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Autore: WhileMyGuitarGentlyWeeps    18/02/2015    2 recensioni
Joan Cameron si trasferisce a New York dopo aver capito che la vita che credeva perfetta era in realtà una gabbia dorata. Arriva al 4D in una fredda mattina di febbraio e la sua porta non si apre.
Accorre in suo aiuto, come un principe su un cavallo bianco, quello che sarà poi il suo vicino, aprendo la porta di casa sua. Lui di fiabesco non ha nulla. E’ un’anima tormentata, svuotata.
Da quel freddo giorno di febbraio le loro vite si incrociano e si scontrano in una danza in cui non ci sono né vincitori né vinti.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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XII


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XII


"I want to hide the truth
I want to shelter you
But with the beast inside
There’s nowhere we can hide"


Occhiali da sole e correttore.

…E un analgesico, magari due. Ecco cose le serviva.

Bere non era mai stata una soluzione, se non altro per le conseguenze. La testa le scoppiava, mentre si copriva con le coperte e il cuscino per impedire alla luce di arrivarle agli occhi.

Pessima idea ubriacarsi, con un mezzo sconosciuto, poi! Mezzo sconosciuto che ormai aveva lasciato il suo letto e la sua casa. Ricordava perfettamente ciò che era successo fino al terzo o quarto bicchiere, ma poi le parole si mischiavano nella testa.

Sbuffò cacciando fuori le gambe dalle coperte. Uscì da quel nascondiglio improvvisato rabbrividendo. Muovere le coperte aveva ravvivato il profumo di Cult che, durante la notte, si era annidato nel letto.

Bevve due tazze di caffè e si sentì subito meglio. Controllò anche il livido sulla gamba, che le faceva meno male rispetto agli altri giorni. Ormai era di un viola bluastro intenso. Il taglio lungo l’avambraccio si era rimarginato e ora ne rimaneva una cicatrice rosastra.

Si cacciò sotto la doccia. A mente fredda riuscì a ricostruire a grandi linee il discorso che aveva avuto con Cult nel letto.

Brent. Ma per lei sarebbe rimasto Cult, sempre e comunque. Si chiese che parte di sé le avesse mostrato la sera precedente? Cult lo scontroso o Brent il vicino premuroso? Possibile che due persone così diverse potessero albergare nella stessa persona, nella stessa anima?

Uscì dalla doccia avvolgendosi nell’asciugamano e tamponando i capelli. Era ora di prepararsi e non aveva più tempo per pensare a Cult o al suo mal di testa. Ogni volta che si preparava e andava allo studio le tornava in mente che quelli erano gli ultimi giorni di lavoro, poi dimenticava il piccolo dettaglio che riguardava la sua futura disoccupazione, dettaglio che le tornava alla mente quando rientrava a casa.
 

“Ma dov’eri ieri sera? Ti ho chiamato mille volte”.

Steve si stava servendo del caffè mentre Cult si accendeva una sigaretta.

“Non avevo il telefono con me. Avevi bisogno?”

“Sì, uno dei buttafuori si è ammalato e speravo potessi aiutarmi”.

“Questa sera ci sono, non preoccuparti”.

Rilasciò il fumo bianco nell’aria, guardando oltre la finestra.

“Sì, ma non mi hai detto dov’eri…”

“In giro, Steve, ero in giro…”

Steve non era del tutto convinto.

“Eri dal Vecchio? Sai che non serve che racconti palle. Quello non mi piace, ma la vita è tua e fai ciò che vuoi”.

Cult si voltò, innervosito.

“Non ero col Vecchio, Steve. Ero in giro, ok? Solo in giro”.

“Ehi, rilassati amico. Era solo per chiedere…Mi preoccupo per te perché sei come un fratello”.

Lo sapeva. Lo sapeva bene. Anche per lui  Steve era come un fratello. E’ che non si sentiva a suo agio a parlare della notte precedente. Per assurdo gli riusciva più facile parlare delle ragazze che si era portato a letto, o delle posizioni sessuali che amava sperimentare con Melody.

“Ero con Joan, ok?!”

Steve sembrò illuminarsi, subito interessato.

Gli raccontò a grandi linee della litigata tra Joan e David e della presenza della madre.

“…E quindi poi abbiamo parlato e lei continuava a bere. Cavolo sembra tanto minutina ma regge l’alcool  meglio di quanto pensassi…”

“E…”

“E niente, Steve, lei era ubriaca e farfugliava”.

“Non ti sarai approfittato di lei mentre era incapace di intendere e volere?!”

“Devi smetterla di guardare Law and Order come una casalinga disperata!” Lo prese in giro Cult, ma poi tornò serio. “No che non mi sono approfittato di lei! Per chi mi hai preso?!”

