerdì sera avevano le prove (e poi andavano a bere al bar) e il sabato le esibizioni, si poteva dire che quello era il loro giorno libero, dove ognuno avrebbe potuto fare quello che voleva.
Matt probabilmente sarebbe uscito con Valary, anche se i due non erano poi in così buoni rapporti ultimamente, oppure sarebbe andato con Cam a fare una partita a basket insieme a qualche suo vecchio conoscente della squadra in cui giocava prima di dare il definitivo addio a quello sport.
Johnny era con suo fratello in spiaggia, o da qualche parte. I suoi genitori stavano divorziando e il ragazzino non l’aveva presa poi così bene. Da bravo fratello maggiore, si stava impegnando a distrarlo il più possibile.
Zacky invece avrebbe lavorato fino alle sei nell’azienda di famiglia, poi aveva detto che li avrebbe raggiunti e, anzi, avrebbe quasi sicuramente passato la notte a casa Sullivan, dato che avrebbe litigato con il padre. Non era poi una novità.
Brian ci pensò un attimo: tutti e cinque, presi singolarmente, potevano dire di essere dei veri e propri disastri sotto la forma di persone in carne ed ossa. Ma, insieme… erano semplicemente loro. E, in qualche modo, riuscivano ad essere perfetti.
- Lo sapete che possiamo darvi qualcosa, vero? Non è un… -
- Assolutamente no – disse Jimmy, risoluto, interrompendo Phoebe – apprezziamo il vostro supporto, ma la cosa si ferma lì. Chiedervi i soldi è troppo. -
Su quello, entrambi si trovavano d’accordo. Anche il chitarrista non sopportava l’idea di essere in debito con qualcuno. Nessuno di loro aveva chiesto i soldi nemmeno ai propri genitori (anche se suo padre continuava ad insistere e ogni tanto gli allungava un centone, prontamente rifiutato), figurarsi a delle amiche. Si sentivano già in debito con Val, che aveva letteralmente rubato qualcosa come duemila dollari dal conto corrente del padre in modo da darli a Matt. Quello era successo l’anno prima e nessuno sapeva se il signor DiBendetto se ne fosse accorto o meno. In fondo la sua famiglia era affermata e ricca e straricca, come dicevano loro, se non aveva detto niente probabilmente era per quello.
Lo sguardo di Brian si puntò su Eleanor, che all’esclamazione del batterista aveva alzato gli occhi al cielo. Sul suo volto comparve un sorriso malizioso. Da lei non avrebbe certo voluto soldi, ma… altro. E tutti sapevano di che altro stava parlando, compresa la diretta interessata. Non appena si accorse di essere osservata, arrossì violentemente, cosa che lo fece ridacchiare.
- Non… smettila di guardarmi. -
- A te piace quando ti guardo. -
Sì, perché Brian la guardava. E no, non in modo normale, non come un normale ragazzo fissava una normale ragazza (non per altro, loro non erano per nulla normali). Lui la guardava e basta, a modo suo. 
Spesso, quando magari entrava in casa dell’amico o nel garage (cosa che faceva praticamente ogni giorno, dato che abitava nella villetta accanto e i Rigby e i Sullivan erano praticamente cresciuti insieme) ed erano presenti anche i ragazzi, non faceva a tempo ad entrare nella stanza dove si trovavano che automaticamente lo sguardo del ragazzo si puntava su di lei. 
La osservava, lo faceva sempre.
E, quando non lo faceva, quando non era nemmeno nelle condizioni di prestare veramente attenzione, lei guardava lui.
- Potete, per favore, appartarvi da qualche parte e scopare, così smorzate la tensione sessuale e noi altri siamo felici e contenti? – domandò Jimmy, più serio che mai, prendendosi uno scapaccione da Phoebe.
Se fosse stato per lui, l’avrebbe fatto senza problemi. C’era già stato qualcosa, fra loro, all’inizio dell’estate. Il chitarrista era completamente ubriaco (o forse no?) e i due erano davvero finiti per appartarsi. Non che fosse successo qualcosa di più oltre ai baci, anche se a lui sarebbe piaciuto e non l’aveva mai nascosto, ma restava il fatto che il giorno successivo entrambi avevano dato la colpa all’alcol e avevano deciso di non parlarne più, perché da amici stavano molto, molto meglio.
Eleanor non beveva. E Brian non era poi così ubriaco.
E peccato che loro non erano mai stati amici. Anzi, nonostante si conoscessero da un tempo, i due potevano dire di essere quasi degli estranei. Non si comportavano mai da persone legate da un forte legame affettivo, anzi, passavano la maggior parte del tempo a scambiarsi frecciatine. E a litigare. I loro litigi partivano dal banale per poi trasformarsi in qualcosa di dannatamente serio, della serie che non si parlavano per giorni interi e spesso doveva intervenire Jimmy per risolvere la situazione. Eleanor poteva dirsi amica di Matt, di Zacky, di Johnny, poteva definirsi quasi una sorella per Jimmy. Ma per lui no, per lui era diversa e lo sarebbe sempre stata. Un giorno, forse, sarebbero andati oltre, in qualche modo.
Ultimamente stavano imparando a conoscersi, almeno un po’. Ed entrambi non si aspettavano ciò che, in realtà, avevano trovato.
- Smettila. -
- Non fare l’arrabbiata, fai quello che ti pare, fai anche finta che non ti piaccia, ma alla fine finisce che ti guardo comunque. -
E quello era vero, constatarono tutti i presenti, anche se Phoebe stava cercando in tutti i modi di non far scoppiare a ridere Jimmy. Ciò che non voleva ammettere lei era che quelle frecciatine le trovava esilaranti, e che aveva un buon presentimento su quei due.
- Sai una cosa, Haner? Non sei affatto come credevo. -
Il sorriso di Brian si allargò ancora di più.
- Neanche tu. Tu sei molto peggio. -*
 
