Crossover
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Autore: Registe    20/02/2015    4 recensioni
Terza storia della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
"L’esercito del Grande Satana colpì in modo violento l’Impero Galattico. Non vi furono preavvisi, minacce o dialoghi alla ricerca di una condizione di pace. I demoni riversarono i loro poteri in maniera indiscriminata, non facendo differenza tra soldati e civili, guidati solo da un ancestrale istinto di distruzione. Soltanto la previdente politica bellica dell’Imperatore Palpatine riuscì ad impedire un massacro in larga scala.
-“Cronistoria dell’Impero Galattico, dalla fondazione ai nostri giorni” di Tahiro Gantu, sesta edizione.-"
[dal primo capitolo].
E mentre nella Galassia divampa la guerra, qualcun altro dovra' fare i conti con il passato e affrontare i propri demoni interiori...
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anime/Manga, Film, Libri, Telefilm, Videogiochi
Note: Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 21 - Parole e pensieri





Vexen e Zexion




Ho intenzione di rileggere il libro di quel Vexen; mi sono appuntato un paio di cose interessanti da aggiungere all’ultimo capitolo. Forse un giorno, se ci incontreremo ancora, mi ringrazierà. È un peccato che le nostre strade si siano divise così presto: è uno scienziato geniale e un alchimista di prim’ordine come raramente ne ho incontrati, anche se gli ci vorranno minimo tremila anni anche solo per avvicinarsi ai miei livelli.
Ha solo un difetto: la tendenza a sviluppare stupidi legami affettivi con persone mediocri, patetiche e del tutto indegne della sua attenzione. Ma è ancora giovane, imparerà. Ogni cosa trascorre prima o poi. Valar Morghulis.
Estratto da un taccuino anonimo rinvenuto in un complesso in rovina sulla cinquecentosettesima luna di Iego.



“Scappate” aveva intimato Zam Wesell. “È una trappola. L’astronave esploderà tra venti minuti”.
Ciò che rimaneva del droide che aveva portato il messaggio olografico rovinò ai loro piedi, gli ingranaggi bruciati e totalmente fuori uso. Il viso di Baran era un maschera.
“Tu le credi, Hadler?”
“Perché non dovrei? In fondo …”
“Basta così” disse il Cavaliere del Drago, lo sguardo fisso nel punto in cui l’immagine era svanita. “Mi fido. Adesso troviamo una via d’uscita”.
Venti minuti, deglutì il demone, accorgendosi che i cuori stavano battendo a velocità folle. Solo venti minuti.
Senza pensare si avvicinò al portellone della stiva, appoggiò la mano sul metallo e questo si fuse al contatto rivelando un corridoio che si perdeva in profondità; Baran lo superò con il suo solito passo fermo, come se l’idea di esplodere in una manciata di minuti non lo preoccupasse affatto. Ma di una cosa il demone minore era sicuro: nemmeno il Cavaliere del Drago poteva vivere in assenza di ossigeno. Forse potevano sopravvivere entrambi all’esplosione, ma se davvero tra un mondo e l’altro non c’era che vuoto e morte allora nemmeno tutti gli incantesimi protettivi che conosceva sarebbero riusciti a salvarlo. Accelerò l’andatura, cercando di ignorare il brivido che gli attraversò la schiena quando guardò oltre uno dei vetri che tappezzavano il corridoio: Canastra IV li guardava, azzurro e striato d’argento come un’enorme perla che occupava buona parte della loro vista.
Ed intorno il buio.
I mondi giacevano nel Nulla.
Un’immagine agghiacciante che gli scosse lo stomaco ancora più del rollare della nave, un pianeta non più grande del loro Cephiro prigioniero nel buio, dove solo dei punti bianchi in lontananza ricordavano l’esistenza delle stelle. Fino a quel momento aveva pensato che tra un mondo e l’altro vi fosse un vuoto azzurro, certamente mortale ma ricco di luce. E loro erano su quell’astronave immersi in questo spazio che prometteva morte in qualunque punto riuscisse a voltare la testa; senza volerlo iniziò ad ansimare, e solo la mano di Baran sulla spalla lo riportò alla lucidità. Allontanò di corsa lo sguardo dall’oblò prima di essere catturato da quel vuoto ipnotico, ed abbassò gli occhi sapendo che il suo compagno aveva visto la sua paura.
