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Autore: didylanda01    16/02/2015    1 recensioni
[Mario Kart]
“I bambini cresciutelli”? Beh, un gruppo di quattordicenni anti-convenzionali, amanti delle caramelle, di nascondino e, soprattutto, di Mario Kart.
Elena, Marta, Giulio e Matteo, in un sabato come gli altri, da almeno otto anni, ma questa volta sarà diverso. Un errore del sistema, un bug non risolto, il volere di oscuro? Chi lo sa… Fatto sta che i quattro “kartini”, mai guidato una macchina in vita loro, si ritroveranno risucchiati dentro il gioco, su una macchina, diventeranno un personaggio… indispensabile! Ma la vera cosa indispensabile sarà vincere, tagliare il traguardo per primi, perché solo così, solo il primo tornerà nella giusta dimensione: a casa. Il problema, però, è che loro sono il quattro…
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era un classico tardo pomeriggio di sabato, appoggiata passionalmente sullo schienale liso della poltrona della stanza dello zio, osservavo poco interessata le grigie nuvole che scorrevano lentamente nel cielo terzo. Con un barlume di speranza, poco coltivato e non tanto desiderato guardavo e inneggiavo il sole che tenace cercava invano di emergere dalla spessa coltre di nuvole. Annoiata sollevai con la punta delle dite un friabile biscottino e me lo infilai in bocca sgranocchiandolo con gusto e assaporando con lentezza il piacere del dolce sapore che mi sensibilizzava le papille gustative. Lanciai una fugace occhiata alla scatola che tenevo amorevolmente in grembo: arancione, liscia, cartacea con scritto grande e ben leggibile “PLASMON”. Roba da poppanti, lo so, ma la loro delicatezza m’incantava e furtivamente quella mattina mi ero intrufolata in cucina e avevo estratto dalla credenza il rigido pacco. Mi trattenni a malapena dall’impulso di mangiarne un altro, ma la responsabilità per non finire l’ultimo pacco di biscottini che la mamma dà alla sorellina mi sopraffece e rassegnata adagiai sulla scrivania quel che rimaneva di esso. Alzai gli occhi e riluttante li staccai dal malmesso scatolo e per distrarmi un po’ mi infilai con attenzione i candidi auricolari nuovi e con il polpastrello dell’indice picchiettai sullo schermo dell’Ipad facendo cominciare, a volume esagerato, la ritmica e ruggente musica disco che amo tanto.
Magra come sono, non si direbbe affatto che mangio come una botte, ma come una metamorfosi una volta a tavola mi trasformo, per così dire, in un lupetto affamato che riempie il suo stomaco come un uovo.
Passò qualche secondo, e mi estrassi le cuffiette dalle orecchie: avevo un leggero malditesta e il rombo della discomusic si trasformava nel mio cervello in una specie di ronzio fastidioso e turbante.
Con fatica, per la stanchezza, appoggiai la scalza e magra pianta del piede sul ghiacciato greis del pavimento della stanza di mio zio Francesco. Quando il giovane fratello di papà aveva chiesto ospitalità nella nostra grande casa, solo qualche mese prima, noi avevamo liberato al meglio la polverosa cantina, l’unica stanza della casa a non essere dotata del liscio e caldo parquet… Di stanze libere, ne avevamo tante, anzi troppe, nell’immensa villa ultra tecnologica che i miei avevano acquistato in seguito alla fortunata vittoria del superenalotto, ma l’universitario zio, ragazzo capriccioso aveva trovato inesistenti difetti in ognuna di esse.
Il sabato pomeriggio, lo zio Francesco andava in giro con i suoi amici figoni a bere birra e a scommettere sulle partite di calcio, così io, quel giorno, mi ero fermata nella sua silenziosa e isolata stanza, per avere un po’ di pace e tranquillità.
Comunque dicevo che tra brividi e saltellini riuscii a mettermi in una posizione eretta davanti alla scrivania. I piedi mi si erano insensibilizzati, ghiacciati, ma purtroppo, sbadata e confusa, avevo dimenticato le pelose ciabatte di sopra.