Steve sorrise come un bambino il giorno di Natale.

“Mi ha chiesto di restare e ho dormito da lei. Solo dormito!” Precisò, gettando la sigaretta.

“Ma allora il ghiaccio intorno al tuo cuore si sta sciogliendo. I miracoli esistono!”

Cult gli tirò una pacca sulla spalla.

“Smettila di dire stronzate e non farti strani film!”

“Oh, non fare questo gioco con me! Joan piace anche a te!”

“..Come ti pare, pensa ciò che vuoi, ma non metterle in testa strane idee”.

Steve si chiuse nelle spalle con fare innocente. Che Joan gli avesse accennato qualcosa del loro discorso?!

“Dovresti lasciarti un po’ andare…”

“Ma lasciarmi andare a cosa, Steve?! Dovrei svegliarmi un giorno e rendermi conto che sono innamorato e che voglio una casa con giardino e una staccionata bianca?”

“Dio santo, Cult, devi sempre estremizzare tutto?”

Pensò che davvero lui e Joan erano più simili di quanto entrambi realizzassero.

Cult scosse la testa, violentemente.

“Lo so che mi vuoi bene e che Joan ti piace, ma tra me e lei non succederà mai niente. Punto e chiuso il discorso”.

“Come vuoi, ma non dovresti precluderti la possibilità di essere felice per chissà poi quale motivo…”

“Certe persone sono fare per avere una famiglia, altre per stare sole, come me”.

“Devo stare solo, sono un’anima tormentata…Bla, bla, bla…Sempre la stessa storia…”

Cult gli dava nuovamente le spalle. Ma Steve non gliel’avrebbe data vinta, non quella volta. Lo afferrò per le spalle costringendolo a girarsi.

“Senti, io non so cosa sia successo in Afghanistan, e ti risparmio il ‘tu non sai cosa voglia dire’ perché, no, non lo so. Ma so cosa vuol dire soffrire”. Lo guardava negli occhi. “Ti voglio bene e non voglio vederti soffrire, voglio che tu abbia la tua possibilità e non so se Joan può essere le tua possibilità, ma lei è capace di smuoverti come nessun’altra, quindi evita di fare lo stronzo con lei”.

“Devo andare, Steve, hai finito con la ramanzina?”

“Sì, ho finito. Tanto sei la persona più testarda che conosco, quindi non ci perdo più tempo. Ora vado a prendere mio figlio”. Gli puntò contro l’indice. “Ti aspetto questa sera. Vedi di non darmi buca!”

 
“Oh, Joan! Ciao!”

“Ciao, Steve. Come va?” Chiuse velocemente la porta, avviandosi verso le scale a passo andante con l’unico scopo di evitare Cult in ogni modo possibile. Si sentiva terribilmente in imbarazzo ed era sicura che non si sarebbe mai più ubriacata in vita sua.

“Bene, ma perché corri in questo modo?” Steve la seguiva a passo normale, avendo le gambe di almeno dieci centimetri più lunghe.

“Correndo? Ma no…E’ che sono un po’ in ritardo…Tu che ci fai qui a quest’ora, piuttosto?”

“Torno dal locale, dovevo vedere Cult”.

Il solo nome di Cult la fece sobbalzare. E se per caso gli aveva detto qualcosa della notte precedente?! Oddio che imbarazzo!

Arrossì impercettibilmente, ma fortunatamente erano ormai in strada e l’aria fredda  l’aiutava.

“Scusa ora devo scappare, vado in studio in metro e sono in ritardo”.

“Ti do un passaggio, ho la macchina dall’altra parte dello strada”. Disse gentilmente indicando l’auto poco distante.

Ecco, ci mancava solo il tragitto con Steve che probabilmente avrebbe volentieri appeso degli striscioni colorati dopo aver saputo della notte passata. Oddio, detta così sembrava che fosse successo chissà cosa…

New York le avrebbe provocato una nevrosi, di quelle serie, descritte da Freud, con tanto di crisi ad arco.

D’altro canto rifiutare una proposta tanto gentile, che per di più le avrebbe evitato la ressa della metro, sembrava definitivamente fuori luogo.

“Certo, sei molto gentile”.

La scortò alla macchina , aprendole gentilmente la portiera.

“Dunque, come va la vita?” Chiese mentre inseriva la prima per uscire dal parcheggio.

“A fare il vago sei pessimo, Steve. Cosa vuoi sapere?”

Alzò un sopracciglio, mentre Steve la guardava con una strana espressione, a metà tra il finto indignato –un finto da pessimo attore- e il celato curioso -celato in maniera terribile.

