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Autore: LeoValdez00    18/02/2015    8 recensioni
"Bianca era morta.
E con lei la sua vita"
"Ignorare i demoni, le paure, i sensi di colpa.
Vivere per gli altri, non per sé stessi"
Due ragazzi molto diversi, che forse riusciranno a ritrovare la voglia di vivere...
(ValdangeloFriendship AU College) (Solangelo e Lazel)
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Leo Valdez, Nico di Angelo
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nico fu il primo a mettere piede nell' aula di Anatomia.
Le luci erano ancora spente e non si vedeva nemmeno il professore.
Entrò guardandosi intorno, osservando le varie carte sulle pareti, e lasciò cadere lo zaino nell' ultimo banco, il più lontano dalla cattedra.
Tirò fuori un quadernetto e una matita, mordendosi nervosamente il labbro.
Era agitato.
Dopotutto era il primissimo giorno di università, non conosceva nessuno.
Ed era ancora scosso da quello stupido incubo.
Strinse i pugni, imponendosi di non pensarci, non era il momento.
Aprì di scatto il piccolo quaderno, scarabocchiando una piccola freccia al margine della prima pagina.
Quando stava ormai disegnando gli ultimi dettagli, si fermò di colpo.
Una freccia.
L' arma preferita di Bianca.
Bianca che non mancava mai la sua lezione settimanale di tiro con l’ arco.
Bianca che arrivava sempre prima nelle competizioni.
Bianca che aveva ricevuto il suo primo arco da lui, per un compleanno di molti anni prima.
Nico deglutì a fatica, la matita che sembrava essere diventata improvvisamente pesante tra le sue dita sottili.
Non doveva pensarci.
Non doveva pensare alla sorella.
Il ragazzo si asciugò frettolosamente una lacrima sfuggita al suo controllo, mentre sentiva la porta aprirsi e gli altri studenti entrare in aula.
***
Leo corse a perdifiato fino alla fermata dell' autobus, pregando ogni divinità che gli venisse in mente al momento di non perderlo.
Forse gli dei non erano così benevoli quella mattina, perché il ragazzo si ritrovò a imprecare in spagnolo contro gli autisti dei bus.
Dopo aver vagliato ogni possibilità, concordò con sé stesso che l' unica soluzione era farsela a piedi fino all' università, ben sapendo che sarebbe già stato un ottimo risultato se avesse incontrato il professore della prima ora.
Si infilò le cuffiette nelle orecchie e si strinse nel leggero giubbino da meccanico, iniziando a camminare a testa bassa verso la scuola.
"Non sono neanche arrivato all' università e già faccio dei casini..." borbottò fra sé e sé, ascoltando in sottofondo una canzone degli AC/DC.
Mentre camminava, giocherellava distrattamente con pezzo di fil di ferro, che, si accorse solo all' arrivo, era riuscito a far assomigliare ad una macchinina.

***
Nico stava abbozzando il disegno di un cuore, rifiniva il ventricolo destro, quando la porta dell' aula si spalancò rivelando un ragazzo trafelato che cercava di riprendere fiato come dopo una lunga corsa.
Il professore interruppe la sua spiegazione, voltandosi verso il nuovo arrivato con un cipiglio scocciato.
"E così anche lei ci degnerá della sua presenza oggi... signor?"
"Valdez" rispose lui battendosi nervosamente le dita sulla gamba, mentre faceva vagare lo sguardo sulla classe.
"Bene, si sieda pure signor Valdez, spero che la mia noiosa lezione non disturbi il suo riposo" disse acido il professore mentre, senza degnarlo di un' altra occhiata, tornava davanti alla lavagna.
Nico guardò distrattamente il ragazzo.
Era bassino, molto magro, la carnagione piuttosto scura e i capelli ricci sparsi disordinatamente sulla testa.
Teneva in mano qualcosa (fil di ferro?) e non riusciva a tener ferme le dita, che si muovevano freneticamente molti banchi davanti a lui.
Un piantagrane.
Un ragazzo come gli altri, un idiota che si sarebbe ben presto aggregato alla cricca dei popolari o a qualche altro gruppo.
Un ragazzo che alla fine sarebbe finito a prenderlo in giro assieme a tutti gli altri.
Nico scacciò questo pensiero con uno sbuffo e tornò ad ascoltare il professore che stava spiegando i funzionamento della valvola mitralica.
***
Leo tolse frettolosamente le cuffiette non appena si sedette nell’ unico banco libero, troppo vicino al professore per i suoi gusti.
Mise telefono e cuffie nello zaino, tirandone fuori un quadernino consunto già precedentemente usato da Beckendorf, il suo fratellastro, e l’ astuccio logoro.
Iniziò a prendere appunti sulla valvola mitralica, mentre con la mano sinistra continuava a giocherellare con il fil di ferro.
Alla quarta riga, si fermò di colpo.
“Arresto cardiaco”
Lo stesso arresto cardiaco che uccise sua madre.
Arresto cardiaco provocato dalle ferite dell’ incendio.
Leo strinse forte i pugni, e chiuse gli occhi.
Non doveva pensarci, stava seguendo il corso di medicina, avrebbe senz’ altro sentito più e più volte quel termine.
Non si poteva permettere di andare ne panico per così poco.
Riprese improvvisamente a scrivere, ignorando le fitte al cuore al solo ricordo del sorriso di Esperanza.
“Sorridi, idiota! E’ il primo giorno, non puoi fare così!” si disse il ragazzo, relegando in un angolo della sua mente i sensi di colpa, che sembravano sempre più prepotenti.
Non seppe come passò quell’ ora di lezione, ma prese il suono della campanella come un miracolo divino.
Mise velocemente nello zaino tutti i suoi miseri averi e cercò di farsi strada per uscire dall’ aula, andandosi a scontrare con un ragazzino, che gli rivolse un’ occhiata irata per poi dargli le spalle e andarsene.
Era quasi più basso di lui, estremamente pallido, i corti capelli neri e gli occhi scuri in netto contrasto con la carnagione chiarissima.
Era completamente vestito di nero e, da quel poco che aveva notato Leo, si era seduto in fondo alla classe senza parlare a nessuno.
No, quel ragazzino lì non era il tipo di gente con cui sperava di poter stare una volta iniziata l’ Università.