 
 
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La lavanderia era un posto piuttosto grande. Si trattava di un edificio di mattoni rossi, piuttosto imponente, che si estendeva su due piani: la lavanderia al piano inferiore, una piccola palestra a quello superiore. Lei non capiva cosa ci facesse una palestra lì su e soprattutto chi mai la frequentasse, ma aveva deciso di non porsi troppe domande in proposito.
Aspettò che si liberasse una delle grandi lavatrici di colore giallastro, in modo da mettere il gettone e aprire lo sportello. Si sedette su una panca, dividendo i bianchi dai colorati, per poi sbattere i primi in lavatrice, versare il detersivo e chiudere tutto. Sarebbe stata lì un po’, aveva più lavatrici da fare.
Guardò l’orologio: le sei e mezza di sera. La lavanderia rimaneva aperta fino a tardi, quindi il problema non si poneva. Sarebbe semplicemente rimasta lì a studiare, dato che quel pomeriggio aveva lavorato al negozio di dischi e non era riuscita ad aprire un libro nemmeno nelle pause.
Liz aprì il libro di letteratura inglese, riflessiva. Stava pensando a cosa avrebbe trovato a casa: era giovedì, e il giovedì la madre lavorava per tutta la sera (ma anche per gran parte della notte) in un bar lì vicino. Sicuramente non aveva riordinato la sua postazione per tagliare i capelli, ma almeno avrebbe trovato la casa in ordine, dato che quella mattina era piena di appuntamenti e di certo non avrebbe voluto fare brutta figura con le clienti.
Si ritrovò a sospirare. Era possibile riavvolgere il nastro e tornare indietro nel tempo? No, quello no. Ma lei avrebbe potuto nascere in altre circostanze e vivere un’altra vita? Quello sì, sicuramente. Lei lo sapeva bene.
Scosse energicamente la testa: stava pensando a cose strane, di nuovo. A quelle cose che non dovevano nemmeno provare a sfiorarle la mente. Eppure…
- Ho una domanda: hai sempre un libro in mano? – domandò Matt, facendola sobbalzare.
Da dove era spuntato? E soprattutto, che accidenti ci faceva lì?
Lo osservò attentamente: la solita carnagione pallida, il solito sorriso, le solite fossette, i soliti grandi occhi verdi… indossava dei calzoncini neri che gli arrivavano fino al ginocchio e una maglia che in generale indossavano i giocatori di basket senza maniche, di colore giallo, proprio come quella della scuola. La osservò meglio: sì, decisamente quella della scuola, c’era il piccolo stemma della Huntington High sulla manica sinistra.
Non sapeva che Matt fosse in squadra. Anzi, era piuttosto sicura che fosse stato cacciato.
- Ciao, che bello vederti, sto bene grazie, tu invece? – domandò la giovane, con la voce sfalsata, facendolo scoppiare a ridere – e sì, devo studiare. A differenza tua, ci tengo a diplomarmi nei tempi stabiliti. -
Il ragazzo rise di nuovo, per poi sedersi accanto a lei. Solo lì Liz notò che era completamente sudato, le gocce di sudore scendevano fin dai capelli. Doveva essersi impegnato parecchio agli allenamenti, o dovunque fosse andato.
- Ciao – la salutò, ridacchiando – che cosa combini? -
- Bucato – rispose, indicando la lavatrice che aveva appena caricato andare lentamente. Ecco, lo sapeva lei che avrebbe beccato quella mezza rotta. Come sempre, d’altronde.
Il ragazzo si ritrovò a guardarsi intorno, anche se non doveva essere la prima volta che si trovava lì. Sembrava che conoscesse il posto, le persone, tutto. Era come se fosse completamente integrato e come se avesse sempre vissuto lì. La gente non faceva nemmeno caso a lui, e di solito era quello che succedeva quando si era in presenza di una faccia nuova: la si osservava con curiosità, come a chiedersi che accidenti quella persona ci facesse lì.