“Mi offende la tua insinuazione”.

Era serio, ma gli occhi sorridevano.

“Domande dirette, Steve! Domande dirette perché abbiamo poco tempo!”

Picchiettò sull’orologio con aria di superiorità, ma le labbra erano aperte in un largo sorriso.

“Ok, Cult mi ha raccontato, ma ha sminuito la cosa, come suo solito”.

Quell’affermazione la colpì. Ha sminuito la cosa. Ma certo, cosa si aspettava, fiori e cioccolatini? Si sforzò di tornare a sorridere.

“Non c’è nulla da sminuire, perché non è successo nulla”.

Steve lanciava uno sguardo a lei e uno alla strada, piuttosto trafficata data l’ora.

“Ecco accosta lì avanti, sono arrivata”. Indicò il marciapiede.

“Io e te non abbiamo ancora finito il discorso!”

Joan scese dall’auto, ma si fermò e gli fece segno di abbassare il finestrino.

“Ho avuto una brutta serata e non mi andava di stare sola. Ed ero piuttosto brilla. Tutto qui”. Sospirò. “Cult non è alla ricerca dell’amore e io al momento ho altro a cui pensare…”

“Uffa, siete impossibili! Vieni al locale questa sera?”

La fissava con gli occhi grandi e belli.

“Contaci. Mandami l’indirizzo per messaggio”. Si voltò per entrare nel palazzo. “E grazie del passaggio!”
 

Si era cambiata in fretta e furia, sostituendo ai pantaloni eleganti un paio di jeans. Abbottonò la camicetta e ci mise sopra il cappotto. Indosso un paio di stivali bassi e perse almeno venti minuti alla ricerca delle chiavi della macchina, che erano finite chissà dove.

Sperava seriamente che non fosse un locale troppo elegante. Steve non l’aveva specificato e lei non gliel’aveva chiesto.

Le trovò nella borsa, proprio mentre qualcuno bussò rumorosamente alla porta. Solo una persona bussava invece di usare l’apposito campanello.

“Noto che non sei ancora entrato nel mondo civilizzato imparando ad usare il campanello”.

Cult sbuffò noncurante, la sigaretta cacciata tra le labbra.

“Lo sai che è vietato fumare nel palazzo, vero?”

“E credi che la cosa mi interessi perché…”

Joan fece roteare gli occhi. Se non avesse studiato la sindrome della personalità multipla avrebbe giurato che lui ne soffrisse. Invece non presentava alcun sintomo.

“E tu saresti qui perché…”

Gli fece il verso facendolo sogghignare.

“Steve mi ha detto di darti uno strappo dato che vai al locale”. Noncurante, quasi scocciato.

“Ah, sì bè immagino sia logisticamente una buona idea”. Disse sovrappensiero con Cult appoggiato allo stipite.

Rimase a guardarlo per un po’. Indossava una camicia  bianca, infilata solo per metà nei jeans  neri. Reggeva la giacca di pelle sulla spalla, tenuta con due dita. Era indubbiamente bello, e affascinante.

“Ragazzina, hai intenzione di fissarmi ancora per molto? Sai io dovrei andare…”

“Sì, scusa, stavo solo pensando…”

Scacciò chissà cosa con una mano mentre con l’altra spegneva la luce e chiudeva la porta.

L’aria era fredda e tagliente. Si chiese come facesse Cult a restare solo in camicia. L’auto era coperta da un sottile strato di brina e la notte iniziava a farsi spazio nella
città, illuminata dalle luci dei palazzi, che imponenti si stagliavano nel cielo.

Joan rabbrividì entrando in auto, sfregandosi le mani tra loro e cacciandosele nelle tasche della giacca. Cult non appena accese l’auto, ancora prima di inserire la retromarcia per uscire dal parcheggio, accese l’aria calda dirigendo il bocchettone verso di lei. Fu inondata dall’aria calda e rigenerante.

“Grazie”.

Si limitò ad alzare le spalle.

Premuroso e scostante.

Il tragitto fu silenzioso, ma non era uno di quei silenzi imbarazzanti in cui nessuno sa cosa dire. Joan si lasciò scorrere la città sotto gli occhi. La città che non dorme mai. Sembrava vero. Le luci ovunque, la gente per strada nonostante l’ora…Era meraviglioso.

Passarono davanti a Times Square. Luminosa, affollata, bellissima. Le piaceva New York. Bè, l’aveva sempre affascinata molto, ma si sa, vedere una città come turista non ha nulla a che vedere col viverci. Eppure quella era ormai casa.

Non era passato molto da quando aveva lasciato la sicurezza di Washington per la folle New York.