“Non distrarti” ringhiò il Drago. “Non è questo il momento di farsi prendere dal panico”.
Da sotto il mantello scosse l’Occhio di Zaboera, ma la pupilla del piccolo mostro era ridotta ad una fessura; la speranza di salvezza che lo aveva illuminato si spense in un istante. “Non riesce a contattare l’Occhio di Killvearn. A quanto pare l’opzione di andarcene di qui con la sua pietra dimensionale è da scartare”.
“E poi mi dici anche non farti prendere dal panico?”
“Non ti facevo uno che aveva paura della morte”.
I loro visi si rispecchiavano sul metallo lucido dell’ascensore. Durante una delle numerose campagne aveva avuto modo di capire come funzionassero quegli strani oggetti, quindi fece cenno al suo compagno di seguirlo ed entrò. Non aveva alcuna idea di dove andare, ma un pulsante più grande degli altri poteva essere un buon indizio. “Beh …” sussurrò. “Non tutte le morti sono uguali. Un vero guerriero non muore come un topo in trappola”.
“Ti confesso che sono curioso di sapere come sono riusciti ad ingannarci”.
Hadler sospirò, mentre l’ascensore si metteva in moto e li conduceva verso l’alto.
La prima possibilità era che li stessero aspettando. Il che ovviamente implicava che qualcuno avesse avvisato l’Impero della loro presenza, ma l’unica persona che sapesse del loro piano era guardata a vista nelle celle del Baan Palace, incapace di comunicare; il viceammiraglio Kratas aveva sempre fornito loro delle indicazioni precise ed era stato vitale nella programmazione degli attacchi di Sephiroth, quindi se li avesse voluti tradire in qualche modo non avrebbe di certo fornito tutte quelle informazioni vitali. Escludendo le poche persone a conoscenza della spedizione –di cui oltretutto Killvearn aveva ricevuto pochissimi dettagli- rimaneva la prospettiva che avessero approntato quella trappola al loro arrivo. Qualcuno doveva essersi accorto del loro arrivo su Canastra IV. Se la missione era fallita per una sua noncuranza non se lo sarebbe mai …
“Troppo elaborata”.
Baran si appoggiò alla pulsantiera, pensoso. Non aveva doti telepatiche, ma le sue sopracciglia crucciate mostravano che stava condividendo i suoi stessi dubbi. “Non è passata nemmeno un’ora dal nostro arrivo sul pianeta, e nell’ultima parte siamo stati protetti dall’invisibilità”.
“Forse una delle loro tecnologie …”
“Forse. O forse no. Capire il nostro obiettivo, mettere un esplosivo su una nave … troppo tempo. E la tua amica è persino riuscita ad avvertirci” disse. L’ascensore si fermò, emise un breve rumore e le porte si aprirono, rivelando l’ennesimo corridoio metallico uguale a quello che lo aveva preceduto. “Una trappola perfetta in grado di uccidere il Cavaliere del Drago ed il comandante dell’esercito demoniaco con un colpo solo. Questo scenario è stato progettato in anticipo e qualcuno ci ha traditi. Ma non riesco a capire chi”.
Bene. Siamo in due.
Nessun droide venne nella loro direzione, nessuna macchina comparve per aprire il fuoco. L’interno dell’astronave sembrava deserto, ed a parte il ronzio dei motori non c’era alcun suono oltre a quello ovattato dei loro passi. Delle porte metalliche intervallavano la monotonia del corridoio ogni cento passi, ma nessuna di quelle era serrata, una disposizione strana che non allentava il nervosismo; Hadler si sforzò di non guardare oltre il transparacciaio, ma sapeva benissimo che lo sfondo Canastra IV si stava allontanando sempre di più.
L’astronave iniziò a vibrare. Più forte di prima, come se i motori si fossero svegliati da un torpore; il rombo non accennava a smettere, e sul soffitto si accese una fila di luci di cui nemmeno si era accorto. Baran osservò le pareti come se volesse distruggerle, e quel fracasso riempì loro le orecchie mentre un sibilo si insinuò nel velivolo. Una voce, probabilmente femminile, si formò nell’aria.