 

///


Nico aveva combattuto tutta l' estate per riuscire ad ottenere il permesso di aiutare in obitorio prima dell' inizio dell' Università.
Tutte le visite, il mostrare incessantemente il suo perfetto curriculum scolastico, non avevano sortito alcun effetto.
Fu solo quando suo padre scoprì dove andava tutti pomeriggi liberi delle vacanze e, senza nemmeno avvertirlo, chiamò l' obitorio, che Nico ottenne subito il permesso.
Odiava quando suo padre, Ade, alzava il telefono e otteneva tutto ciò che voleva.
Odiava che qualcuno facesse qualcosa per lui, al posto suo, quasi non fosse in grado.
Accettò comunque, benché infuriato con il padre.
Almeno aveva raggiunto il suo obbiettivo.
Dal 19 agosto, infatti, settimane prima dell' inizio dell' Università, passava ogni pomeriggio dalle due alle otto in obitorio.
La prima volta che ci mise piede, rabbrividì di fronte alle decine di corpi umani avvolte dai teli.
Non era tanto il ribrezzo per un corpo morto, quanto l' orribile rassomiglianza fra il pallore della loro pelle a confronto di quella di Bianca.
Quando Nico guardava il viso di quelle persone, gli sembrava che i loro tratti mutassero lentamente.
Che il loro viso assomigliasse sempre più a quello di una ragazzina, che spuntassero delle piccole efelidi attorno al naso e che avessero dei lunghi capelli corvini.
Il primo giorno all' obitorio, il ragazzo lo aveva passato a vomitare nel bagno, cercando di non piangere e non farsi prendere dal panico.
Di non ricordare quella notte dove il cuore di Bianca si era fermato, o del suo pallore quando, una volta in ospedale, i medici dissero che lei non ce l' aveva fatta.
Mentre lui aveva solo rimediato qualche graffio ed una ferita alla spalla, sua sorella era morta.
Il secondo giorno non migliorò, vedere quella pelle bianca, sentire la freddezza di quei corpi e la loro statuaria immobilità, lo mandava fuori di testa.
La voce dolce della sorella gli risuonava nella mente e ogni volta sentiva una stretta al cuore al pensiero del corpo gelido e diafano di Bianca, prima sul letto dell' ospedale, poi nella bara, il giorno del suo funerale.
Nico iniziò ad abituarsi lentamente a quel luogo di morte, quel luogo che, suo malgrado, continuava a ricordargli sua sorella.
Giorno dopo giorno, il viso di Bianca continuava ad aleggiare sui corpi dell' obitorio, ma il ragazzo resisteva e, sempre puntuale, si presentava per aiutare i medici.
Se dapprima questi lo consideravano un bambino che voleva giocare a fare il dottore, soprattutto dato il malessere dei primi giorni, iniziarono poi a considerarlo un valido aiuto, non appena indossò anche in quel frangente la maschera di indifferenza che lo accompagnava da anni.
Quando Nico entrava nell' enorme sala bianca, reprimeva qualsiasi emozione in un angolo della sua mente, si fingeva indifferente a tutto e a tutti.
Faceva solo il suo lavoro, tenendo il più lontano possibile il ricordo di quella sera in cui la sua vita era andata a pezzi.
La sera, quando tornava a casa, una volta accertatosi che la porta della propria camera fosse chiusa a chiave, affondava la testa nei cuscini e piangeva.
Per pochi minuti, permetteva alla sua parte umana, alla sua parte debole, di sfogarsi, di farsi sentire.
E allora consumava le sue lacrime, finché di lui non rimaneva che un involucro vuoto, quasi privo di emozioni, quasi privo di volontà.
Un involucro vuoto come il corpo di Bianca.
***
Quando avvertirono Leo di aver finalmente trovato i fondi per ricostruire l' officina della madre, lui giurò a sé stesso che non ci avrebbe mai più rimesso piede.
Che non si sarebbe nemmeno avvicinato.
E così aveva fatto, per mesi, tenendosi lontano da quel luogo infernale.
