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Autore: lulida    17/02/2015    4 recensioni
Coralline è cresciuta in una famiglia agiata, nella zona ricca di Manhattan, suo padre, uno degli avvocati più famosi di New York, discende dal conte di Essex, Thomas Cromwell.
La sua, una vita che poteva svolgersi solo in salita, eppure contrariamente a tutto ciò che era predestinato per lei, sceglie di abbandonare la casa paterna ed inseguire il sogno di divenire artista.
Dietro questa scelta, c'è un dolore che rifiuta d'accettare.
L'uomo che amava, l'ha ferita nel peggiore dei modi, tradendola con sua sorella.
Questo ha creato in Cora una sorta di rigetto verso gli affetti troppo profondi e un bisogno di tenere a debita distanza chiunque abbia il potere di farle battere il cuore.
Non le risulta un problema, fin quando non rientra nella sua vita, proprio l'uomo che l'ha distrutta.
Adesso Jared è un attore di successo e una rock star, è ricco, sempre bellissimo, forse più di allora e si diverte a provocarla, ma lei non è disposta a cadere nuovamente nella sua rete per niente al mondo e combatte strenuamente per non cedere, dando avvio a una serie di fraintendimenti, rivelazioni e bizzarre situazioni, che la costringeranno a prendere una decisone una volta per tutte.
Genere: Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Shannon Leto, Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Eccomi finalmente con un nuovo aggiornamento. 
Influenza, tecnologia avversa, impegni e pigrizia mi hanno tenuta lontana per un po'... ma ecco che sono riuscita a consegnarvi un'altra piccola parte di questa FF.
Prima di tutto voglio ringraziare una persona gentilissima che ho conosciuto per mezzo di questa storia e con la quale mi sono divertita a vaneggiare insieme :) Elena <3

                                                      


                          La sfida




A Shannon piaceva New York. 
Accusava il fascino insano del fisiologico squallore proprio dei suoi edifici che si manifestava con una coerenza impressionante in ogni singolo dettaglio.
A suo giudizio, rappresentava alla perfezione l'avamposto della cruda realtà, con tutte le rogne del caso.
Era un luogo dove c'era sempre una luce accesa da qualche parte e sempre qualcosa da fare, anche se non sempre questo qualcosa si poteva definire ‘legale’; una città che regalava una sferzata d'energia immediata, anche se poi, non faceva mai fare la somma di quanta in cambio ne togliesse; che gli sapeva dare la pacificante consapevolezza, d'essere nel posto giusto al momento giusto.
Rallentando il passo, con calma guardò la strada dinnanzi a sé seguendo mentalmente la precisa destinazione che aveva in testa; lo studio di Hirst non era lontano, ma le case universitarie intorno al Washington Square, di una democratica uguaglianza, rendevano abbastanza facile confondere i punti di riferimento e ci voleva un nulla per trovarsi da tutt'altra parte.
Lanciò la sigaretta facendola seguire dall'ultima boccata di fumo e diede un'occhiata a Cora che silenziosa camminava a suo fianco.
Più s'avvicinavano alla meta, e più lei si gonfiava d'orgoglio come un soldato pronto allo scontro.
Cos'era che cercava di combattere con quell'aria fissa, intenta e silenziosa? C'era davvero bisogno di dirlo?
La sua guerra personale aveva un nome, un cognome e una data di nascita che lui conosceva fin troppo bene.
Era soprattutto un rimpianto quello contro cui combatteva: l'amore che Jared le aveva negato, la forza che lei non aveva avuto, e la somma di ciò che non era riuscita a ottenere da suo fratello e da se stessa la vestiva di dignitosa ribellione.
Aveva seppellito ricordi importanti, coperto il fallimento sminuendolo, mettendo in luce solo le incapacità di Jay, le sue debolezze. Tutto questo, per non soffrirne la perdita.
Un giorno, con metodica consapevolezza, aveva deciso di non versare più una lacrima per lui e di chiudere per sempre.
Le donne erano fatte così... potevano occorrere mesi, anni, prima che arrivassero a tagliare fuori un uomo dalla propria vita, ma quando accadeva bastava un secondo per agire e passare dal pensiero ai fatti.
Se anche le avesse dato tutto a quel punto: amore, cuore, musica, anima, pazienza, Jared non sarebbe mai riuscito ad ammorbidirla, perché non sarebbe mai stato in grado di cambiare ciò che non voleva più essere cambiato.
«Dimmi che non hai intenzione di mantenere quell'espressione tutto il pomeriggio», le disse con tono leggermente seccato, come già intuisse la risposta.
Era abbastanza comune che tra due persone con molto da chiarire ci fosse uno scontro di personalità, ma tutto questo veniva amplificato in lei, assumendo l'aspetto esagerato di una tragedia senza soluzione.
Shan non aveva rimedi, solo una piccola idea che poteva rivelarsi il peggiore dei disastri o il migliore dei successi, questo dipendeva molto dalla fortuna.
Lei cercò un rifugio in un atteggiamento ironico che però non ne mascherò il disagio: «Non avevo voglia di venire, sei tu ad avermi costretta! E comunque non ho idea di quale espressione tu stia parlando», concluse rivolgendogli una smorfia.