Accartocciai con cautela il pacco di biscotti, ben decisa a riporlo al più presto nel grande armadietto di titanio che si trovava a mezzo metro dai fornelli nella spaziosa cucina. Lentamente salii i larghi gradini dalla superfice in lastra di vetro grigio e passo dopo passo mi ritrovai di fronte all’enorme porta scorrevole della cucina. Facendo attenzione a non attivare il sensore che avrebbe provocato l’apertura automatica di essa mi ci si accostai tentando di captare con il mio fine udito il minimo rumore. Dentro c’era mia madre che parlava al telefono in vivavoce con Gaia, la sua migliore amica dalla voce squillante e accesa, contemporaneamente apriva e richiudeva scompostamente i portelloni.
-Gaia non trovo i biscotti della bambina!-
-Quali usi, i Plasmon?-
-Si!-
-Hanno lo scatolo arancione Mari!-
-Lo so, lo so… ma non sono da nessuna parte!- esclamò mamma esasperata, infilandosi le lunghe dita fra i capelli scuri e setosi.
-Hai visto bene?-
-Si Gaia! Benissimo! Oggi sono un po’ sbadata… probabilmente li avrò persi mentre sistemavo la casa per accogliere gli amici di Elena che arriveranno a momenti.- Oh Dio, i miei amici! Me ne ero totalmente dimenticata. Mi misi a correre, veloce come un fulmine, come un’elettrica saetta, sentivo quasi l’aria che mi frusciava nelle orecchie, come un divertente clown che ti soffia nel fishietto a mezzo metro di distanza. Stavo raggiungendo il secondo piano della casa quando, con i pensieri che vagavano alla deriva nell’infinito mare della mente non visualizzai con prontezza l’imponente muro candido che mi si ergeva di fronte. BOOM. Mi schiantai su di esso con la forza di un rinoceronte in calore e percepii pacatamente, come in un lontano ricordo, un assordante dolore che mi si diffondeva a macchia d’olio dappertutto. Udii dei passi indistintisti che salivano le maestose scale con pesantezza e durezza, socchiusi gli occhi, dai quali cominciavo a vedere rosato. Come avvolta in mille strati di cellophane sentii mia madre che salutava la sua amica.
-Senti Gaia, io dovrei andare!- esclamò.
-Okey ciao Marialaura, a dopo.-
Riuscivo a non svenire ma ero consapevole che il trattino che mi separava dalla perdita dei sensi era infinitesimamente microscopico, e proprio concentrandomi su queste misure impercettibili riuscivo a impegnare la mia mente tenendola ancora attiva e impedendole di scollegare. Feci un sospirone, la pulita e profumata aria fresca mi penetrò nella bocca rinfrescandomi tutto il corpo e ricominciai ad avvertire gli arti in modo più materiale. Mia madre mi aiutò ad appoggiare la schiena al muro e con la sua voce calma mi consigliò, in un sussurro, di socchiudere gli occhi e rilassarmi per un po’. Qualche secondo dopo schiusi le palpebre e notai che le immagini avevano riacquisito i loro colori, anche se traballavano ancora leggermente. Girai il capo e incrociai lo sguardo accusatorio di mia madre:
-Cavolo Elena, hai quattordici anni, a volte mi stupisco proprio di come gli adolescenti possano risultare ancora così infantili… Comunque stai bene amore mio?- scossi debolmente la testa.
 
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Venti minuti dopo ero comodamente distesa nell’ultra-comodo divano rosso con metà della testa affondata nel cuscino, sull’altra metà, con l’ormai infreddolita mano destra, mi premevo con veemenza e determinazione la borsa del ghiaccio.  Mi sentivo come se dentro il mio cervello ci fossero dei muratori che muniti di calce e martelli mi scomponevano l’affollata mente. Comunque inutile mentire, mi sentivo molto meglio di prima ed ero pronta ad affrontare con partecipazione, l’impegnativa giornata all’insegna del divertimento che mi aspettava. I pensieri mi affogavano la mente come la grappa con gli ubriachi, così non mi accorsi dello scampanellio tintinnante che infuriava alle mie spalle.
