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Autore: Gazy    06/12/2008    2 recensioni
Mi era stata presentata Bella, una creatura umana molto affascinante. Avrei perso l’occasione di vederla crescere? Studiare la sua mente sarebbe stato interessante. Crescere tra vampiri non era certamente una cosa comune a tutti i bambini. Salve a tutti! ^^ Sono tornata con una storia nuova, la prima (per me) scritta su ispirazione di Twilight. I personaggi li troverete forse un pò diversi dall'originale. Ora, provate a immaginare un Edward ribelle, nel suo 'periodo adolescenziale', una Esme Mamma a tutti gli effetti e un Carlisle...bè, come il suo solito! Ci siete? Okay, ora provate a immaginare Edward con in mano un biberon. Cosa c'entra?? Leggete e vedrete. ^^
Genere: Romantico, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Carlisle Cullen, Edward Cullen, Esme Cullen, Isabella Swan
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Primo – Parla Esme
Gli occhi di quel gatto mi stavano fissando. Mi studiavano con diffidenza, a volte interessati, a volte meno.
Lo trovavo irritante, come un semplice animale potesse notare ciò che la vista umana non vedeva. Come un particolare insignificante di un ricco paesaggio, sfuggevole, in apparenza  superfluo, la mia natura veniva ignorata dalla loro cecità.
Erano innegabilmente superficiali gli umani. Vivevano il tempo che avevano a disposizione con fin troppa leggerezza, per dei condannati a morte.
Sorrisi beffarda per i miei pensieri tanto stizzosi: non avevo il diritto di giudicarli con così tanta durezza. Non proprio io, che fino a qualche mese prima ero parte del loro mondo.
“Gnee..”
Un debole vagito richiamò la mia attenzione al fagotto che avevo tra le braccia.
Gli occhi del gatto si spalancarono attenti.
L’aria della notte era troppo fredda, immaginai, per una creaturina così debole e fragile.
Non potevo concedermi di indugiare oltre, altrimenti la mia piccola si sarebbe ammalata!
Uscii dalla fitta tenebra del vicolo, mostrandomi completamente alla bestiola che giaceva appallottolata sul davanzale della finestra. Mi osservò spaventata per alcuni secondi prima di scappare via.
La strada rimase così deserta. Attorno a me risuonavano i battiti lenti delle persone dormienti, coricate nei loro letti.
Mi tornò dentro una grande malinconia.  
“Starai bene.” Sussurrai alla vita mia, stretta nella sua copertina.
Mi concessi qualche secondo di troppo, conscia del fatto che probabilmente quella sarebbe stata l’ultima possibilità per me, di osservarla così da vicino. La mia mano fu delicata sulla sua fronte calda, timorosa di ferirla con un gesto tanto semplice quanto pericoloso.
La mia piccola non amava il freddo: storse il naso e si agitò nel sonno.
Sorrisi.
 “La mamma non ti dimenticherà, vita mia. Sarà sempre con te, anche se non potrai vederla.”
Sapevo quanto risultasse vana la mia promessa ma non potevo negarmi questa necessità di consolarla, anche se era evidentemente troppo piccola per capire. Che sciocca che ero…
Mi avvicinai alle basse scalinate, allungando il più possibile il tragitto con piccoli e lenti passi da umana. Avrei potuto raggiungere il portone in meno di un secondo, se avessi voluto.
L’uscio nel quale troneggiava la porta pesante era formale, senza ornamenti particolari. Anche il legno della porta era semplice. Oltre quella, potevo percepire il respiro placido di due persone. Una piccola famiglia, modesta e senza pretese alla società; perfetta per mia figlia.
Sospirai: era arrivato il momento.
Non potevo più rimandare.
Con infinita lentezza, mi chinai per posare sulla pietra la cesta che mi ero portata dietro e subito dopo vi adagiai delicatamente mia figlia. Come un angioletto, luminoso e pacifico, rimase nel suo sonno senza svegliarsi.
Sembrava abbastanza adeguata alla situazione, quella scena. Il cesto di vimini, la copertina, il bimbo tranquillamente addormentato. Mancava solo il tradizionale biglietto, con su scritte le ultime frasi di Addio. Ma per quel particolare volevo fare un’eccezione, non lasciando alcun pezzo di carta.
Il mio non era un Addio.
Ci sarei sempre stata: dietro l’angolo, sul tetto di un palazzo, nascosta da siepi o muri spessi.