Shannon sorrise e non rispose; temeva che se avesse detto qualunque cosa sarebbe finito con il ridere della sua posa da guerriera; alzò invece il volto al cielo per farsi accarezzare dai raggi del sole che riempirono i suoi occhi di bagliori luminosi, e lo stesso vento che si divertiva a spettinare i capelli di Cora, gli sferzò il viso.
Era il clima che amava: freddo e assolato.
Ci fu un attimo di stallo in cui godette dell'aria pungente, poi disse con un sorriso: «Sei una vera rompiscatole, sai?».
Le vide aggrottare la fronte a quella frase inaspettata e dopo un istante sgonfiarsi di tutto il nervosismo che l'aveva irrigidita fino ad un secondo prima.
Più passavano i minuti, meno a Shan sembrava possibile accettasse l'offerta che era intenzionato a farle.
Si trattava di trovare le parole giuste, quelle alle quali lei non avrebbe potuto dire di no e dopo, in qualche modo, avrebbe trovato i mezzi per arrivare dove voleva arrivare, ma quel primo scoglio lo metteva a disagio.
Non era mai stato particolarmente bravo a fare discorsi e di solito lasciava quel compito a Jared, che al contrario di lui, non aveva difficoltà o incertezze in proposito. 
Purtroppo però, spesso lo faceva anche a caso, e questo inalberava Cora immediatamente. 
Una sua battuta avrebbe fatto naufragare in un secondo qualsiasi possibilità di convincerla.
Si ritrovò involontariamente a storcere la bocca, perfettamente al corrente che delle volte suo fratello era davvero una testa di cavolo.
Era essenziale metterla nell'atteggiamento giusto prima che lo incontrasse e le guastasse l'umore.
Lo sguardo cambiò rotta e si posò sull'arco del Washington Park.
Il centro del piazzale con le siepi e i prati che aveva conosciuto nei giorni della sua adolescenza si estendeva davanti ai suoi occhi nella dolce luce del sole autunnale e, anche se non era proprio come sopravviveva nel suo ricordo, senza pensarci due volte prese la direzione dell'ingresso.
Lei lo osservò incuriosita ma non fiatò mentre lo seguiva, solo l'espressione mutò immediatamente trasformandosi in quella della ragazza più accondiscendente del mondo.
Fu lui a darle una spiegazione anche se non richiesta: «Volevo fare un giro prima di andare da Hirst».
Lei annuì con un cenno impercettibile e gli sorrise.
Oltrepassarono il grande arco in marmo bianco, circondato ai due lati dalla distesa dei sempre verde che preannunciava l’entrata e s'incamminarono lentamente in direzione della piazza.
Il peso e la tensione di cui spesso la città caricava, li abbandonò immediatamente e vennero colpiti dalla sensazione d'essere in una New York atemporale, immobile nella sua velocità.
«C'erano un mucchio di spacciatori in questo parco quando lo frequentavo io», disse quasi tra sé, osservando gli anziani che giocavano a scacchi e i bambini che correvano intorno la fontana.
«E tu li conoscevi tutti», rispose lei dopo una breve pausa di valutazione.
Si accomodò sulla fredda panchina in pietra arenaria e alleggerì lo sguardo eloquente con un sorriso. 
«Comunque da secoli, il parco è stato ripulito».
Lui rispose al sorriso.
«Sono indubbiamente vecchio».
Sospirò passandosi la mano dietro la nuca, e le sedette accanto.
«Piuttosto...» - buttò la frase con noncuranza - «Non te l'ho ancora domandato. Come ha accolto Oliver il tuo successo in campo artistico? È orgoglioso della tua esposizione?».
Non volle confessarle d'essere andato a trovarlo allo studio quella mattina. 
Preferiva rimanesse un piccolo segreto tra uomini, perché gli era parso d'intuire che Oliver gli avesse affidato un pezzo di cuore da custodire in quelle confidenze fatte.
«Sai com'è mio padre...».
Le parole uscirono dalle labbra di Cora amare e riluttanti.
Non parlava mai di Oliver se non in termini vaghi, e Shannon si domandava se quei silenzi nascondessero una nostalgia struggente, simile a quella che provava anche lui, che nei suoi racconti d'infanzia non parlava mai del padre o della sua completa assenza. 
«So com'è tuo padre» - rispose sorridendole amaramente - «ma so anche come sei tu».
Shan le aveva insegnato ad andare in bicicletta senza mani, a far volare gli aquiloni al Central Park, le aveva impartito le prime lezioni di guida, tutte cose che avrebbe dovuto fare con Oliver che invece non era mai presente nelle tappe fondamentali della figlia, e questo lei non glielo aveva mai perdonato.
Per non incontrare il suo sguardo, Cora lo posò in direzione di uno scoiattolo che si stava arrampicando sull'albero.
«Facile per te parlare. Non hai certo dovuto passare la vita a combattere contro le sue pretese e convivere con il fatto di non arrivare mai».
Come poteva darle torto? Ma come poteva darle ragione?
«Avessi avuto un padre, con o senza pretese nei miei confronti, di certo non avrei perso il mio tempo a combatterci», le disse guardandola con severità.
Lei restò in silenzio, consapevole di non esser sola nel suo carico di tristezza.
«Non intendevo... » - lo guardò - «Deve essere stata dura per te, Shannon».
Lui scrollò le spalle.
«È dura per tutti Cora» - si sporse in avanti e poggiò i gomiti sulle ginocchia - «Forse anche per tuo padre. Ci pensi mai?».
