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Autore: Ortensia_    17/02/2015    2 recensioni
Io sono una persona e in quanto tale ho dei limiti.
Io sono uno scrittore e in quanto tale sarò giudicato per quello scrivo.

[...]
Chi sono io? Mayuzumi Chihiro. E cosa rimarrà di me? Un foglio di carta e una penna.
[...]
Se credessi nell'esistenza del Diavolo, sono sicuro che i suoi occhi sarebbero questi.
[ Vincitrice del contest "Ripopola Fandom" indetto da __Bad Apple__ ]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Chihiro Mayuzumi, Kiseki No Sedai, Ogiwara Shigehiro, Seijuro Akashi
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Gli occhi del Diavolo'
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Capitolo V

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Deglutisco, la gola è secca e brucia a contatto con la saliva calda. Non riesco ancora a capacitarmi del sogno che ho fatto, ma sembrava così reale che sento ancora la morbida seta contro il mio viso, e vedo ancora i suoi occhi di Diavolo che mi pregano in silenzio di continuare, avverto la pelle liscia e rovente delle cosce bianche sotto le mie mani e le sue labbra calde sulle mie.
Com'è possibile che abbia sognato qualcosa di simile? I personaggi di carta sono e saranno per sempre personaggi di carta, è insulso che io abbia fatto un sogno del genere e che per la stessa ragione mi sia svegliato con il battito cardiaco a mille, la gola completamente secca e il basso ventre percosso da una costante pulsazione.
Sfiato sommessamente e deglutisco di nuovo, con meno fatica di prima, poi mi afferro il viso fra le mani e adagio la fronte contro le ginocchia, spalanco le labbra in cerca d'aria.
Ho voglia di vedere Akashi, ma dopo aver fatto questo sogno so che non riuscirei più a guardarlo nello stesso modo, quindi mi auguro che oggi abbia da fare e non possa venire a trovarmi.
E poi perché ho sognato l'Akashi con il kimono? Preferisco lui, all'Akashi reale? A dire il vero non so neppure se quello che definisco “reale” lo sia veramente.
Sono sveglio da due minuti e ho già mal di testa.
Appena mia madre venne a conoscenza del fatto che avevo cominciato a scrivere, ne parlò con un amico, un vecchio scrittore morto giusto un paio di anni fa. Ricordo che questo scrittore, che forse di cognome faceva Kasayama, mi incitò a continuare e, allo stesso tempo, mi mise in guardia dalla scrittura, mi disse che molto spesso era inevitabile affezionarsi ai personaggi e avere alcune preferenze, modificare la trama a causa dell'affetto spropositato che si poteva nutrire nei confronti dei protagonisti, tanto da discostarla nettamente dall'idea originale.
Non gli avevo creduto. Anzi, forse un pochino, ma avevo respinto immediatamente la sua idea: non avevo intenzione di affezionarmi ai miei personaggi, non volevo che la mia vita dipendesse dalla mia immaginazione e, soprattutto, avevo paura di sentire quel “vuoto” di cui Kasayama mi aveva parlato, un senso di inettitudine e malinconia che inebetiva ogni scrittore al termine di un libro a cui fosse particolarmente affezionato.
Non ho mai provato affetto verso i miei personaggi, non mi sono mai sentito “vuoto” dopo aver concluso un libro, – non mi è successo nemmeno con Fuoco a mezzanotte, che è stato il mio primo romanzo –, quindi mi chiedo che senso abbia sognare Akashi, come sia possibile che dopo aver scritto solo quattro capitoli sia riuscito a stabilire un legame così forte.
Adagio una mano al centro dello sterno e prendo fiato: il battito cardiaco si è stabilizzato, non è più un martello pneumatico che tenta di trafiggermi il petto dall'interno. La gola e la bocca non sono più secche, le labbra sono piacevolmente umettate e il basso ventre è ormai svincolato dalla concupiscenza onirica.
Mi auguro che non succeda più, perché, per quanto possa essere bello, sono perfettamente consapevole che non è reale.
Premo ancora la fronte contro le ginocchia, intrecciò le dita ai capelli e, superato l'ostacolo delle mie gambe, sbircio il copri materasso sgualcito, sciupato dal mio corpo durante la notte: è ora che mi alzi e vada a fare colazione, così potrò cominciare a lavorare al quinto capitolo, anche se i miei occhi sono terribilmente pesanti e la testa mi fa un male terribile.