E non era pentita. Per niente. Era difficile e lo sarebbe stato ancora di più una volta senza lavoro, ma si conosceva bene e sapeva che nemmeno quello l’avrebbe abbattuta. Si sarebbe rimboccata le maniche, come sempre e avrebbe tirato avanti.

Cult la guardava di sottecchi, sapendo che era troppo assorta per notarlo. Era tutta presa da chissà quale pensiero. La ammirava, ma forse non gliel’avrebbe detto, in fondo a lei cosa poteva importare del suo giudizio?

La prima volta che l’aveva vista, fuori da quella porta, innervosita e sarcastica, pensava fosse solo l’ennesima ragazzina viziata che viene a New York  per cambiare vita e poi scappa poco dopo. Ma si sbagliava.

Joan era forte e coraggiosa, una che aiuta uno sconosciuto ferito. Gli faceva male vedere quegli occhi spegnersi leggermente quando la trattava con indifferenza, come sulla porta pochi minuti prima.

Avrebbe voluto essere in grado di darle di più, ma forse non ce l’avrebbe fatta. Portava dentro molte ferite. Quelle sul corpo erano guarite, ormai erano solo cicatrici, ma quelle interiori, quelle incise nell’anima se ne vanno raramente.

“Siamo arrivati”.

Parcheggiò in una piccola piazzola, davanti ad un locale che probabilmente una volta era una fabbrica. Il Morning Glory.

A Joan si illuminarono gli occhi.

“Morning glory”. Sussurrò. “Come la…”

“Sì, come la canzone degli Oasis, ragazzina”.

Cult sembrò leggerle i pensieri.

“Steve è fissato con gli Oasis”. Spiegò alzando le spalle e attraversando la strada per raggiungere il locale. Entrarono da una porta secondaria.


Il locale era bello, ampio e la musica non era la classica musica da locale. Si succedevano diverse canzoni di generi differenti, in modo da accontentare tutti.

Steve se ne stava dietro il bancone, un ciuffo di capelli che gli cadeva sulla fronte. Stava servendo una birra a un ragazzo e sorrise quando notò Joan e Cult.

Cult si servì da solo, sorseggiando una birra.

“Non sei qui per bere, fila a lavorare!” Steve lo spinse via, oltre il bancone, mentre fece accomodare Joan.

“Cosa ti posso offrire? Una birra magari…”

Joan storse il naso. “La birra non mi piace, ma se sai fare il cosmopolitan…”

“Se so fare il cosmopolitan?! E’ uno dei miei cavalli di battaglia”.

Rise mentre preparava il cocktail.  Cult era ormai chissà dove.

“Mi piace qui, è davvero bello! …E ottimo nome, adoro gli Oasis!”

“Grazie, mi fa piacere che ti piaccia. L’ho aperto con parte di un’eredità e con un po’ di risparmi…Il nome ce l’ho sempre avuto in testa…” Stava completando il cocktail.

“Ecco qui il miglior cosmopolitan che tu abbia mai provato”.

“Questo lascialo decidere a me!” Disse con aria superiore che, però, celava un sorriso.

Era decisamente buono. Uno dei migliori drink che avesse mai bevuto.

“Noi abbiamo ancora un discorso in sospeso, Joan. Non pensare che me ne sia dimenticato”.

Nel frattempo preparava altri cocktail che gli aveva richiesto una cameriera per dei clienti.

“Steve, non c’è nient’altro da dire. Per favore, non mi va di parlarne”.

Il ragazzo la guardò con quegli occhi chiari e limpidi, così simili e così diversi da quelli di Cult.

Joan gli prese la mano, non più impegnata dalle bottiglie di alcolici.  

“Steve, tu mi piaci, davvero! Sei un bravo ragazzo e nonostante ti conosca da poco so di potermi fidare di te. Ma non voglio parlarne. Preferisco archiviare il fatto e andare oltre e detto da una che per lavoro analizza ogni fatto e ogni parola è un po’ un eufemismo, ma non voglio dare troppo peso alla faccenda”.

Il ragazzo la capì. Avrebbe voluto vedere quei due testardi insieme, felici, perché Cult era un fratello e Joan gli piaceva, tanto.

“Anche tu piaci a me, J.” Le sorrise sincero. “Faccenda chiusa. Ci metto una pietra sopra. Promesso”.

Aveva una mano sotto a quella di lei e l’altra sul cuore.  Lo ringraziò silenziosamente, con lo sguardo, con un sorriso. Gli lasciò andare la mano, così che potesse tornare al lavoro.

D’un tratto Steve sorrise guardando oltre la sua spalla sinistra. D’istinto si voltò anche lei.