Una contrazione veloce del labbro si trasformò in una smorfia. 
«Indubbiamente gli ho reso le cose difficili. Non sono un risultato di cui va fiero».
Shannon le diede un colpo leggero con la spalla, e le accennò un sorriso come ulteriore patto d'amicizia: «Io sono fiero di te».
Ridacchiò a testa bassa: «Anch'io lo sono di te».
Lui guardò lontano, verso un orizzonte che non sembrava vedere.
«Ne so qualcosa di mandare all’aria destini già scritti e d'inseguire utopie, ma quando si intraprende quella strada, bisogna accettare che certe nostre scelte potrebbero venir meno alle aspettative degli altri. Quel che conta, è mantenere intatta la nostra anima e, prima o poi, chi ci ama capirà».
Lei rifletté per un momento e poi gli strinse delicatamente il palmo. 
Sorrise leggera, senza convinzione: «Mi auguro tu abbia ragione».
Le sembrò bellissima e sensibile, e ferita dalla pena che la coglieva quando temeva d'aver perduto qualcosa di molto caro. 
Distolse gli occhi dai suoi, e immediatamente dopo sentì il calore umido delle labbra di Cora sulla guancia.
Gli occhi tornarono su di lei, soffermandosi a studiarla e sembrò di vedere due volti: il primo ricordo che aveva della ragazzina, così come l'aveva conosciuta, e un secondo che si trovava in superficie, da donna. 
Non era la prima volta che succedeva. 
Durava per una frazione di secondo, ma abbastanza per lasciargli vivere l'esperienza un po' bizzarra del tempo annullato.
«Ehi, certo che ho ragione! Io ho sempre ragione. E per dimostrarti quanto credo in te» - fece una pausa nella quale colpì le ginocchia con i palmi, producendo un suono secco - «voglio commissionarti un dipinto».
Non reagì subito, rimase a guardarlo un attimo. 
Era la prima volta che Shan esprimeva il desiderio di avere un quadro dipinto da lei.
«La ragazza che sogna e ti assomiglia... l'ho visto in galleria», proseguì deciso spiazzandola.
La ragazza di cui stava parlando, dormiva in posizione fetale e aveva un demone che le volteggiava sopra con le braccia protese... sembrava volesse afferrarla dall'alto...
Adesso che Shan però le aveva fatto notare la somiglianza più o meno reale con se stessa, per associazione d'idee avrebbe potuto dire che il demone assomigliava a Jared.
Non era stato assolutamente voluto, era stato semplicemente il caso ad averle giocato un brutto scherzo quando lo aveva dipinto. 
«Non mi somiglia...» - rispose incerta. Poi aggiunse convinta - «Posso dartelo appena finisce l'esposizione. Non è stato venduto».
Alla luce degli ultimi fatti preferiva sbarazzarsene, e se questo rendeva felice Shan, meglio che mai.
Avrebbe dovuto aggirare i vincoli di vendita privata che le aveva imposto la galleria, ma non sarebbe stato difficile...
Lui però scosse la testa: «Voglio sia molto più grande».
Cora alzò un sopracciglio con sguardo interrogativo. Il quadro al Gladstone superava i due metri, non era affatto piccolo: «Quanto di più?».
Shannon fece un ampio gesto, allargando le braccia con disinvoltura, come immaginasse d'averlo davanti: «Tutta una parete. Si tratta di un regalo che vorrei fare a Natale», sembrava piuttosto compiaciuto all'idea.
Conosceva bene la generosità del suo amico, lei stessa era stata più di una volta beneficiaria dei suoi doni.
Prese tra le dita lo splendido ciondolo a forma di lacrima dal quale non si separava mai, e che le aveva regalato l'anno prima.
Niente di più normale quindi, che facesse le cose in grande.
Natale... fra sei settimane: «Ti rendi conto del lavoro impegnativo che mi chiedi con così poco preavviso?».
Era restia, ma non gli aveva detto immediatamente di no. Questo fece nascere dentro di lui la forza corroborante di un piccolo ottimismo.
Quando le parlò, la sua voce era provocazione mascherata d'innocenza: «Quindi è un sì?».
«Mi stai mettendo in seria difficoltà».
«Pensaci su. Hai tutto il tempo», le diede un buffetto sulla guancia e lei lo fissò con sguardo imbronciato, ma senza rimprovero.
«Non molto, a quanto sembra».
Chiuse la bocca in una piega indecisa: di solito si sarebbe informata sulla reale dimensione, sulla tecnica da usare, avrebbe contrattato il prezzo per essere certa che tutto fosse chiaro e trovarsi poi con pretese che non era in grado di soddisfare; ma Shannon era un caso speciale per un mucchio di ragioni. Era il suo più caro amico e qualunque condizione le avesse posto non avrebbe potuto negargli nulla. Lo sapeva lei e lo sapeva anche lui.
Un mese. Pochissimo, per un quadro che si prospettava dalle dimensioni enormi.
Shan le diede il colpo di grazia: «Ci terrei davvero molto».
Non che ne avesse intenzione, ma sarebbe stato difficile dirgli no e non sentirsi un verme dopo quella dichiarazione. 
Sospirò: «Non ti preoccupi nemmeno di domandarmi se ho altri impegni da rispettare, se ho altre commissioni».
Shan cercò di nascondere un mezzo sorriso: «Ne hai?».