Pensò a che cosa dirgli, dato che lui non sembrava intenzionato a parlare, ma solo a rimanere lì, come a farle compagnia. Forse doveva chiedergli di Valary. Ciò che le aveva detto Phoebe qualche giorno prima l’aveva fatta pensare parecchio e nella sua testa stavano cominciando a frullare delle domande strane.
Lei non era mai rientrata nei canoni della normalità. Ma ultimamente stava sfiorando il limite dell’essere completamente fuori controllo.
Paranoica, ecco cos’era. Solo una grande paranoica.
- Tu che ci fai qui, invece? -
Il giovane diede una scrollata di spalle, per poi indicarle con un cenno della testa la porta della lavanderia, probabilmente cercando di farle capire che era stato fino ad allora al campo da gioco di fronte.
- A volte mi piace giocare a basket con un paio di amici. Sono praticamente cresciuto con questo sport e di abbandonarlo ancora non me la sento. -
La ragazza si ritrovò ad annuire, comprensiva.
- Beh… allora… - era imbarazzata. Non aveva la minima idea di cosa dire. Avrebbe voluto chiedere una cosa o due, ma…
- Hai un problema con me, Elizabeth? -
La giovane strabuzzò gli occhi: che accidenti intendeva?
- C-come? -
- Non so. È da un mese che ci conosciamo e sembri molto diffidente, nei miei confronti. Come se ti avessi fatto un torto. -
- N-no. Assolutamente. È che… devo ancora inquadrarti. A differenza degli altri, che non sono comunque facili da capire… tu sei un mistero. Davvero. E io sono sempre stata brava a capire le persone. -
Quello era vero. Liz era incredibilmente brava non solo ad intuire, ma a capire perfettamente il carattere e le attitudini di una determinata persona. Per lei era questione di pochi secondi: quando conosceva una persona nuova, sapeva subito se essa era degna di fiducia o meno. 
In quel mese passato insieme a loro aveva esaminato attentamente tutti e cinque, ed era riuscita a capire molte, moltissime cose.
Su tutti quanti… a parte Matt. Lui non riusciva a capirlo. Per lei, era la persona più misteriosa che avesse mai conosciuto in vita sua, e ne aveva incontrate tante, come spesso si ritrovava a constatare.
Per quel motivo cercava di non dargli confidenza. All’inizio aveva pensato, anche solo per un momento, che… scosse energicamente la testa. No, non era possibile, non una cosa del genere almeno. Soprattutto nei confronti di una persona come Matt. Ma gli avvenimenti di qualche giorno prima l’avevano fatta ricredere, almeno un poco.
- Sono fatto così – disse il ragazzo, abbassando lo sguardo – la gente non mi capisce. E, in automatico, si allontana. -
Aveva capito allora. Liz arrossì, per poi abbassare velocemente lo sguardo: era stata stupida. Era stata scortese. Aveva permesso alla sua mente di giudicare il ragazzo senza neanche conoscerlo.
- Scusami. -
- Non importa, davvero. -
La ragazza sorrise, per poi porgergli la mano.
- Allora… amici? -
Matt avrebbe voluto volentieri scoppiare a ridere. "Amici", aveva chiesto, come quando si è bambini. Si trattene, per poi porgerle la mano, come a fare un accordo.
- A me sta bene. -
I due si strinsero la mano, poi Liz si alzò dalla sua postazione e si diresse verso la lavatrice, per controllare a che punto fosse il lavaggio. Sospirò, per poi bofonchiare qualcosa sul fatto che ogni volta che veniva a fare il bucato quando la lavanderia era piena beccava la lavatrice che funzionava male.
- Sarà meglio che torni a casa, penso di essere in ritardo per la cena – disse il ragazzo, alzandosi dalla panca dove era stato seduto per tutto quel tempo.
- Oh. Capisco. Beh, allora ci vediamo domani a scuola? -
Il ragazzo sorrise.
- Certo. A domani, Elizabeth. -
 