Alison si stava avvicinando a passo deciso e con un grande sorriso sulle labbra. I capelli chiari erano legati in una coda bassa, da cui sfuggivano alcune ciocche più corte che le sfioravano delicatamente una guancia.

Era veramente bella. Non ci si poteva stupire nel vedere un bambino bello come Austin quando si conoscevano i genitori.

“Ciao, Joan! Steve non mi aveva detto che ci saresti stata anche tu! Che bello!” 

Le baciò una guancia quasi la conoscesse da anni e salutò allo stesso modo anche Steve. Accanto a lei c’era un uomo alto, magro, i capelli biondi corti e gli occhi scuri. Aveva un bel viso e l’aria da bravo ragazzo. Totalmente diverso da Steve, fisicamente almeno.

“Lui è il mio fidanzato, Blake”.

Il ragazzo le tese la mano, sorridente.

“Joan”.

“Oh, lo so. Alison non fa altro che parlare di te da quando ti ha conosciuto, dice che lei sei stata simpatica a pelle e che finalmente ha qualcuno con cui passare il tempo”.

Alison gli diede un colpetto al braccio, affettuoso, un gesto intimo, dolce.

“Senti sono stufa di serate con soli uomini, avessi avuto almeno una figlia avrei avuto qualcuno con cui parlare di cose da donne”.

Aveva la faccia triste, ma si vedeva che fingeva.

“Tranquilla, tra un po’ sarò senza lavoro quindi potrò dedicarti tutto il tempo che vuoi”.

Gli occhi le si illuminarono come quelli di una bambina il giorno di Natale.

“Un giorno allora dobbiamo fare shopping!”

“Tutto lo shopping che vuoi! Ma dimmi, lo gnomo dove l’hai lasciato?”

“Dalla nonna, mia madre. Lei lo adora, ogni volta che glielo lascio fa i salti di gioia anche se arriva alla fine della serata stremata”.

Rise di gusto, mentre Blake e Steve parlottavano li di fianco. Sembravano seriamente amici. Era bello vederli così uniti.

Alison vide una vecchia compagna del liceo e si allontanò un attimo per salutarla. Steve era impegnato con dei clienti e Blake si guardava intorno, forse un po’ imbarazzato mentre sorseggiava una birra.

“Blake è un nome interessante, molto particolare”.

Lui le rivolse la sua attenzione. “Mia madre adorava William Blake, ma William le sembrava troppo banale, così optò per Blake”.

“Anche a me piace molto Blake, ricordo ancora quando lo studiai al liceo. Fu amore a prima vista”.

“Bè anche tu hai un nome non indifferente. Joan come Joan of Arc”.

La ragazza annuì. “A mia madre piaceva l’idea di darmi il nome di una donna forte, coraggiosa. Era indecisa tra Elizabeth e Joan…Ma ha vinto quella con problemi mentali”.

Il ragazzo rise di gusto, proprio mente Alison li raggiungeva.

“Vedi che ha conquistato anche te! Te l’avevo detto che era simpatica!”

“Sì, Ali, avevi ragione!”.

Continuarono a parlare e ridere del più e del meno per tre ore, quasi fossero amici di vecchia data che non si vedevano da tempo.

Steve appena poteva si univa a loro, mentre Cult si era fatto vedere giusto un paio di volte, ignorandoli.

Le lanciava qualche sguardo di tanto in tanto, dall’entrata del locale che stava sorvegliando.

Joan era al terzo cosmopolitan e la testa si era fatta un po’ pesante, forse perché aveva mangiato solo un panino mentre era in metro per tornare a casa. Le tornò alla mente la notte precedente. Cult nel suo letto. Il suo corpo caldo. Gli occhi lucidi. E poi niente. L’indifferenza.

Cult entrò per bere un sorso di birra. Le lanciò un’occhiata dopo aver visto il bicchiere mezzo vuoto, accostato ad altri due già svuotati. Quell’occhiata non le piacque per niente, cosa volava insinuare, cosa voleva dire?

Cult si allontanò, di nuovo. Joan si rese conto che non voleva che quella faccenda finisse sepolta chissà dove. Buttò giù l’ultimo sorso del cocktail e si alzò, senza dire nulla.
 
Salve! :)
Ebbene sì, sono stata posseduta dal demone della pubblicazione e quindi...Due capitoli in una settimana, cose mai viste!
In compenso non sono per nulla logorroica, quindi non so cos'altro aggiungere...Che tristezza infinita!
I commenti sono come sempre ben accetti, abbiate pietà di me, di Joan, di Cult e pure di Steve che è taaanto dolce.
A presto! 
xx

 
  
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