«Mi sto quasi offendendo! Certo che ne ho. Devo consegnarne una tra una settimana».
Lui esibì un'espressione innocente, come si faceva davanti all'ovvio: «Posso aspettare sette giorni...».
Restò in silenzio e lui si rese conto che stava valutando l'opportunità... era già così difficile da convincere, e non conosceva ancora la parte peggiore dell'accordo.
«Sì o no?» - incalzò lui decidendo che era il momento di metterla alle strette - «Ti offro un lavoro e fai la preziosa!? Cos'è, sei diventata tanto famosa che non puoi degnarti d'accettare una commissione da un amico?».
«Non è vero» - rispose sentendosi rimproverata ingiustamente - «Sai benissimo che lo farò... è solo che mi piacerebbe avere maggiori ragguagli, oltre a lamentarmi del fatto che mi lasci davvero poco tempo per ciò che chiedi...».
«Hai detto un sì. Non fare storie».
«Quantomeno sulla dimensione vorresti non essere vago? Dovrebbe avere la misura di una parete modesta o di quella di un salotto? Varia molto, sai?»
«Ovvio che lo so! Diciamo sette metri».
Lo guardò inquieta: «Tu sei pazzo».
«Cinque?».
«Shannon ti prego, sii serio!».
«Ok. Quattro e non ne parliamo più».
Era la contrattazione più assurda che le fosse mai capitata. Ma di cosa si sorprendeva? Era con Shannon che stava parlando.
Prese il cellulare dalla borsa intenzionata a chiamare immediatamente il fornitore di tela e il falegname perché preparasse il telaio il prima possibile.
Lui la bloccò: «Tranquilla. Non dev'essere su tela».
Cadde per qualche istante il silenzio, una pausa durante la quale lo osservò: «Ok» - spense il cellulare e lo ripose, in attesa che l'amico si decidesse a darle spiegazioni - «Ti ascolto».
Ma lui non sembrava intenzionato ad articolare meglio il suo pensiero.
«Parliamone dopo con calma. Ti dirò bene cosa voglio ma non ora. Adesso godiamoci il parco ancora qualche minuto, e non preoccuparti troppo della data di consegna. Se ci vorrà più di un mese aspetterò. Non ti farò certo questioni per una o due settimane».
«Hai detto che è un regalo...», rispose dubbiosa.
Argomento delicato...
Cercò d'anticiparne la conclusione prima che lei arrivasse a intuire troppo, perché in quel teatro che era diventato la testa di Shan, gli atti dovevano susseguirsi in un ordine preciso d'informazioni centellinate.
«Andiamo ad ascoltare il tizio che sta suonando il pianoforte?», la esortò, sentendo nell'aria le note di una musica dolce.
Lo guardò come fosse matto, ma poi sospirò e si lasciò condurre in direzione della musica, un suono sommesso, una melodia ripetuta che cresceva e si addensava man mano che s'avvicinavano.
Sorrise osservando Shan che memorizzava l'esibizione sull'iPhone, così lontano da lei nella sua concentrazione e, anche se un poco le dispiaceva sembrasse tanto distante, lo trovò incredibilmente bello perso nella musica, in un potere d'attrazione che lo confinava nella solitudine più assoluta.
C'era in quel momento qualcosa di lui che le ricordava Jared, anche se i due erano lontani mille miglia l'uno dall'altro, sia come personalità che come aspetto fisico, e per un attimo si chiese, se in altro tempo senza che ci fosse stato Jay a ottenebrarle la mente e il cuore, fra lei e Shannon sarebbe potuto nascere qualcosa.
Preferì non dare una risposta inutile a una domanda altrettanto inutile e continuò semplicemente ad osservarlo, godendosi quel momento.
Si rese conto che lo stava guardando con aria affascinata solo quando lui si voltò verso di lei, e allora tentò di comporsi rapidamente, ma ormai l'aveva vista.
Le sorrise.
«Ho ancora l'abitudine di registrare e catalogare qualunque suono mi piaccia».
Dotato di una memoria musicale formidabile, bastava ascoltasse anche solo una volta la sonorità che aveva destato il suo interesse, perché riuscisse a riprodurla con la batteria senza alcuna difficoltà.
Suonare d'istinto, a orecchio, seguendo il ritmo del cuore, rimaneva ancora il suo metodo preferito per creare musica.
Soddisfatto della registrazione ottenuta, uscirono dal parco e si avviarono in direzione dello studio di Hirst.
In silenzio, assorbiti dai loro rispettivi pensieri, arrivarono all'incrocio nel quale confluivano le due arterie principali della città e dove, era ubicata la palazzina a due piani che l'artista utilizzava come studio. 
Immobile ai piedi dei gradini, Cora rimase qualche secondo assorta a guardare lo stabile tinteggiato di rosso veneziano e il portico bianco che aveva di fronte. 
Accigliata fece un sospiro di accettazione e Shan, che interpretò quell'indugio come un nuovo tentativo di fuga, le afferrò un polso per tirarla lungo le scale, fin davanti l'ingresso.
«Ci tratteniamo poco vero?», disse lei mentre l'amico premeva il campanello.
In risposta lui scrollò le spalle, per nulla scoraggiato dalla sua mancanza d'entusiasmo.
«A meno che non ti vada di rimanere».
Fece una pausa scrutandola.