Solo quando, ai primi di luglio, scoprì che il luogo era stato rilevato da un vecchio amico della madre, Efesto, e che lo aveva chiamato "Esperanza" in onore della madre di Leo, lui si convinse almeno a vederlo da lontano.
Uscì di casa ben disposto, convincendosi che era passato troppo tempo, che ormai non gli avrebbe più fatto male.
Quando imboccò la stradina, la stessa stradina che aveva percorso per anni, la stessa stradina che percorse quella sera per tornare a casa senza la madre, si strinse nervosamente nel leggero giacchetto.
Benchè estate, aveva freddo, freddo nell' anima.
Si avviò tremante all' officina e quando scorse le lettere placcate di rosso dell' insegna, che riportavano solo il nome di Esperanza, dovette stringere le palpebre per non piangere.
Infilò la mano destra in tasca e rabbrividì quando sentì il freddo del metallo delle chiavi sulla pelle.
Mise a fatica la chiave nella toppa ed entrò dalla porta sul retro stringendo spasmodicamente i pugni.
L' officina era stata completamente ristrutturata, i muri erano stati ridipinti, gli utensili erano nuovi e brillanti, il luogo pulito e ordinato.
Ma la cosa che più stupì Leo, furono le foto appese.
Foto di Esperanza.
Alcune stentava a riconoscerle, ritraevano una bellissima ragazza, dalla pelle ambrata, bellissimi e lunghi capelli ricci e profondi occhi scuri.
Altre invece gli erano familiari.
Foto di sua madre come la ricordava, con il viso ancora sporco di olio per motori, le unghie annerite dal lavoro e la tuta da meccanico.
Alcune foto ritraevano anche lui.
Esperanza che teneva in braccio un bambino, Esperanza che lo accompagnava a scuola, che prendeva un gelato con lui, che lo abbracciava e lo baciava.
Leo chiuse gli occhi appoggiandosi al muro.
Foto che aveva gelosamente custodito dopo la sua morte, tutte riposte nel cassetto del comodino.
Non si chiese perché fossero appese o dove le avesse trovate il proprietario, l' unica cosa che sembrava esistere era il suo cuore che batteva dolorosamente nel petto, quasi cercando di fuggire da quel luogo che gli ricordava troppo Esperanza.
Così uscì di fretta, dimenticandosi fin di chiudere a chiave, e scappò correndo fino a casa, rosso in viso e ansimante.
Si chiuse in camera per due giorni,  nei quali non parlò a nessuno e non uscì quasi mai.
Si sedette a terra e tirò fuori dal comodino tutte le foto della madre, tutti quei ricordi che aveva rinchiuso nel cassetto per troppo tempo.
E allora, per la prima volta dal giorno dell' incendio, Leo pianse.
Pianse il suo dolore e i suoi sensi di colpa.
Pianse perché Esperanza non meritava di morire, perché ora non aveva più nessuno e perché, in fondo, la colpa della morte della madre, era solo sua.
Guardò e riguardò ogni singola foto, provando un bruciante dolore misto a nostalgia, che quasi lo fece disperare.
Ma non gli importava e lui continuava ad osservare il sorriso che illuminava il volto allegro della donna.
Un sorriso che gli mancava ormai più dell' aria.
Quando riuscì a ricordare a memoria ogni particolare di tutte le foto, chiuse gli occhi, ripromettendosi che sarebbe tornato all' officina.
E che ci avrebbe lavorato.
Per lei, per Esperanza.

 



#AngoloDiLeo
Uff... scrivere AU mi risulta davvero difficile, ma giuro che mi sto impegnando!
Ah, se non si fosse capito, la seconda parte è un flashback di quello che accade in estate...
E ora supplico i semidei che hanno letto questa storia di dirmi che ne pensate, perchè necessito del vostro parere e dei vostri consigli! <3
Spero di non aver deluso le vostre aspettative e spero di riuscire ad aggiornare in un tempo ragionevole.
Un bacio, LeoValdez00
 

   
 
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