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Autore: Alex Wolf    18/02/2015    2 recensioni
Storia prima denominata "La frusta dell'esorcista."
Dal capitolo 7°.
«Siete spregevole!» La mano di Thierry sfiorò la mia guancia, prima che la mia stessa Innocence gli imprigionasse il polso in una morsa ferrea. Riuscii a vedere il mio riflesso nei suoi occhi sorpresi, spaventati: una macchina assassina che non prova pietà per nessuno, neppure per coloro che combattono nella sua stessa fazione.
«Sono un diavolo, scelto da Dio ma pur sempre un diavolo, e in quanto tale è nella mia natura essere spregevole» sibilai, strattonandolo da una parte. Il corpo dell’uomo volò attraverso la foschia, tagliando la nebbia e creandovi un corridoio che si andò a riempire qualche minuto dopo il suo passaggio; dopo di che, atterrò sotto l’albero del Generale. Richiamai a me l’innocence, tornando a vedere a colori abitudinari e sistemai entrambe le braccia sui fianchi. Gli puntai un dito contro, affilando lo sguardo quasi a volerlo tagliare. «Prova a sfiorarmi ancora e la tua vita finirà in quell’istante.»
Genere: Generale, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Allen Walker, Nuovo personaggio, Rabi/Lavi, Un po' tutti, Yu Kanda
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 10.



L’esorcista fatta di tenebre.




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 “Perchè tutti mentono. Si dice solo una parte della storia, e per esperienza ho imparato che la parte tralasciata è spesso la più importante.”
 
— "Vicino a te non ho paura" - Nicholas Sparks
 


«Come sarebbe a dire che sono tutti… morti?» La voce era quella di un giovane ragazzo, incrinata dal dolore. Non l’avrei confusa con nessun’altra al mondo, ne ero sicura. Il suo timbro limpido e alto erano come un marchio di fabbrica pe le mie orecchie, e così sarebbe sempre stato. Ne ero certa.
Con un po’ di timore sbirciai dalla serratura, strizzando l’occhio il più possibile per osservare al meglio. Eccolo li. In piedi di fronte alla scrivani di Komui, ingombra di scartoffie come sempre, stava un giovane ragazzo dalla pelle pallida e i capelli color della pece brillanti di sfumature bluastre sotto la luce dei neon. Era alto, una figura che di certo non passava inosservata. Non ai miei occhi.
Strinse i pugni, lui, per poi rilassare i muscoli tesi. Non riuscivo a vedergli bene il viso, i capelli erano troppo lunghi e gettavano sui suoi lineamenti ombre scure. Avrei dovuto dirgli di farseli tagliare dalla nonna, e magari l’avrei fatto. Oppure, più semplicemente, avrei accidentalmente fatto cadere dalla finestra della mia stanza un biglietto nel momento in cui lui sarebbe uscito, così da fargli sapere che in realtà io esistevo ancora. Che non ero scomparsa.
«Mi dispiace, Marco. Non abbiamo potuto impedirlo.» Komui si alzò, girò attorno alla scrivania e gli posò una mano sulla spalla. Il ragazzo s’irrigidì, prima di scivolare a terra con le ginocchia e piegarsi su se stesso battendo i pugni contro il pavimento. Le sue spalle erano scosse da tremiti, veloci e rumori singhiozzi.
«Se solo fossi stato io il compatibile! Se solo fossi stato io!» continuava a ripetere, ignorando i tentativi di Komui di farlo alzare. «SE SOLO FOSSE TOCCATO A ME, QUELLA VOLTA!»
 