«Temo sia impossibile che questa eventualità si realizzi. Ho promesso che ti avrei accompagnato, non che questo mi sarebbe piaciuto».
Lo guardò negli occhi finché lui alzò le braccia in segno di resa.
«Va bene ho capito» - disse strizzandole un occhio - «Non puoi rimproverarmi d'aver almeno tentato».
Cora girò la testa a guardare il traffico ancora incerto del primo pomeriggio. «Continua pure a tentare, ma senza di me».
Shan rise divertito, poggiando la spalla contro lo stipite del portone che in quello stesso lasso di tempo venne aperto. 
L'assistente di Hirst, un uomo orientale, magro, arcigno, stranamente alto per la sua etnia, guardò da prima Shan che riconobbe senza difficoltà, e l'attimo seguente posò gli occhi su Cora.
Si fece di lato perché entrassero.
«Il maestro vi attende».
Una volta varcata la soglia, prese in consegna i loro soprabiti e fu tutto.
L'accoglienza era stata quella che si trovava entrando in un congelatore ad alta pressione, dove un gelo invisibile penetrava a viva forza nei polmoni, e fece chiudere Cora nel guscio come un mitilo su cui veniva spremuto del limone.
L'assistente li guidò precedendoli in un lungo corridoio fino a raggiungere un unico passaggio blindato.
Nella parete di fronte a loro si trovava il boccaporto di una cassaforte della grandezza di una porta, con due volantini enormi che lo facevano somigliare al portello di un caveau di una banca.
L'assistente di Hirst lo spinse; doveva essere pesante, ma nonostante questo scivolò senza fare resistenza.
Appena ne varcarono la soglia si trovarono in una stanza bianca, asettica, essenziale.
Al centro, immersi in quel chiarore, circondati da opere d'arte, vide i profili opalescenti di Jared e Damien.
Lì davanti a loro Jay era tre persone in una.
Era l'uomo che Cora ancora detestava e la faceva rodere di un'ansia incapace di dominare.
Era il fratello che Shan adorava.
Era il grande attore, il cantante, la star internazionale al quale non veniva mai negato niente, neppure il tempo prezioso di Hirst.
Appena li vide entrare, ne divenne una quarta: era il bambino che voleva mostrare un gioco al quale desiderava ardentemente farli partecipare.
Fu quest'ultima persona che in uno slancio improvviso sorrise in loro direzione facendo segno perché si avvicinassero.
Cora emise un sospiro pesante e per un attimo lo fissò senza espressione o amicizia nello sguardo. 
Shan le bisbigliò all'orecchio: «Tranquilla. Per quanto tu sia appetitosa, non ti mangeranno».
Ma lei non ne era sicura.
La fiducia era un lusso che Cora, ne era convinta fin nel profondo del cuore, non poteva permettersi con Jay. Non in questo mondo.
Si sentì sezionata mentre percorrevano quei pochi passi che occorrevano a raggiungerli, e quando gli fu di fronte sorrise fredda in modo che quel sorriso non gli fosse d'incoraggiamento. 
«Alla fine siete venuti. Come è riuscito Shannon a trascinarti fin qui?», domandò lui.
«Mi ha lanciato una sfida», rispose di pessimo umore.
Jared rise senza spontaneità, lasciando che sulle labbra per qualche secondo continuasse ad aleggiare un sorriso ironico: «È ancora così facile menarti per il naso?».
«Solo per Shan», pronunciò guardandolo dritto negli occhi.
Jay continuò a sorridere, e convinto com'era che lo scherno parlasse per lui, diresse lo sguardo in direzione del fratello, senza dire nulla e senza più interesse.
Cora che aveva familiarità con quel continuo pendolo che in lui oscillava fra concedere attenzioni e noia, capì immediatamente che si era preso il vantaggio di mostrarle indifferenza. 
Era una sua tecnica ben collaudata per far sì che una donna si dannasse nel tentativo d'ottenere un briciolo d'interessamento da parte sua, e se anche Cora lo sapeva, ogni volta riusciva a farla sentire comunque come una bambina bisognosa d'approvazione. 
Vedeva la trappola, ma ci cadeva comunque.
«Bella maglia» - disse con sarcasmo - «Infestazioni di topi a casa tua?», aggiunse dando uno sguardo distratto alla sua blusa bucata.
Lui le rivolse un mezzo sorriso: «Oh... molte grazie. Anche tu sei estremamente elegante», rispose senza scomporsi.
Cora con una smorfia volse lo sguardo altrove, e ci fu un silenzio durante il quale gli occhi di lei si rifiutarono di incrociare quelli di Jared.
Per quanto però cercasse di mantenerli inespressivi, il suo linguaggio del corpo era palesemente sulla difensiva.
Lui le si avvicinò all'orecchio facendola trasalire: «Non mordo, Coralline» - disse piano - «Non c’è bisogno che fissi il muro per evitare il mio sguardo».
Il viso le prese fuoco.
«Fai meno il presuntuoso Jared», lo guardò con occhi socchiusi in modo minaccioso, e lui si limitò ad allargare il sorriso.
Cora fece velocemente un passo in avanti, ben decisa a non rivolgergli più la parola e diresse la sua attenzione su Shan che nel frattempo stava stringendo con forza la mano di Hirst. 
Quest'ultimo lo ricambiò con un tale vigore, che lei temette di riflesso per il suo palmo: se quando fosse stato il suo turno, il “maestro” glie l'avesse stretto con quella forza, c'era la seria possibilità glielo riducesse in briciole.