-Cazzo Elly! Apri!- con quell’educato urletto mi destai dal naufragio di sogni e mi sollevai. Confusa ma felice mi trascinai come un decomposto zombie mangia-cervelli fino all’imponente portone e lo spalancai. Mi buttai di getto tra le sue calorose e muscolose braccia possenti, che mi strinsero amorevolmente e con inaspettata dolcezza, considerata la sua stazza. Guardai Giulio e lui, esibendomi altezzoso un candido, come la neve, sorriso a trentadue denti mi squadrò compiaciuto e felice:
-Uffa Elly! Due ore per aprirmi! Ma sei diventata forse sorda amore mio?- Giulio è il mio meraviglioso ragazzo, stiamo insieme da soli, lunghi, tormentati, allegri, due mesi… Già però è il mio “lui” ed io sono la sua “lei”. Contenta di esserlo.
-Sei con gli altri?-
-No, ma dovrebbero arrivare a momenti, Matteo mi ha telefonato qualche istante fa.- ancora, perché il celebre e popolare quartetto di scatenati adolescenti “I bambini cresciutelli” fosse al completo mancavano Matteo e Marta: perché l’epica serata a tema “Mario Kart” potesse iniziare dovevamo ancora attendere. Avevo appena finito di inabissare il fondoschiena nel piacevole e gonfio cuscino rosso incastonato nell’immenso divano che torreggiava nel salone, mettendo soggezione ai minuti, in confronto a lui, altri modesti mobili, quando l’odiato e rumoroso campanello si azionò. Un fracasso maggiore di quanto ci si possa aspettare assistendo in prima fila a un concerto jazz, animò l’ingresso in un’immaginaria danza scatenata, che nella mia mente, già martoriata dalla botta, si trasformò in scoppiettanti fuochi d’artificio che mi fecero ballare le pupille. Ondeggiando la punta delle dita della mano sinistra indicai a Giulio di dirigersi ad aprire, e lui, obbediente e comprensivo, si avviò oscillante e solerte.  Una vocina squillante spinse le mie stanche gambe a contraddire  gli ordini impartitagli dal buon senso e a portarmi da Marta, da sempre la mia migliore amica.
Corsi da lei, chiacchierammo incessantemente come solo noi sappiamo fare, parlammo, spettegolammo, finché le corde vocali non cominciarono a sfrigolarci, o comunque, finché un vocione possente, ma caldo e cordiale non cominciò a chiamare dalla strada.
-Aprite! Aprite, presto!- corremmo a farlo entrare, e una volta che il portone fu completamente spalancato ci trovammo di fronte a un bellissimo ragazzo, tutto sudato che come un carrarmato ci travolse e si piazzò imponente sul peloso tappeto bianco dell’ingresso di casa mia.
-Matteo!- sospirai, mi avvicinai e lo abbracciai. Quell’impacciato del mio migliore amico ricambiò la stretta e con il lembo dell’immacolata felpa bianca si asciugò l’umido sudore che gli si era condensato a goccioline perlate dietro le piccole orecchie.  Appena ci staccammo sopraggiunse Giulio e facendo i due amici duri, batté il cinque a Matteo, e una volta sorpassatalo lo fece anche al contrario. Scossi la testa divertita dal loro giochetto da bambini, ma d’altronde cosa dovevamo fare, se non quello, essendo il gruppo dei “Bambini cresciutelli”?
-Matte, ma perché tutta ‘sta fretta?-
-Non puoi capire Ela, c’era… c’era… un cane!- sorrisi di fronte alla sua inspiegata e secolare fobia, e lanciando un’occhiata aldilà del lucido vetro ebbi modo di osservare un minuscolo barboncino che scompariva dalla mia visuale scodinzolando dolcemente.
Interrompendo quel momento idilliaco e fiabesco di irrealtà mostrai ai miei amici quattro telecomandi wii e il disco del nostro amato gioco “Mario Kart”. Ogni sabato lo stesso identico rito, ma non ci stancava assolutamente MAI. Quella volta però… sarebbe stato diverso. Moolto diverso. Non potevamo assolutamente aspettarcelo.
 
 
   
 
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