Così, quando le diedi un lieve bacio sulla fronte – l’ultimo che mi sarei dovuta concedere – ripensai a quell’unica nota positiva, che non permetteva al mio cuore morto di andare completamente in pezzi. Non è un Addio, mi ripetevo. Gli occhi pungevano, si sforzavano di versare liquido salato, ma di questo non ce n’era l’ombra nel mio organismo.
Facendo violenza su me stessa, mi allontanai da lei dopo aver bussato prepotentemente alla porta. Con troppa forza, avrei potuto spezzarla.
...Era il momento di andare.
Ricordo quel frangente… mi vennero mille scenari in mente. Uno, in particolare – impresso a fuoco nella mia memoria -  mi ritraeva insieme a lei, più grande, cresciuta.
Avrei potuto riprenderla con me e fuggire via prima che quella maledetta porta si aprisse - e desiderai ardentemente farlo - ma l’amore per mia figlia mi trattenne. Una parte della mia coscienza gridava di pensare al suo futuro, di non essere egoista. Il resto di me stava semplicemente morendo.
Mai come in quel momento, mentre le mie gambe si allontanavano ad una velocità soprannaturale, desiderai poter piangere.

Quello che successe dopo, non fu altro che un succedersi di eventi negativi.
Il mio dolore non posso descriverlo. Avevo abbandonato mia figlia, la mia creatura, perché ero diventata incapace di farle da madre.
Tutto perché la mia pelle era troppo dura, la mia forza troppo pericolosa, la mia fame troppo abominevole, il mio cuore troppo morto…
La mia esistenza sarebbe stata all’insegna della bugia, sempre nascosta nel buio, sempre alla ricerca di nuovi Stati in cui cacciare o passare inosservata.  
Come potevo permettere che una creatura così innocente crescesse in questo mondo?
Così duro e freddo e crudele!
Lei era per la luce… il sole la meritava.
Nel frattempo, Carlisle soffriva. Lui mi aveva salvata, e di questo le ero mille volte grata: come avrei potuto abbandonarmi alla morte quando avevo una figlia da proteggere? Un’eternità di dolori e agonie non mi avrebbero persuaso da questo pensiero.
Quando tornai a casa quella notte, il mio amato mi strinse forte tra le sue braccia, gelide e dure quanto le mie. Aveva atteso il mio ritorno, rispettando la tacita richiesta di lasciarmi affrontare quel momento da sola. Conoscevo abbastanza la sua natura da essere certa che in quel momento stesse commiserando con tutte le forze se stesso, addossandosi colpe inesistenti. Purtroppo per lui però, non ero in grado di rassicurare nessuno in quel momento.
Nonostante tutto, ero grata del fatto che fossimo solo noi due. La presenza di Edward non mi aveva disturbato quando era umana, ma solo perché non potevo sapere che fosse capace di entrare nella mia testa.
Nei giorni che trascorsero dopo l’abbandono, il dolore nel mio petto rimase sempre lo stesso. Continuavo ad andare da lei, a volte in compagnia del mio Carlisle, più spesso da sola. Spiavo le persone che avevo scelto per lei come sua nuova famiglia. Erano umani di buone intenzioni. Sapevo di potermi fidare di loro. Ma l’apprensione di una madre non ha limiti, così rimanevo nottate intere fuori dalla finestra della sua stanza. Le controllavo il respiro, per accertarmi che non potesse avere una di quelle crisi respiratorie di cui avevo sentito parlare quando ero ancora umana. Ricordo quanto ansiosa mi aveva trovata il pensiero, che potesse accadere mentre stessi dormendo, ma ora che il sonno non era più uno ostacolo per me, potevo tranquillamente spendere il mio tempo a sorvegliarla. Magra consolazione.
Quando nelle ore di luce ero costretta a nascondermi, tolleravo con poca pazienza lo sguardo comprensivo e rammaricato di Carlisle. Diventava giorno dopo giorno sempre più disperato per me. Vedermi soffrire lo feriva, tuttavia questa consapevolezza non mi rese meno crudele. Fingere una gioia artefatta era fuori discussione. Il mio dolore aveva bisogno di una valvola di sfogo.  
Un giorno - o meglio - una notte, arrivai più tardi del solito. Le giornate si erano allungate a causa dell’avvento della stagione estiva. Il sole, più forte del solito, mi aveva reso impossibile uscire di casa. Era buffo ricordare come in passato avessi accolto con lietezza quel periodo dell’anno, quando mi trovai per la prima volta a maledirlo.