― Shintarou rafforzò la stretta sull'amuleto di ossidiana verde e chiuse gli occhi, prese fiato, ripeté mentalmente che niente sarebbe andato storto, perché così avevano predetto gli astri. Lavorando come ricercatore scientifico per l'imperatore, Shintarou si era appassionato alle stelle e ai pianeti lontani, passava intere nottate ad osservare lo spazio attraverso telescopi e altri strumenti di tecnologia avanzata e aveva cominciato a studiare alcuni manuali, aveva cercato e trovato ogni costellazione che gli interessasse e aveva iniziato a credere che le stelle potessero comunicare qualcosa ad ogni essere umano presente sulla terra.
La sera prima della sua partenza, le stelle gli avevano assicurato che sarebbe andato tutto bene, al contrario di Tetsuya che aveva cominciato a dimostrarsi molto apprensivo e fin troppo preoccupato per l'incolumità di tutti loro.
L'idea di affrontare il Cerbero lo spaventava, ma dopo aver scalato la parete rocciosa a pochi metri dalla Cascata di Sheji ed essersi spinto sotto di essa una volta individuato il punto in cui la pietra si apriva, non aveva alcuna intenzione di arrendersi: avrebbe dato il massimo.
Shintarou infilò l'amuleto in tasca e imbracciò il fucile: era il miglior cecchino del regno, possedeva una mira ed una precisione invidiabili.
Due teste avevano gli occhi chiusi, l'altra due grosse gemme vermiglie spalancate, i denti affilati digrignati, il collo ritto verso di lui: proprio come aveva letto nei libri, si trattava di una grossa creatura a tre teste simile ad un cane, gli occhi di sangue, il pelo ispido e scuro come quello di un cinghiale. Una testa sorvegliava l'entrata della grotta e le altre due dormivano, le uniche occasioni in cui tutte e tre restavano sveglie erano la caccia e il combattimento per respingere visitatori indesiderati come lui.
Shintarou rafforzò la stretta sul fucile e prese la mira, premendo quasi immediatamente il grilletto.
Il Cerbero spalancò le fauci e latrò, ma la sua testa stramazzò a terra ancor prima che le altre due si svegliassero.
Come migliore cecchino del regno, Shintarou poteva permettersi le munizioni più prestigiose: proiettili così duri e affilati da poter perforare anche una montagna e che, una volta conficcati nella carne del nemico, si spezzavano a metà e rilasciavano un veleno letale.
Le altre due teste si svegliarono e Shintarou fece qualche passo indietro, cercando di prendere la mira una seconda volta – un solo proiettile non poteva bastare per abbattere una creatura così maestosa, doveva riservarne almeno uno per ogni testa –.
Ancor prima che riuscisse a premere il grilletto, il Cerbero lo colpì con una zampata rabbiosa e Shintarou si ritrovò con la faccia a terra ed un forte dolore al centro della schiena, quindi, incapace di valutare il suo stato e le possibilità di successo qualora avesse cercato di alzarsi in piedi, decise di restare coricato e imbracciò nuovamente il fucile, premendo il grilletto.
Il proiettile perforò uno dei quattro occhi della creatura ed una poltiglia verde e viscosa cominciò a riversarsi a terra, tuttavia la testa appena colpita restò viva e il Cerbero sollevò di nuovo una delle zampe e spalancò le fauci.
Shintarou rotolò sul fianco e conficcò la punta del fucile a terra per farsi da sostegno, così si alzò di nuovo in piedi e si preparò a sparare una terza volta, mirando al centro della testa che non aveva ancora subito danni.
Quando avvertì lo scatto del grilletto ma nessuna pallottola uscì dalla canna per colpire il Cerbero, Shintarou ebbe un sussulto e si ritrasse in fretta, alla ricerca di un punto riparato.
Un'altra zampata lo colpì in pieno e lo sbatté contro la parete della grotta.
Shintarou cadde sulle ginocchia e tossì, sputò il sangue che gli aveva invaso la bocca e afferrò di nuovo il fucile, premendo il grilletto più volte, ma senza risultati: l'urto iniziale doveva aver danneggiato l'arma.
Shintarou cercò di alzarsi in piedi, ma un dolore lancinante alla schiena lo costrinse a trascinarsi sulle gambe, almeno finché le due teste non gli si piazzarono davanti e spalancarono le fauci, avventandosi su di lui e riducendolo a brandelli in pochi istanti. ―