Matt girò i tacchi e si avviò verso l’uscita della lavanderia.
- Non chiamarmi Elizabeth! – strillò la giovane con la quale aveva parlato fino a qualche secondo prima, da lontano, facendolo scoppiare a ridere.
Uscì e cominciò a correre in tutta velocità per le vie di Huntington Beach, diretto a casa sua. Avrebbe fatto tardi e lo sapeva. Il padre si sarebbe arrabbiato, la madre avrebbe alzato gli occhi al cielo e la sorella minore avrebbe bofonchiato un “che novità, è sempre in ritardo”.
Non gli importava. Continuava a pensare a quella conversazione e a quella stretta di mano. Un gesto insignificante. Eppure... il brivido che aveva sentito non appena era entrato in contatto con la giovane era stato intenso. Come del resto lo era stato anche quello di qualche tempo prima, alla loro esibizione.
E improvvisamente quel vuoto che ultimamente sentiva alla bocca dello stomaco non c'era più.
 

 
 
 
 



Note dell’autrice:

Ed eccomi qui con un nuovo capitolo. Lo so che sono in un ritardo allucinante, ma… oltre alla sessione invernale, che mi ha risucchiato l’anima (ho dato l’ultimo esame solo ieri), il mio pc ha pensato bellamente di rompersi. Già. Fortunatamente salvo le mie fanfiction in tre posti diversi, ma non è piacevole ritrovarsi senza il proprio computer – dove, tra l’altro, ho tutti i materiali dell’università, immaginate che gioia averlo rotto nel periodo degli esami.
Bando alle ciance, però, veniamo al dunque. Ritorno con un capitolo un po’ più lungo, dove finalmente qualcosa inizia a muoversi. Ammetto di aver inserito dentro moltissimi luoghi comuni, il che rileggendo il capitolo mi ha stupita, ma… passiamo oltre, forse è meglio. In questo capitolo conosciamo un po’ più a fondo i personaggi e quello che sta succedendo nelle loro vite, conosciamo alcuni tratti del loro carattere… per non parlare poi della piccola comparsa di Amy, la sorella minore di Matt. Di fatto, è una ragazzina di quattordici anni, è ancora piccola. Ho provato a rendere i suoi pensieri il più realistico possibile (ho immaginato che cosa potrebbe pensare una ragazza di quattordici anni dell’intera situazione, vedendola quasi con gli occhi da bambina). Spero di essere riuscita a combinare qualcosa di decente.
Poi, che altro dire? Ah sì, Eleanor e Brian. Già, non ho potuto farne a meno, qualcosa fra quei due dovevo combinate. Ma come si svilupperà questa loro infatuazione? Eh… eheheh *risatina*.

Per quanto riguarda la canzone di inizio capitolo: ammetto di non essere una fan di Ed Sheeran, ma... diciamocelo, c'è sempre una canzone di questo artista che in qualche modo fa riflettere. Ecco, di fatto, eccola qui. Magari innamorarsi fosse così semplice, eh?
 
Okay, la smetto.
Anzi, mi ritiro nel mio angolino buio, forse è meglio.
 
Ringrazio davvero di cuore le persone che hanno recensito la storia, che l’hanno messa fra le preferite, le seguite e le ricordate. Siete davvero dei tesori. Se il capitolo vi è piaciuto (o anche no, attendo sempre le critiche, in modo da migliorarmi), lo lasciate un piccolo commentino per farmi sapere che cosa ne pensate? *^*
Bene, mi ritiro in un angolino davvero.
Al prossimo capitolo!
Kisses,
Vava_95
 
P.S. entrambe le citazioni contrassegnate dall’asterisco (*) derivano dalla saga "il bacio dell'angelo caduto".
P.P.S. in caso voleste contattarmi, oltre a scrivermi una mail qui su EFP potete anche farlo su twitter: @SayaEchelon95
  
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