Continuavo a domandarmi il significato di quella frase. A volte credevo che quell’immagine dipinta nei miei pensieri fosse solo un ricordo vago, che le cose non erano mai andate così, eppure sapevo che non c’era altra spiegazione per tutto quello. Lui c’era stato all’Ordine quel giorno, Komui gli aveva dovuto rivelare una mezza bugia e poi Marco se n’era andato. Era Scomparso dalla mia vista, dalla mia vita per sempre. Neppure fosse stato un fantasma o  una qualche specie di amico immaginario. E io soffrivo. Soffrivo ogni giorno di più conscia di conoscere ogni cosa che lo riguardava, mentre a lui di me non restavo altro che un ricordo, ormai, sicuramente sbiadito.
Chissà se gli era mai apparso il Conte, dopo che aveva saputo di “noi”?, mi trovavo a chiedermi questa volta. Come avrebbe reagito se fosse accaduto davvero? Chissà se avrebbe reagito?
Continuavo a domandarmi il significato di quella frase anche adesso che gli akuma volavo attorno a noi, in un cerchio talmente stretto da farmi mancare l’ossigeno. L’aria attorno a noi era satura del gas dei Livello uno, del loro sangue che mi macchiava i vestiti e la pelle del viso. E io bruciavo. Dio, quanto bruciavo. Sentivo il veleno passare fra i pori e insediarsi nella carne, per poi venire espulso con facilità. Questa era la cosa positiva di essere un tipo parassita: il veleno degli akuma, alla fine, non era veleno. Non del tutto. Un’altra cosa importante era che, grazie al mio tipo di Innocence, potevo tranquillamente sporcarmi le mani anche se soffrivo. Così, accecata letteralmente da uno spruzzo improvviso di sangue lasciai che Rose partisse alla ricerca dell’ennesima vittima, che non tardò ad arrivare. Richiamai il primo livello della mia frusta e mi pregustai il rumore delle borchie appuntite e ricurve che sferzavano la sua superfice infondere l’aria, per poi aggrapparsi come artigli al corpo del nemico. Passai la manica della mia divisa sul viso, spargendo il sangue sulla mia pelle formicolante. Dischiusi le palpebre e lo vidi: alto e snello, con le spalle larghe foderate da quella che sembrava un’armatura arancione e gli occhi seminascosti da un orribile casco allungato sulla cima dell’ennesimo colore. Socchiuse le labbra, l’akuma, prima di aggrapparsi con le mani stecchite alla frusta.
«Dannata exsorcista! Ti ucciderò, BASTARDAAA!» Si dimenava con un pesce fuor d’acqua, peggiorando solo la situazione in cui si trovava.
«Spiacente » ansimai, tirando con forza.
 Il corpo dell’essere emise uno scricchiolio acuto che mi fece accapponare la pelle, poi da quella gola variopinta uscì un grido raschiato e lacerante. Sembrava l’urlo di un dannato (cosa che in realtà era).
«Questa esorcista ha ancora tempo prima di morire. Poco, ma ne ha.»
«TI UCCIDERO’! TI UCCIDERO’! STRAPPERO’ QUEL TUO BRUTTO MUSO DALLE OSSA E LO MANGERO’! LURIDA CAGNA!» diceva, o forse era meglio dire che strillava come un’oca. I lineamenti pappagalleschi del suo viso si contorcevano, i colori variavano accecandomi gli occhi. Passava dal blu scuro al giallo, al verde e, arrivò persino, al rosa shock. S’illuminò persino di luce, e fu allora che diedi l’ultimo strattone.
Le sentii. Sentii il crack del collo di quell’akuma che si spezzava; provai il piacere della vittoria, mi gustai il suono come fosse stato una musica dolce. Esoricsta 1 – 0 Akuma.
La testa del mio nemico cadde a terra, ruzzolò e si fermò solo quando raggiunse il piede di un altro akuma. Ci guardammo. I suoi occhi, come quelli del morto, erano nascosti da una specie di visiera ma potevo comunque sentire la pressione di quello guardo. Sorrideva, il bastardo, con quella sua mandibola scheletrica mentre ricalciava verso di me la testa del compagno. La scansai, poi liberai il corpo dalla presa di Rose e questo cadde a terra come un sacco di patate.