Ricordo con straordinaria chiarezza l’ansia di quel giorno. Non sapevo spiegarla ma c’era.
La strada per arrivare a mia figlia sembrava più lunga, nonostante la mia velocità fosse ai limiti di qualsiasi mezzo conosciuto.
Mi sentivo impaziente di rivederla, di rivederla sana e salva - anche se questo pensiero mi agitava.
Perché non avrebbe dovuto essere sana e salva?
Quando arrivai, sentì l’ansia esplodere in panico e l’impazienza in furore.
L’ingresso libero, la porta di semplice legno scardinata, nell’aria un odore intenso di sangue, inconfondibile. Persi la ragione. Volai dentro la casa ormai famigliare in un soffio, esaminandola velocemente con i miei sensi super sviluppati. Tre uomini dall’odore strano erano fuggiti via non più di un’ora prima. Le loro tracce erano vaghe e si confondevano a vicenda come se appartenessero a una sola persona .
I due umani erano morti, il sangue che profumava tutta la stanza apparteneva a loro.
E Bella?
Dov’era mia figlia?
Estesi l’udito fino a percepire i respiri più lontani di persone dormienti, e ancora più giù: il ciarlare di ubriaconi incalliti, strilla di donne, cani abbaiare.
In mezzo a questo marasma di suoni, già in balia della disperazione, la sentii.
Mi precipitai al piano di sopra, lungo il corridoio, nella sua stanzetta.
La culla era vuota…
Sotto di questa, nascosto nell’angolo, c’era un pupazzo di stoffa decisamente fuori misura. Doveva rappresentare un leone, un leone dagli occhi di bottone e pezzato di mille colori fantasiosi, un papillon a renderlo più simpatico.
Con cautela mi abbassai per prenderlo, scoprendo sotto la sua mole mia figlia.
Che sollievo!
La strinsi, sempre nei limiti imposti dalla sua fragilità umana. Mi lasciai invadere da una serenità mai conosciuta. Poterla sentire di nuovo tra le mie braccia mi fece sentire viva. Fui grata verso quelle povere anime, che avevano dato la loro vita per salvarla. Mi sentì eternamente riconoscente.
Gli occhi nocciola di Bella osservavano il sorriso sulle mie labbra con pacatezza. Stava mangiucchiando un angolo della sua copertina, come se non fosse stato appena commesso un crudele assassinio.
“La mamma è qui.” Le dissi.
Sentì rumori sulla strada. Gente dalla voce concitata si accalcava sull’uscio, avvicinandosi alla mia realtà minuto dopo minuto.
A quel punto, non lasciai che alcun rimorso mi rodesse la coscienza.
Divenni egoista.
Strinsi mia figlia al petto e scappammo via, insieme.

“Ti rendi conto che questo è impossibile, Esme? Non possiamo, per il suo bene.”
“Carlisle, non posso lasciarla di nuovo!”
La mia voce supplichevole frenò le sue debole proteste. Lo vidi indugiare con lo sguardo su di lei e trattenere un sorriso alla vista del dolce musino imbrattato di pastina. Sapevo quanto fosse difficile per lui sostenere il ruolo della persona riluttante, quando già sentiva per quella bambina un affetto paterno. L’avevo visto giocare con lei, molto tempo prima l’incidente, molto tempo prima della mia trasformazione.
Imboccai di nuovo mia figlia, sorridendo spontaneamente. Chissà, forse fu proprio la mia tangibile felicità a convincere del tutto il mio amato.
Lo sentì sospirare.
“Edward non sarà contento.”
Conoscevo Edward. Era poco più di un ragazzo, trasformato come me da Carlisle in condizioni estreme. Quando da umana mi fu presentato, il mio primo pensiero mi disse che appariva troppo serio per un ragazzo della sua età. Naturalmente, non potevo sapere che fosse vicino al secolo.
“Non sarà contento di avermi come madre?”
Carlisle mi diede uno dei suoi sguardo composti, contenuto mentre con una mano accarezzava il capo arruffato di Bella.
“Certo che no, mio amore. Sarà contento di averti come madre, ma allo stesso tempo triste che ti sia capitata la nostra stessa crudele sorte.”
Lasciai lo sguardo scivolare su di lui, per tornare a guardare mia figlia. Era impegnata a picchiare il ripiano con il suo cucchiaino di plastica blu.