Sussultò quando sentì il braccio di Jared intorno la vita e, sulla sua pelle resa sensibile dal freddo, il calore di quel tocco fece raddrizzare i peli come aculei, ma sarebbe morta piuttosto che fargli capire che quel tocco le bruciava come un'ustione.
Lui l'attirò ancora più a sé, togliendola alla portata di Hirst che già protendeva la mano.
Lo guardò un'istante, sorpresa da quell'atteggiamento possessivo, ma per quanto nei suoi occhi sembrava ci fosse inquietudine, il suo tono fu disinvolto come sempre: «Damien, lei è l'artista di cui ti ho parlato. I suoi lavori erano in galleria. Ricordi?».
Cora non voleva e neppure poteva immaginare cosa si fossero detti Damien Hirst e Jared sul suo conto.
Il maestro la esaminò a fondo, con piglio autoritario, era basso ma si sentiva un gigante, il suo ego lo sollevava di parecchi centimetri da terra facendolo apparire esattamente quello che era: un piccoletto su un piedistallo già sgretolato.
Alla fine le sorrise, ma senza calore, e assomigliava più alla smorfia ironica di un alcolizzato.
«Ah, sì.» - le diede le spalle e con un gesto ampio della mano indicò le sue opere - «Che ne pensa, mia giovane artista?».
Era chiaro che lo studio era il suo santuario dove ricercava devozione. Privato, come i suoi conti in Svizzera.
Cora percepiva che avrebbe dovuto sentirsi onorata, che lui lo pretendeva, che probabilmente prima di lei, in molti lo erano stati, ma per quanto cercasse di scavare a fondo non sentiva assolutamente niente che potesse essere lontanamente interpretato come ammirazione.
Anche se qualcosa le diceva che il grande artista stava cercando di ammortizzare il suo debito nei riguardi di Jared concedendo attenzioni a lei, per educazione avrebbe dovuto pur dire una frase di circostanza. Frase che però non arrivava.
Ferma e silenziosa in mezzo la stanza bianca come la via lattea, era solo felice che Damien non vedesse la sua espressione confusa.
Guardò Jared di sbieco e lo intravide sorridere.
«Se non gli dici qualcosa tu, parlo io e non censuro quello che penso», bisbigliò, irritata da dover dipendere dal suo aiuto.
Il sorriso dell'uomo si allargò. 
Era divertito e non faceva niente per nasconderlo, poi lo vide trarre un ampio respiro come quando decideva di scendere in campo.
Nella concessione che le stava facendo, Cora era certa avesse giocato un pizzico di narcisismo.
Jared era pienamente consapevole delle sue capacità dialettiche, ne andava orgoglioso, e mostrare la sua abilità era un'occasione troppo ghiotta perché potesse rinunciare.
Su poche cose lei riteneva si potesse fare affidamento quando si trattava di lui: vanità e orgoglio.
«Damien le prime reazioni ai tuoi lavori sono il silenzio e la paura, per questo Cora tace. La stessa paura che è nemica della vita» - iniziò con calma, sicuro di sé - «Si può essere convinti di tante cose. Ma è solo quando ci troviamo davanti la morte che capiamo se le nostre certezze reggono davvero il confronto. La tua arte ha questo potere: è un inno alla vita per mezzo della sua assenza. Con una sola immagine scuoti qualunque verità e metti di fronte ognuno di noi alle proprie debolezze, più se ne è sconvolti più siamo fragili davanti l'inevitabile. Di fronte ai tuoi capolavori, sarebbe più giusto chiedere che cosa si pensa di noi stessi, perché è come guardarsi in uno specchio che proietta ciò che diventeremo senza appello».
Damien lo guardò soddisfatto, con un leggero sorriso che gli aleggiava sulle labbra: «Bravissimo Jared. Hai capito perfettamente, in pochi ci riescono», si voltò a contemplare le sue opere come se le vedesse anche lui per la prima volta.
Cora sgranò gli occhi incredula e faticò a trattenersi dal rimanere a bocca aperta.
Le stupidaggini che Jared propinava erano senza misura. Ammirò incondizionatamente la sua faccia di bronzo.
«Lodiamo le persone in proporzione alla stima che esse hanno per noi», non poté fare a meno di citare tra i denti. 
Jared le assestò una gomitata nelle costole, e le rivolse un'occhiata tanto significativa da indurla a tacere. 
Cora batté le ciglia con fare conciliante, anche se di fronte a persone piene di sé, e che godevano nell'essere ossequiati, lei si trasformava in un'altra, non resistendo alla tentazione di diventare cattiva. 
Non poteva farci niente, era più forte di lei.
Sorrise, in una generica dimostrazione di buona volontà quando Hirst si voltò nuovamente in loro direzione.
«Quindi anche lei è decisa a entrare in questo sporco e corrotto mondo artistico», le disse il maestro, incoraggiandola a parlare dei suoi interessi.
«Sono cresciuta circondata da opere d'arte, temo fosse inevitabile», disse con semplicità, annuendo leggermente con la testa.
«Il padre di Cora possiede molti dipinti antichi ereditati dai nonni», specificò Shannon.
Vide Hirst illuminarsi in volto: «Davvero? Adorerei poter dare un'occhiata».