«Beh? Che aspetti, hai paura forse?» domandai beffardamente, mentre la mia pelle si colorava di stelle nere che bruciavano e pizzicavano, e poi scomparivano sotto di essa. Era il segno che il veleno dei suoi amici stava entrando in circolo. Purtroppo per loro però, che erano morti per iniettarmi quel siero nelle vene, io non sarei morta. Avrei solo patito un po’ e nulla di più.
«Titolo: La ragazza dai capelli di ombra.» I lunghi capelli castani frusciarono nel vento mentre si alzava e si fiondava su di me.
Mi misi in posizione, pronta ad attaccare. Ma proprio all’ultimo questo virò verso l’alto, scansando Rose. Prolungò le mani nella mia direzione, ridendo come un clown. Questo non fece altro che peggiorare le cose. Visto dalla mia prospettiva quello strano essere sembrava un clown; e io odiavo i clown. Digrignai i denti, presa in contropiede da quella sua mossa fulminea, e scaraventai la mia innocence contro di lui. Nel contempo, l’akuma mi riversò contro una scarica di strane palle large quanto un pugno e luccicanti. Appena una di loro mi sfiorò la pelle questa sfrigolò. Sussultai, ringhiando silenziosamente e dimenticai di attaccare. Al diavolo lo scontro testa a testa, mi sarei limitata a schivare quelle strane palle di calore simili a fuoco.  Non ne avrei sfiorata neppure mezza. Era una promessa.
Il mostro sorrise, ghignando un poco. «Titolo: La ragazza che aveva paura del fuoco.»
Ingoiai a vuoto. Il manico di Rose stridette fra le mie mani, mentre lo stringevo con tanta forza che le nocche diventavano bianche. Gridai, e mi parve che per un attimo tutti i combattimenti smettessero e gli occhi si puntassero su di me.
«Titolo: La ragazza ferita» e giù un’altra ondata di sfere brillanti.
Strillai, scaraventandomi verso il nemico che adesso si stava abbassando con lentezza. «Muori! Muori! Muori!» Non mi sembrava neppure la mia voce. Era acuta, graffiata e più triste di quanto mi sarei mai aspettata.
Lasciai che le sfere mi schiacciassero verso terra, bruciandomi con cattiveria i vestiti. Mi rialzai sempre. Indifferentemente dal dolore, continuai a fendere l’aria con cattiveria. Eppure, non riuscivo a colpire quella cosa nemmeno una volta. Era così frustrante.
«E va bene, l’hai voluto tu» sbraitai, bloccandomi nel bel mezzo della mia corsa. L’akuma si fermò sorpreso dal mio comportamento, e tutto divenne stallo. Tutto sembrò congelarsi.
«Evangeline, non ti azzardare!» Ma la voce di Sokaro si perse nella sabbia che si alzava turbinando attorno a me. Lo guardai, per qualche secondo, incontrando quegli occhi che avevo imparato a conoscere. Quando mi voltai, lo sentii ancora chiamare il mio nome.
Lo ignorai. Non avrei dovuto, però sentivo nascere dentro una rabbia così forte che sembrava sormontare ogni cosa, anche il buon senso. «Innocence, secondo livello: rilascio. Veleno della rosa!» Rose fremette, arrampicandosi con velocità sulle mie spalle.
«EVANGELINE!» strillò Sokaro.
L’akuma ghignò, scrocchiandosi le nocche. «Titolo: L’esorcista fatta di tenebre
«MUORI!» Rose scattò. Sibilando in avanti i due fili rossi del destino si attorcigliarono contro le braccia dell’akuma, con tanta forza che sentii la sua armatura contorcersi sotto la mia forza. Riuscivo a vedere chiaramente il calore del suo corpo, il ghigno posto su quell’orribile porzione di metà faccia scoperta.
Prima che potessi ucciderlo, qualcuno mi tirò indietro e sorpresa fui costretta a lasciare la presa. Caddi rovinosamente a terra, battendo la testa con forza. La vista mi si appannò per qualche istante, circondando le forme di un velo nero, mentre sentivo qualcuno urlare degli ordini. Coprii il volto con le mani estraniandomi dalla battaglia, come se quel gesto avesse potuto darmi un po’ di forza in più. In realtà, mi sentivo come svuotata. Persino la testa sembrava più leggera. Inesistente quasi.
Quando mi rialzai, davanti a me si ergeva solo Tyki mentre l’akuma era scomparso. Sputai del sangue a terra, per poi assumere la posizione di battaglia. Rose pulsò, minacciosa.
«Ritira gli artigli, Cagnaccio» i suoi occhi d’ambra mi scrutarono prima di sorridere «la tua battaglia finisce qui.» Una carta gli sbucò fuori dalla giacca, bloccandolo poco prima che attaccasse.