“Inizializzazione salto nell’iperspazio. Tutto l’equipaggio si prepari al salto nell’iperspazio”.

Hadler girò la testa per capire chi avesse parlato, ma la magia non gli rivelò nulla; come era venuto, il suono svanì. Sotto i loro piedi la nave rollò, ed il demone strinse i denti per quell’odiosa sensazione di nodo allo stomaco che gli martellava tutto il corpo senza tregua; il suo compagno continuava a fissare in avanti, le braccia incrociate come se avesse tutto il tempo del mondo.
“Ha parlato di un equipaggio”.
Sì, quello l’avevo sentito anche io, ma …
“Andiamo a cercarlo”.
Sospirò, chiese qualche attimo di tregua al suo stomaco ed estese la magia. Le sue capacità divinatorie erano ben lontane da quelle di altri demoni, e trovare degli esseri umani su un’astronave gli richiedeva concentrazione, specie in un luogo dove non vi era alcuna forma di magia ad aiutarlo oltre la propria e quella di Baran. La Visione Distante ampliava il suo orizzonte soltanto se aveva in mente un punto chiaro e preciso dove cercare, ma non aveva idea in quale parte di quella scatola volante si trovassero gli umani; abbandonò qualunque incantesimo e si limitò a cercare delle energie vitali. Il vuoto oltre l’astronave gli stringeva la mente come una morsa, ma l’ambiente artificiale si trasformò in un appiglio.
Non vi erano molte creature. L’energia creata dai motori era una fiamma da cui discostarsi, ma quando le sue percezioni scavarono lontano, ai livelli superiori, trovarono subito delle forme di vita, probabilmente riunite in un unico punto. Cercò di nuovo, estendendo i suoi poteri alla ricerca dell’esplosivo, ma gli rispose solo il vuoto dei corridoi. Riprese fiato e guardò verso il soffitto. “Sono sopra di noi, circa tre livelli. Dirigiamoci all’ascensore!”
“Andiamo di fretta” borbottò Baran. “Prendiamo una scorciatoia”.
In un istante la lama della Spada del Drago Diabolico illuminò l’intero corridoio, tanto che il demone fu costretto a chiudere gli occhi per non rimanere accecato dalla luce che si moltiplicava a dismisura contro il metallo chiaro. Baran la puntò verso l’alto, ed il fascio di luce si trasformò in un cono di fuoco, violento come le fiamme di un drago. Tutto il corpo di Hadler entrò in risonanza con la magia dell’arma mentre il soffitto sopra le loro teste divenne incandescente per poi fondersi in una manciata di secondi. L’energia raggiunse anche il piano superiore, e anche a quella distanza riuscì a sentire finalmente le urla degli umani.
La Spada Che Non Doveva Essere Sguainata tornò nel fodero, facendo sprofondare la nave nella penombra mentre gli allarmi risuonavano in sottofondo.
La leggenda della Spada del Drago Diabolico aveva sempre affascinato Hadler. Gli anziani della sua famiglia erano sempre stati cauti nel raccontare ai giovani le leggende riguardanti i Cavalieri del Drago, e questo non aveva fatto altro che renderlo ancora più avido di informazioni, storie e racconti su quelle creature divine che nascevano su Cephiro per portare l’equilibrio e la pace. Ciascun anziano descriveva l’elsa dell’arma leggendaria in maniera diversa, uno aveva parlato persino che fosse in realtà la testa di un drago vero e che la lama fosse lunga dieci braccia o anche più; quando aveva visto per la prima volta la Spada del Drago ed il suo padrone aveva creduto di essere in un sogno. Decine di leggende si erano concretizzate proprio davanti ai suoi occhi, ma ogni volta che il generale scendeva in battaglia gli tornava in mente soltanto un monito, l’unico che univa i miti come il filo di un ragno: la Spada del Drago Diabolico non doveva essere sguainata. Mai.
Ma evidentemente nessuna leggenda aveva credito davanti a Baran. Le vite di migliaia di esseri umani erano cadute su quella lama, ma nonostante tutto Hadler non era ancora riuscito ad abituarsi, ed il brivido che provava lungo la schiena quando il metallo sacro veniva esposto alla luce non si era affievolito nemmeno dopo le numerose campagne.