Lei sorrise riluttante immaginando suo padre alle prese con Hirst, e probabilmente anche Jared seguì lo stesso filone di pensiero, perché sulle sue labbra apparve un sorriso mefistofelico.
«Lei ha un bell'accento europeo, signorina...?», continuò lui, notando probabilmente solo allora che non conosceva neppure il suo nome.
«Cromwell...», si presentò lei.
«Cromwell... Cromwell...» - rimasticò pensieroso - «Inglese se non sbaglio... c'era un Cromwell del XV secolo che guidò i puritani e la cui statua commemorativa si trova a Westminster...».
«Oliver Cromwell», assentì.
«Quindi è una nobile...».
Come ogni inglese, per quanto innovativo, sembrava particolarmente impressionato da qualcosa che Cora non viveva minimamente come un vanto.
«Sono newyorkese signor Hirst. Qua nessuno fa caso a queste cose».
«Oh, mi chiami Damien se le fa piacere».
Improvvisamente la trovava degna di chiamarlo per nome; era certa che se gli avesse detto chi era suo padre, l'avrebbe eletta amica del cuore.
«Signor Hirst va benissimo», rispose poco disponibile nei riguardi di una proposta che le appariva solo apparentemente sincera.
Lui rise: «Lei è una creatura interessante, signorina Cromwell... davvero particolare».
Jared sorrise attirandola a sé: «Non immagini quanto, Damien».
«È un complimento?», domandò lei dubbiosa.
«Certo che lo è. Il mondo è così pieno di persone facilmente prevedibili, che non vale la pena conoscere», le rispose il maestro.
«Lei non è all'altezza della sua fama signor Hirst, si dice nell'ambiente che sia una persona intrattabile».
Sogghignò divertito e suoi piccoli occhi divennero luminosi: «Oh... divento un vero adulatore quando incontro qualcuno che desta il mio interesse».
Cora si domandò cosa tra, i quadri antichi che appartenevano a suo padre, il suo pedigree, o la statua in bronzo a Westminster del suo avo, l'avesse improvvisamente resa tanto interessante ai suoi occhi.
Forse era stato l'insieme.
Non era la prima volta che accadeva che qualcuno cambiasse atteggiamento nei suoi confronti per quei motivi e, anche se ormai avrebbe dovuto esserci abituata, questo la infastidiva comunque.
«Lei ha un mercato nel mondo dell'arte signorina Cromwell... giovane, di talento, dalle nobili origini... sono cose che interessano il pubblico, dovrebbe sfruttare questo potenziale».
Un bagliore selvaggio tradì nervosismo negli occhi di Cora. Hirst stava veramente esagerando.
«Signor Hirst non ho fatto tanti sacrifici per usare scorciatoie. Se sono arrivata dove sono, lo devo solo a me stessa. Sono i miei quadri ad essere in vendita, non la mia persona».
Lui batté le mani, affatto impressionato: «Ho capito: deve dimostrare a se stessa che non è solo un inutile dignitario annoiato che si dedica all'arte».
Cora si sentì stringere ancora di più da Jared. La conosceva troppo bene perché ignorasse che non avrebbe lasciato impunita una frase del genere, e con tutto il corpo cercava di farla desistere.
Sospirò rassegnata: «Forse, dopotutto lei è davvero lo stronzo che tutti dicono!».
Lui rise: «Lei mi piace signorina Cromwell, mi piace davvero. Senza peli sulla lingua».
Diede una pacca sulla spalla a Jared e gli disse: «Non te la lasciar sfuggire, amico mio».
«Ha equivocato signor Hirst.» - disse lei indurita - «Tra me e Jared non c'è niente».
«Equivocato? Non direi. È abbastanza palese l'attrazione che c'è tra voi, e se non c'è davvero niente come lei afferma signorina, dovrebbe esserci!».
«Ti sbagli Damien» - rispose Jay sciogliendola dall'abbraccio e avvicinandosi all'artista - «La ragazza è davvero troppo complicata, e io ho bisogno di cose semplici. Non ho tempo per altro».
«Facili... volevi dire. L'espressione giusta è “donne facili”, non semplici. Bionde, oche e possibilmente minorenni», fu la risposta pronta di lei.
Shan aggrottò la fronte. 
Ohi, quello era l'equivalente di un colpo nelle palle.
Negli occhi di Jared apparve uno sguardo rude e la voce non mascherò un velo di nervosismo: «E comunque è già occupata con mio fratello».
Cora si risentì rapidamente di quell'insinuazione che non era la prima volta che veniva fuori. 
«Ancora con questa storia? Shan ed io, siamo solo amici. Che tu ci creda o meno».
«Come no!» - strinse le labbra, e fece quello sguardo che lei detestava, quello che propinava quando ascoltava solo se stesso e derideva tutti gli altri - «Anch'io ne ho parecchie di amiche così». 
L’ironia di Jared la mise a disagio. 
La sua voce poteva diventare fredda e tagliente quando voleva. 
Un tempo lei ne avrebbe avuto soggezione ma quel giorno la trovava solamente sgradevole.
Hirst intervenne a smorzare la tensione e disse rivolto all'amico: «Non sempre ciò che è adatto a noi e ciò che desideriamo sono la stessa cosa, fattelo dire da un esperto».
Ci fu lo spazio di un lungo silenzio in cui Jared portò uno sguardo indolente sull'artista. Finché concesse: «Possibile, ma l'opzione non è negoziabile quindi perché porsi il problema».