«Evvvvvvvaaaaangelineeeee Coooooorsiiiiii. Uccidetelaaaaaaaa, così potrò cancelllarlaaaaaa dallllaaaaaaaaaaaa listaaaaaaa.»
«Si, si. Dammi il tempo.»
«Persona sbagliata, Porcospino. Io non muoio tanto facilmente.» Barcollai sulle gambe, debole. Era proprio vero che i tipo parassita si stancavano prima di tutti gli altri.
Tyki sorrise, passandosi una mano sul volto. Quel bel volto giovane, che all’apparenza poteva sembrare quello di un angelo ma che nascondeva, ben imbavagliato dietro una maschera, quello di un diavolo. Certo, io non avrei dovuto commentare. Forse, anzi sicuramente, quella me stessa che facevo vedere continuamente nascondeva agli occhi di tutti il diavolo, quello vero.
Ero più demone di lui.
Dicevo di battermi per una buona causa quando in realtà lo facevo solo perché, speravo, questo mi avrebbe portato a rincontrare quella persona a cui tanto bramavo; solo perché ero stata scelta da quel dannato cristallo divino. Lo facevo, in fin dei conti, perché ero costretta. Se mi fossi rifiutata sarei diventata una caduta. Non avevo altra scelta. Non ne avevo mai avuta. Mentre Tiky lo faceva perché era nella sua natura, perché sosteneva la sua famiglia. Lui era libero di agire come preferiva. Perché voleva. Perché era libero.
All’improvviso provai un moto di rabbia nei suoi confronti. Di gelosia. Gelosia corrosiva che iniziò a stringere con forza il mio cuore, che mi smorzò il fiato. Che mi fece prudere le mani, e fece venire voglia alle mie corde vocali di vibrare con tanta forza da spezzarsi. Pensai di cadere nuovamente a terra, ma non lo feci.
Perché sarei dovuta essere gelosa di lui? Strinsi i pugni. Perché dovevo essere gelosa di lui? Chiusi le palpebre. Perché ero gelosa di lui? M’imposi di non pensarci, ma più mi ordinavo di farlo più mi domandavo il “perché”. Perché. Perché. Perché. PERCHE’?!
«Sir. Tyki Mikk» sussurrai affannosamente, inchiodandolo nel mio sguardo. Vedevo il mio riflesso nei suoi occhi d’ambra. Osservavo il mio aspetto demoniaco specchiarsi in quel viso giovane e mi sentivo afflitta e, al contempo, fortissima
 Lo afferrai per il colletto della camicia e lo tirai vicino a me. Lo spinsi verso il basso, in modo che i nostri nasi si sfiorassero. Lui non oppose resistenza, al contrario si lasciò guidare sorpreso dal mio gesto. Inarcò le sopracciglia quando, di sfuggita, gli feci passare le mani fra i riccio scuri.  E poi premetti le mie labbra sulle sue, con delicatezza, e chiusi gli occhi, gustandomi quell’inaspettata rigidezza del suo corpo. Era sorpreso, sconvolto forse. Per qualche secondo mi sentii più potente che mai. Avevo colto alla sprovvista un Noah, quel tanto che bastava per infilzarlo a dovere. Ma non lo feci: nonostante tutto ero una guerriera leale. In questo caso sapevo dove dovevo fermarmi. Solo quando riaprii le palpebre e gli accarezzai il viso, mi allontanai di un passo.
Tiky rimase fermo, mentre aleggiava sul suo volto quell’espressione che tanto mi divertiva. Poi si raddrizzò, accarezzandosi le labbra fini. «Il bacio della morte» sussurrò, e un sorriso piegò leggermente la sua bocca. «Cos’è, un marchio?»
«Una specie» ammisi. Schioccai le nocche e spazzai via la polvere dalle spalle. Affilai lo sguardo, accarezzando i due fili sottili e forti che mi circondavano le braccia. «Ho intenzione di ucciderti, Sir. Tyki Mikk, e quello era un avvertimento.»
Lui si aggiustò il cilindro e poggiò una mano sopra la visiera. «Sei diventata ambiziosa, Cagnaccio»
«E tu troppo spavaldo, Porcospino. Non mi credi in grado di ucciderti? Così mi offendo.» Una luce balenò nei suoi occhi felini.
«Non sia mai. Tutta via, credo che ti ucciderò prima io» affermò, accarezzandomi il collo con delicatezza, proprio nello stesso punto in cui l’avevo sfiorato io. I suoi guanti frusciarono contro la mia pelle, freddi e lisci. Rabbrividii.
Mi vidi ancora nei suoi occhi, ma questa volta non avevo intenzione di giocare pulito. «Provaci» lo sfidai, scagliandogli contro Rose.
 