Ovviamente non aveva mai sollevato il problema davanti al Drago. E di sicuro quello era il momento peggiore per obiettare.
Imitò il suo compagno e levitò nel foro ancora incandescente. Fece appena in tempo ad evocare un incantesimo difensivo che una raffica di laser diede loro il benvenuto; dal fumo nerastro che si alzava dal piano i fasci di luce furono subito assorbiti, e quando richiamò una debole magia di vento per disperderlo vide che Baran aveva già eliminato i tre soldati che avevano sparato con un semplice fendente. Un altro umano estrasse qualcosa dalla cintura e la puntò nella loro direzione, ma Hadler scagliò una lancia di ghiaccio e lo trapassò prima ancora che lo strano congegno avesse effetto. Si voltò verso l’ingresso della stanza in attesa degli immancabili droidi, ma niente entrò reclamando le loro teste.
Rimanevano soltanto due figure, un uomo e una donna, immobili contro i sedili; i loro sguardi andavano da un corpo caduto all’altro, e si sgranarono quando incontrarono il viso del Cavaliere del Drago.
“Disattivate l’esplosivo, umani. Adesso”.
I due erano immobili, ma al demone non sfuggì lo sguardo impaurito che si scambiarono. “Fermate l’esplosione e avrete la mia parola che non farete la fine dei vostri compagni” disse, avvicinandosi all’uomo che aveva freddato solo qualche istante prima. Prese lo strano congegno, poi lo stritolò tra le dita. “E non fatevi venire strane idee …”
La donna era chiaramente sul punto di svenire, ma Hadler le destinò un’occhiata che avrebbe gelato qualsiasi suo sottoposto. Ormai non avevano più di dieci minuti.
“N-non c’è nessuna … nessuna bomba qui!” pigolò l’umano “… niente, assolutamente niente! Non siamo soldati, non uccideteci, NON UCCIDETECI!”
Baran superò con una falcata la distanza che li separava, lo afferrò per la testa e lo scaraventò sulla tastiera dei comandi con una violenza tale che Hadler per un attimo credette che lo avrebbe ucciso; la donna mandò un grido e si rannicchiò contro la sedia scuotendo la testa, ma il suo compagno aveva gli occhi scuri rivolti solo sul prigioniero. E anche in quel momento i suoi lineamenti non tradivano alcuna paura. “Forse non vi è chiaro un concetto. Sappiamo della vostra patetica trappola. Adesso disattivate quella bomba o …”
“NON SAPPIAMO NULLA DI QUESTA BOMBA, SIAMO UN NAVE DA TRASPORTO, NON ABBIAMO ARMI!” urlò l’uomo. “VE LO GIURO, NON …”
“Non giurare, umano”.
Qualunque cosa volesse dire, lo schermo davanti a loro si era riempito di luci. La voce femminile che intimava di prepararsi al salto nell’iperspazio era tornata dettando istruzioni incomprensibili e rompendo il silenzio che si era formato dopo le parole di Baran. Dalla barriera in transparacciaio le stelle iniziarono a muoversi, e lentamente sentì lo stomaco tornare a pulsargli in gola.
Tornò a guardare gli umani, cercando un modo per estirpare dalle loro labbra una via d’uscita, ma era come parlare con dei lombrichi spaventati; se Zam Wesell li aveva avvertiti del pericolo voleva dire che una bomba vi era davvero in quella nave –qualcosa di più forte dell’intuizione gli diceva che poteva fidarsi di quella donna- ma aveva pensato che gli umani avrebbero snocciolato volentieri la posizione dell’esplosivo con un po’ di persuasione del Cavaliere del Drago, ma evidentemente avevano incontrato gli unici umani leali al loro signore in tutta la Galassia. A meno che …
Ma in fondo di cosa mi stupisco?
“Forse non ne sono al corrente nemmeno loro, Baran” disse a voce alta a sufficienza per farsi sentire oltre il rumore dell’altoparlante e le grida dei piloti. “Forse all’Imperatore Palpatine non interessa la vita di qualche suo infimo soldato. Dubito che questi suoi sottoposti sarebbero saliti volontariamente su una nave destinata alla distruzione”.