Quanto le piaceva! Avevo fatto bene a non buttarlo.
“Pensi che accetterà…” non riuscì a finire il mio pensiero, non sapendo bene come articolarlo a parole, ma sicura che Carlisle avrebbe capito comunque.
“Edward è sempre stato razionale, più di quanto possa esserlo io. In ogni caso, sono sicuro che quando conoscerà le tue buoni intenzioni non potrà fare almeno di approvare tutto questo.” disse con voce solida e rassicurante.
Avrebbe potuto ingannare chiunque, ma non me.
Quello che evitò di dirmi, fu che non sapeva cosa avrebbe fatto Edward dopo aver ‘approvato’.
La sua paura - e forse in parte anche la mia - era che non avrebbe più rivisto il figlio per un tempo molto lungo; così che, l’ideale di famiglia nel quale aveva sperato così ardentemente in un secolo di attese, sarebbe svanito ancor prima di nascere.
Sperai che non fosse così. Lo sperai con il cuore morto che mi portavano in petto. Con quel anima che non potevo sapere di possedere, pregai affinché il desiderio di Carlisle diventasse reale.

Edward
Lo seguivo da tre giorni, quattordici ore e ventiquattro minuti.
La mia caccia più lunga…
...numero quindici... griderai come una puttanella in calore...
Questo era precisamente quello che aspettavo: un suo passo falso.
Osservai l’uomo corpulento e dai pensieri malati alzarsi dallo sgabello, uscire attraverso l’ingresso addobbato dal caratteristico campanello dei locali mediocri. Lo seguii.
Più avanti potevo sentire l’odore dolce e floreale di una donna, una ragazza per l’esattezza.
Era lei la sfortunata che l’uomo voleva.
Serrai la mascella mentre i suoi viziati pensieri mi colpivano la mente, rendendola violenta e sanguinaria. I volti spaventati di decine di donne sembravano invocare la parte più cattiva del mio essere, pretendendo vendetta. Mi costrinsi a limitare il flusso di quei ricordi con l'intento di controllarmi. La furia che iniziava a montare, con sempre maggiore insistenza dentro di me, avrebbe potuto compromettere la mia caccia. Non era nelle mie intenzioni perdere il controllo…no… volevo ucciderlo lentamente, così come aveva fatto con le sue vittime.
Avrebbe provato il denso terrore nelle vene, sentito le speranze svanire, la morte attenderlo alle porte della sua bietta vita. Il suo sangue nella mia gola avrebbe ripagato tutti i debiti lasciati in sospeso da quelle vite innocenti spezzate.
Seguì l’infima creatura lungo una strada poco illuminata, per poi arrivare ad una svolta, esattamente dove la ragazza si infilò prima di guardare brevemente dietro di sè.
Ecco, la caccia poteva ritenersi conclusa. La mia preda era in trappola.
 
Non tornavo a casa da circa un anno. Un tempo relativamente breve in confronto i miei viaggi passati. Ero solito farli spesso, quando tutto risultava innegabilmente noioso nella routine di casa, lasciavo mio padre per raggiungere terre lontane e ancora inesplorate. Mi piaceva viaggiare: quando ero umano avrei voluto farlo da soldato.
Questo si presentava un ritorno differente dai precedenti, poiché Carlisle mi aveva rivelato, in una delle sue missive, che potevo dire di aver guadagnato una madre. Dubitavo che io potessi guadagnarmi qualcosa di così prezioso, ma conservavo comunque una debole speranza.
Mi aveva raccontato, con poche ma chiare righe, che stava parlando di Esme. Il ricordo che portavo di quella donna era dolce e puro - così come i suoi pensieri. Ad un tratto mi sentì meschino, perché avevo sperato di tornare ad avere una madre a discapito di una vita umana.
Esme era quanto più di adatto a Carlisle.
Prima di partire, ero realmente riuscito a vederli come una coppia. Tuttavia, mai le avrei augurato una simile sorte.
Sembrava che fosse giunto un tempo di cambiamenti… l’avevo sentito dal tono vivace di quella lettera. Nonostante il rimorso che senza dubbio mio padre provava, era in qualche modo… sollevato? Questo mi rese perplesso. Non era da Carlisle farsi prendere da tanto ottimismo.
Lasciai che il piede spingesse più giù l’acceleratore, improvvisamente impaziente di tornare a casa.
  
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