 
Quando aprii gli occhi mi sembrò di stare morendo. Mi ero svegliata ancora una volta, e ancora avevo la fronte imperlata di sudore freddo. Il cuscino era fradicio, così come le coperte. Era impossibile riuscire a dormire ancora, dopo tutto quello che era successo nei giorni addietro. Perciò, pur di non sognare continuamente le stesse scene mi alzai scalciando via le lenzuola. Caddero in fondo al letto, con un tonfo sordo seguito da quello dei miei piedi. Non avevo mai indossato una vestaglia prima di allora, perciò quando la stoffa morbida scivolò sulle mie cosce mi sembrò un strana sensazione. Una carezza fredda, di un pallido verde acqua. Che poi, perché l’avevo indossata? Ah già, era di Lenalee. L’avevo messa perché così, avevo pensato, l’avrei sentita più vicina. Non la vedevo da settimane, mi mancava.
Alzandomi, mi asciugai la fronte e uscii in corridoio. Passai davanti alla sezione scientifica e ignorai il borbottio sommesso che faceva chi ancora stava in piedi. Mi domandai che stessero facendo, ma forse sarebbe stato meglio se fossi rimasta muta nei pensieri. Preparavano le camere crematorie. Per i morti. Per i miei compagni. Una stretta s’impossessò del mio cuore, portandomi a singhiozzare sommessamente. Le mie spalle erano scosse da tremiti, ma nessuna lacrima lasciava i miei occhi. E’ che faceva male, tanto male. Mi sentivo impotente, come lo ero stata tanti anni fa.
Senza accorgermene mi ritrovai nell’ufficio di Komui, al buio. Da sola.
 