La figura ancora avviluppata nella stretta del suo compagno si mosse e li guardò come se qualcosa lo avesse colpito all’angolo della mente; era ancora pallido, un rivolo di sangue gli correva lungo la fronte –come fosse riuscito Baran a trattenersi e a non sfracellargli tutto il cranio era un mistero che non aveva fretta di svelare- ma l’espressione di terrore sul suo viso si trasformò in qualche attimo in una maschera di sconcerto che tutto sembrava fuorché una finzione. E quando tornò ad osservare l’altra prigioniera, quella si guardava intorno come se avesse realizzato in quel momento dove si trovava, e stringeva l’uniforme bianca fino a lacerarla. Fu però lei a riprendersi per prima. “Po-possiamo fare una sca-scansione a t-tracciato molecolare …”
Si alzò in piedi, poi lesse l’evidente sguardo di stupore nei loro occhi. “È un sistema per rilevare la posizione delle principali fonti energetiche a bordo della nave basato sull’oscillazione degli elettroni ed il rilascio di fotoni. Se c’è un esplosivo allora …”
“Quanto tempo ci vorrà?” chiese Hadler, ignorando la maggior parte delle parole senza senso nella frase della donna.
“Quindici minuti circa. Anche se l’esplosione che avete causato …”
“Troppo tempo” bofonchiò Baran. Aprì il palmo ed il pilota si allontanò velocemente dalla sua stretta per poi guardare sconsolato prima i tasti del computer di bordo e poi lo schermo. Il suo collo si tinse all’istante di un colore viola-bluastro. Dei numeri si susseguivano senza sosta sul visore mentre delle luci si accendevano, si spegnevano e tornavano a brillare illuminando l’espressione dei loro prigionieri.
“Abbiamo una sola possibilità …” disse l’uomo, e dall’espressione della sua compagna capì che non sarebbe stato qualcosa di piacevole. “Andiamocene”.
“Con cosa?” chiese Hadler, sentendo in quell’istante la mancanza delle Pietre Dimensionali.
“Con una navetta di salvataggio. Ce n’è una ormeggiata proprio al piano di sotto, possiamo entrarci tutti stringendoci un po’ e …”
La sua compagna si alzò dal sedile e lo interruppe. “Siamo quasi nell’iperspazio, rischiamo …”
“Questo piano mi sembra il migliore”.
Baran si piazzò in mezzo ai due umani, gettando l’ombra sulle loro patetiche figure. Per la prima volta da quando avevano messo piede su quel cargo il demone minore vide la fretta davvero trapelare sui lineamenti della creatura semidivina. Guardò l’uomo e poi il buco che avevano appena creato per entrare nella sala comandi. “Non sprechiamo tempo prezioso. Ai rischi penseremo poi”.
Gli bastò una sola mossa, poi li agguantò entrambi per i vestiti e saltò tra le lamiere ormai quasi raffreddate, e prima ancora di poter riflettere Hadler si lanciò alle sue spalle, seguendo la forma massiccia che si spostava ad enormi falcate dietro le indicazioni dei suoi prigionieri.
Le pareti di metallo tutte uguali mettevano a dura prova il suo senso dell’orientamento, ma si sollevò in aria e continuò a levitare mentre i contorni dell’aereonave vibravano senza alcun controllo e l’aria diventava ancora più rarefatta. Isolò la mente sul battito dei cuori, cercando di non immaginarsi come un topo in trappola in una scatola lanciata nel vuoto, o peggio ancora del comandante dell’esercito demoniaco ucciso in una maniera così disgustosamente vile. I rumori della nave potevano essere i rimbrotti del Grande Satana, il suono d’allarme le centinaia di demoni che seguivano ciecamente i suoi ordini, pronti alla battaglia. Baran non rallentava la sua corsa e Hadler si morse il labbro per non rimanere indietro, per non essere un peso al Cavaliere del Drago.
I cuori gli risuonavano nelle orecchie quando saltò in un altro passaggio divelto dalla furia del compagno, e quando rallentò per poco tutti gli organi vitali non gli ritornarono in gola.
I due umani stavano armeggiando con una porta minuscola, ma dopo qualche istante Baran perse la sua proverbiale calma e la scardinò con una sola mano. “Detesto ripetere che andiamo di fretta”.