Alla fine Jared le rivolse un sorriso senza allegria, lanciandolo contro di lei come una sferzata, serio, quasi bruciante.
La sua arroganza fece scattare qualcosa in lei, un'irritazione che cercò di bloccare.
Decise di non raccogliere la provocazione e di non degnarlo neppure dell'occhiataccia con cui avrebbe voluto fulminarlo. 
«Vieni Jared» - disse Hirst - «Ho messo insieme delle stampe che potrebbero piacerti».
Jay annuì deciso, come gli avesse proposto qualcosa che non vedeva l'ora di fare, eppure continuava a fissarla in silenzio e a non muovere un passo.
Alla fine quando l'artista lo sospinse, si diresse con lui verso un espositore dove c'erano diverse litografie.
«Meno male che avevi detto che era cresciuto», disse Cora all'amico quando rimasero soli.
Shannon alzò le sopracciglia divertito: «Mai fatto il suo nome. Parlavamo di Hirst, ricordi?».
Jay e l'artista stavano discutendo dei pregi di una litografia.
«Da quando in qua ti appelli a cavilli?», disse lei leggendo con noncuranza il cartellino del prezzo che faceva capolino da sotto la stampa che Jared teneva sollevata. 
Dovette serrare le labbra per soffocare un sussulto.
Guardò l'amico con espressione interrogativa ma l'altro sollevò le spalle quasi con rassegnazione.
«Lo sai che è sempre stato un appassionato, e adesso che può investire dei soldi sta mettendo su una discreta collezione d'arte».
Lui per un attimo le rivolse uno sguardo concentrato, come cercasse di capire cosa ne stesse pensando e lei si affrettò ad alzare i palmi.
«Non è certo affar mio come spende i suoi soldi».
Shannon sorrise con calma: «In parte potrebbe esserlo».
«Non vedo come».
Lui schiarì la voce e le rughe leggere sulla fronte si approfondirono.
«Hai presente quel quadro su parete che ti ho commissionato?».
«Avevi detto grande quanto una parete, non che dovesse essere dipinto direttamente su un muro...».
Lui ridacchiò e scrollò le spalle come se volesse scusarsi e prenderla in giro allo stesso tempo. 
«Errore mio... ma anche tuo. Avevo precisato che la tela non ti sarebbe servita».
Una pioggia di piccoli dettagli trascurati caddero come lubrificante sugli ingranaggi che aveva in testa. 
«Non dirmi che è per lui».
Shannon sorrise confermando di fatto ciò che temeva e lei scosse la testa.
«Hai deliberatamente nascosto dei particolari che avrebbero potuto influenzare la decisione d'accettare o meno la tua offerta».
«Volevo parlartene con calma, non nascondertelo. So che non vai d'accordo con Jared e temevo che questo potesse condizionarti».
«Quindi dovrei dipingere un quadro su una parete a casa di tuo fratello?».
Annuì: «Esattamente».
Lei sospirò e con un gesto nervoso si mise una ciocca ribelle dietro l'orecchio.
«Shan non sono una bambina. Non hai bisogno di prepararmi a niente, ok? Smettila di essere iperprotettivo. Piuttosto dimmi come ha preso lui la notizia».
«Ancora non sa niente. Aspettavo di avere prima una tua conferma».
Cora fece un mezzo sorriso: «Quindi potrebbe anche rifiutare».
«Non contarci, adorava quel quadro. È stato ore a parlarne con Hirst».
Il viso di Cora divenne inespressivo, incolore: «Ma per quale motivo non posso dipingerlo su tela e poi spedirlo? Che differenza può fare per lui?».
Sospirò. In quale avventura stava per cacciarsi?
Abbandonare New York e andare a Los Angeles per dipingere la parete dell'uomo che detestava, che a suo tempo le aveva spezzato il cuore... con un'esposizione in corso al Gladstone, con l'agenda piena d'impegni, con interviste decisive per giornali del settore nelle prossime settimane. 
Improvvisamente serio, Shan assunse un'aria determinata: «Ti pagherò benissimo e sarà un enorme pubblicità per te».
Pubblicità? Non era solo quello il motore che in quel momento la stava spingendo ad accettare.
Erano la rabbia, le cose irrisolte, la sfida, le cose non dette, la ragazzina che a suo tempo non aveva saputo trattare Jared come si sarebbe meritato, le battaglie contro se stessa, i sensi di colpa, la curiosità, il denaro, la ricerca dei propri limiti, le occasioni e le opportunità perdute. 
Lì davanti a Shan, c'era un'altra Cora in quel momento.
Ripensò al suo passato, era una bambina a quel tempo e i bambini non affrontavano le cose, ma ora era una donna e questo le diede un enorme sicurezza.
Ora la situazione era diversa e avrebbe saputo tenergli testa. 
Per quanto avesse ragioni migliori di allora per cui sarebbe dovuta stare lontana da lui, la vita in quel momento le stava lanciando una sfida. 
Cora non era più una ragazzina innamorata, doveva scegliere se continuare a sfuggirlo e non affrontarlo o finalmente prendere in mano la situazione e dimostrargli che non le importava più nulla. 
«Affare fatto?», disse Shan afferrando il suo palmo con un sorrisetto impudente.
Alla fine, preferì non rispondere e gli strinse la mano.






   
 
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