«Fuggiti!» ringhiai con rabbia, facendo capitolare una sedia a terra. Le molteplici carte di Komui volarono attorno a me, creando un’aura di confusione più marcata di prima. «Ecco cosa abbiamo fatto: siamo fuggiti, come topi!» Il colpo che diedi alla scrivania del supervisore rimbombò come uno di quelli di Rose, che procurava quando veniva schioccata in aria.  
Anita sussultò, sorpresa dal mio improvviso attacco di rabbia. Tutta via non mi voltò le spalle, non se né  andò. Era l’unica che al mio ritorno aveva avuto il fegato di starmi accanto. L’unica che era venuta ad asciugarmi il sudore tutte le sere, a qualsiasi ora della notte. E che aveva il coraggio di guardarmi ridurre quella stanza così. Senza dire nulla. Senza tentare di fermarmi.
«MALEDIZIONE!» urlai.
Lei si portò una mano ai capelli, adesso biondi, e la trascinò piano piano verso il volto prima di abbassarlo un poco per non incontrare i miei occhi. Probabilmente dovevo essere davvero spaventosa. Dovevo assomigliare al diavolo che avevo in corpo. Fatto sta che non me ne rendevo conto. O non volevo. Non me ne importava. Ero troppo furiosa anche solo per pensare una cosa simile. Mi ero vista costretta a seguire Sokaro mentre altri tre restavano a combattere. Avevo abbandonato i miei compagni, per portare in salvo un Generale che sapevo benissimo ce l’avrebbe fatta da solo. E adesso loro erano morti! Morti perché non ero rimasta ad aiutarli! Morti.
Per la prima volta dopo tanti anni mi sentivo in colpa. «Dannazione! Dannazione! Dannazione!» Cercai qualcos’altro da tirare, ma l’unica cosa che mi trovai fra le mani tremolanti di rabbia fu il fascicolo di Chakar. Mi bloccai, prima che fosse troppo tardi, a osservare la foto sul curriculum. I suoi occhi castani, sorridenti nonostante l’espressione seria. «Dio» mormorai, lasciandolo cadere sul ripiano. «DIO, ma a cosa siano arrivata?» Mi cedettero le ginocchia. Fui pronta a sorreggermi aggrappandomi alla scrivania. «Ma dove ho sbagliato?» Mi veniva da piangere, ma le lacrime non uscivano. L’orgoglio aveva sempre la meglio. L’aveva avuta anche quel giorno, l’aveva avuta sempre. Lo sapevo!
«Evangeline» due braccia mi strinsero con leggerezza.
«Anita» mormorai, lasciandomi cadere verso il basso. Lei mi sostenne, facendomi toccare terra con gentilezza. Era così strano vederla con quei capelli chiari, che non sapevo se fosse lei realmente oppure no. Eppure, il tocco era quello. Gentile, famigliare, caldo. «Dove ho sbagliato?»
«Non hai sbagliato nulla. Non hai sbagliato nulla, Evangeline. Non è colpa tua.» Mi accarezzò i capelli, stringendomi più forte. L’abbracciai a mia volta, aggrappandomi ai suoi vestiti e alzando il viso verso l’alto. Il neon delle luci mi accecò, costringendomi a socchiudere gli occhi. Il ronzio continuo che produceva mi portò a chiuderli del tutto, in uno stato di apparente fine del mondo.
«Li ho lasciati a morire. Mi hanno detto di seguire Sokaro e io l’ho fatto, li ho abbandonati. Sono morti per colpa mia. Ancora una volta, qualcuno è morto a causa della mia inettitudine. Anche allora» mi portai le mani a coprirmi le palpebre «se avessi saputo combattere, mamma e papà sarebbero vivi. Magari…» Sentii una goccia rotolare giù dagli occhi, disegnare un rivolo sulla mia guancia e cadere a terra con un piccolo plic. «Se fos---ssi rimasta, m-magari» la voce uscì troppo scossa, troppo rotta. Stavo per piangere sul serio. Non volevo che qualcuno mi vedesse. Così l’allontanai, dandole le spalle.
«Ma cosa? Evangeline?»
«Vai fuori, Anita, te ne prego.» E forse fu per la sorpresa di sentirmi chiedere una cosa gentilmente. E forse fu la scoperta che avevo la voce rotta e la testa bassa, e i pugni chiusi. E forse fu un po’ per tutto quello che era successo poco prima che, Anita non ribatté e si voltò uscendo in silenzio.
Non appena fu scattato il click della serratura caddi a terra, stringendomi nelle mie stesse braccia e poggiando la fronte sul pavimento cosparso di fogli. Soffocai tutto il mio dolore, e iniziai a piangere. Non piansi solo per i miei compagni morti, ma per la consapevolezza che erano morti per salvare un mondo ormai già segnato e circondato dalle tenebre. Singhiozzai sonoramente, incurante che qualcuno avesse potuto sentirmi, mentre vedevo quei tre ragazzi venire uccisi e quella dannata casa andare in fiamme ancora e ancora e ancora, all’infinito. Erano morte così tante persone, e io non avevo potuto fare nulla. Ero stata inutile. Ero fuggita.
I miei genitori avevano dato la mia vita per me, che non ero stata in grado di salvarli. I miei compagni erano morti perché non ero stata in grado di tornare indietro abbastanza in fretta, perché ero rimasta al fianco del Generale. E forse, anche Lenalee adesso se la stava vedendo brutta perché io non ero con lei. Magari era ferita, piangeva… Quell’eventualità mi portò solo a incupirmi di più, a piangere più sonoramente.
Non so per quanto tempo piansi, ma quando iniziai a smettere i singhiozzi si fecero più frequenti e meno forti. Mi faceva male il petto, e sentivo il viso in fiamme. Non mi succedeva da tempo, e francamente non avrei voluto succedesse più. Mi sentivo così fragile.
Mi abbracciai più forte, obbligandomi di smettere di piangere. Basta. Basta. Basta. Non riuscivo a fermare quelle poche lacrime che ancora non si erano decise a morire. Continuavano a bagnarmi il volto accaldato, rosso di sforzo. Rotolavano giù sui miei palmi, contro il pavimento.
«Basta!» mi ordinai e sbattei i pugni a terra. La scossa di dolore iniziale si riversò sulle braccia, poi per tutto il corpo. Mi asciugai il viso.
Piangere non avrebbe riportato in vita nessuno, quindi che senso aveva versare lacrime? Ormai quello che doveva succedere era successo. E io non avevo saputo salvare i miei compagni. E i miei genitori. Ed era colpa mia. Anzi no, era tutta colpa dell’innocence! Quella dannata bastarda che mi aveva rovinato la vita.
 
«Se solo fossi stato io il compatibile! Se solo fossi stato io!» continuava a ripetere, ignorando i tentativi di Komui di farlo alzare. «SE SOLO FOSSE TOCCATO A ME, QUELLA VOLTA!»
 
Affilai lo sguardo, graffiando le preziose carte di Komui. La rabbia crebbe dentro di me. Dopo il dolore e la frustrazione, era giusto che provassi quel sentimento. Già, se solo fosse toccato a lui, quella volta. Ma quale volta, precisamente?

 


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Evangeline: Questo capitolo fa schifo.
Isil: Abbi pie-
Evangeline: Fa schifo, sul serio.
Isil: Evan-
Evangeline: ‘Fanculo, è orrendo. Io esco.
Isil: -.-
Evangeline: Ciao.

Isil: Okokokok! Ammetto che non avevo idee! Lo ammetto! Scusatemi #guarda altrove# Al prossimo capitolo...
 
 
 
 
 
 
 
  
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