Akashi non si è presentato e il telefono non ha squillato, mi sono completamente isolato e ho dimenticato i rumori della strada, per cui ho scritto tutto il giorno e l'ho fatto senza sosta – se si escludono tutte le volte che mi sono alzato per andare al bagno e i dieci minuti passati in cucina a preparare un panino –.
Le palpebre bruciano e le tempie pulsano, mi sembra di essere reduce di una sbronza e per un istante il dolore è così forte da farmi pensare che nella mia testa stia nascendo un nuovo Inferno.
Sospiro sommessamente e mi prendo il viso fra le mani, mi sfrego gli occhi, ma le palpebre restano dolorose e pesanti, e allora mi alzo lentamente e indugio un poco al centro della mia camera, rivolgo un'occhiata lenta e disinteressata ai piedi del letto e poi all'uscita, verso la quale decido di dirigermi con estrema calma.
Quello di cui ho bisogno è una doccia. Una doccia lunga. E mi servirebbe fredda, peccato che non riuscirei a rilassarmi.
Una volta varcata la soglia del bagno chiudo gli occhi e procedo a tentoni, scosto l'anta zigrinata della doccia e mi tolgo la camicia con estrema lentezza, i pantaloni e i boxer con un po' più di velocità, perché il fiato del freddo sulla mia schiena mi fa quasi battere i denti e non vedo l'ora di sentire l'acqua calda che mi scorre sulla pelle.
Contorco le dita dei piedi e serro i denti a causa della ceramica fredda, afferro immediatamente il pomello dell'acqua calda e lo giro con un gesto rapido, quasi nervoso, mi lascio scappare un sospiro tremante non appena le gocce fredde mi colpiscono le gambe e uno compiaciuto quando le sento divenire a poco a poco chiaramente più calde.
Chiudo gli occhi e focalizzo la mia attenzione sull'acqua calda che si insinua fra i capelli e scivola lungo le braccia e i miei fianchi.
Ho intenzione di tenere gli occhi chiusi per un po' e di dimenticarmi, per almeno una decina di minuti – visto che non credo di poter fare di meglio – di Akashi e del mio romanzo.
«Chihiro?» la sua voce tagliante è un soffio gelido che frusta con violenza il mio orecchio, un alito di fuoco che disintegra il frammento di pelle fra le mie scapole.
«Chihiro?»
Sono forse stupido? Mi sono ripromesso di smetterla di pensare ad Akashi almeno per una decina di minuti, ma continuo a sentire la sua voce che mi chiama.
Sento una mano calda aderire al mio fianco e mi irrigidisco, vengo percosso da un brivido che mi elettrizza la schiena, le gambe e le braccia.
Come posso sentirlo?
Spalanco gli occhi e mi volto in fretta.
«Akashi …?» mormoro, cerco di dire qualcos'altro, ma le parole muoiono in gola. Come ha fatto ad entrare in casa mia? A dire il vero non mi importa, quello che ora attira la mia attenzione è il suo corpo nudo di fronte al mio, i suoi fianchi magri e la pelle pallida imperlata di piccole gocce trasparenti, il viso affilato carezzato dalle volute di vapore tiepido.
Akashi mi sorride e mi sfiora il viso con un tocco rapido e delicato delle dita, proprio come la prima volta che ci siamo incontrati.
Nel momento in cui le sue dita si scostano dalla mia guancia, un fiore di ciliegio cade ai nostri piedi, nell'acqua, vortica freneticamente e viene risucchiato quasi immediatamente dallo scarico.
«Chihiro, guardami.»
Sollevo lentamente lo sguardo e trattengo il respiro quando le sue dita mi sfiorano nuovamente la guancia, mi ritiro appena quando sento le sue labbra morbide posarsi sulle mie.
La doccia è stretta e io non posso scappare, e questo mi permette di fare due più due: perché respingerlo, se è proprio questo ciò che voglio? Per paura? Per questo strano sentimento che mi ha scacciato dalla realtà e mi ha esiliato in mondi di carta?
Gli accarezzo i fianchi con la punta delle dita, lo afferro per le anche e sento un fremito nel basso ventre non appena le sue labbra si schiudono contro le mie.
Ricordo i suoi occhi, il loro colore, la loro forma: sono proprio gli occhi del Diavolo, ormai ne sono certo.
Insinuo la punta della lingua fra le sue labbra, ma il gusto dolciastro e metallico del sangue mi fa indugiare.
Spalanco gli occhi, sento un bruciore lancinante al centro della schiena e stringo la presa. La presa sul nulla.
Spengo in fretta l'acqua e adagiò la schiena scottata alla parete fredda della doccia, in cerca di refrigerio; mi afferro il viso fra le mani, ansante, eccitato e nervoso.
Akashi non c'è, non è mai entrato nella mia doccia. Sono rimasto di nuovo solo.
Non posso provare qualcosa di simile per un personaggio che io stesso ho creato, tutto questo finirà per rovinarmi la vita. Dovrei distruggerlo.
   
 
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