Lo sguardo dei prigionieri era impagabile, ma Hadler non aveva tempo da perdere. Seguì il suo compagno ed i piloti oltre lo spazio, chinandosi per entrare in quello che senza alcun dubbio era lo spazio più angusto in cui si fosse mai infilato. Persino la latrina del laboratorio di Zaboera era più confortevole.
La figura massiccia di Baran era incassata contro un muro, la testa fra le spalle e la spada tra le mani per evitare che toccasse qualche tastiera di quelle che riempivano l’interno della navicella. La donna corse verso l’unico posto disponibile ed iniziò ad armeggiare sui tasti in un’ondata di imprecazioni mentre il suo collega premette dei pulsanti che chiusero un portello ausiliario e per qualche istante fecero piombare la navetta nel buio. Una luce si accese sopra di loro, fioca e tremolante mentre un rombo violento attraversò lo spazio angusto.
“Non ce la faremo mai” singhiozzò la donna, la voce incrinata dal pianto. “Siamo in fase avanzata della preparazione, il salto nell’iperspazio ci trascinerà con sé … finiremo schiacciati dalla mole della nostra stessa nave e allora …”
“Tu pensa a decollare, Jane” rispose il compagno. Il tono di voce era lento, ma anche con quella debole illuminazione le pupille degli occhi non nascondevano un’ansia profonda che Hadler sentì fino nelle profondità dell’intestino. Un topo in trappola almeno non soffriva così tanto … “Possiamo farcela”.
“No, non ce la faremo, ci …”
“TU DECOLLA E BASTA!”
Tutto quello che li circondava vibrò come scosso dalla mano di un gigante capriccioso. Hadler non riuscì a trattenersi e si piegò sulle ginocchia scosso da un violento conato di vomito; si maledisse per quella debolezza, ma per fortuna nessuno degli umani prestava più caso a lui. I loro occhi erano puntati sullo schermo del computer che si era acceso mentre la navicella iniziava a sganciarsi dal cargo. La donna stava impugnando i comandi e quando premette una leva nella sua direzione l’imbarcazione si staccò con un rombo cupo. Un finestrino in transparacciaio, prima coperto dal corpo della nave madre, rivelò lo spazio e le stelle che danzavano su loro stesse, come se fossero pronte ad esplodere da un istante all’altro. Alcune si mossero e diventarono scie luminose.
“Fanno sempre così?” chiese sperando di non sembrare più debole del solito.
“Stiamo entrando nell’iperspazio” disse l’uomo senza nemmeno voltarsi. “Vuol dire che il cargo sta per viaggiare alla velocità della luce, altrimenti non raggiungerà mai la sua meta dall’altra parte della Galassia. Siamo una nave da trasporto, il nostro salto nell’iperspazio è molto più lento di quello delle navi militari, ma forse questo è una benedizione …”
Il fianco del K4 adesso era ben visibile. Si muovevano lentamente, troppo lentamente per i gusti di Hadler, che adesso non aveva più idea di quanto mancasse al momento dell’esplosione della nave madre. Il piccolo velivolo avanzava, stentava, come se qualcosa continuasse a trascinarlo nuovamente verso il cargo; la donna di nome Jane stava premendo tutto il suo corpo contro i comandi, il viso pallido e gli occhi sgranati. Qualcosa gli disse che le cose non stavano andando per il verso giusto nemmeno in quel momento.
“Non abbiamo energia … non possiamo, la massa del K4 ci sta risucchiando indietro verso il salto!”
“I generatori nucleari sono a posto, questo è il massimo dell’energia!”
La navetta si spostò, come se avesse impattato qualcosa; il fianco del cargo si avvicinò paurosamente ed il demone conficcò le unghie nella paratia della navicella, sicuro che sarebbe stata la sua fine. Gli umani iniziarono a premere pulsanti come forsennati, tirando tutto quello che avevano a disposizione sommergendo gli allarmi interni con le loro grida, ma ad onor del vero impedirono all’imbarcazione di emergenza di schiantarsi proprio quando la loro ala stava graffiando la superficie del cargo dando fondo a tutte le energie. Sotto di loro il motore rombava, ruggiva come un drago forsennato, e forse per quel motivo l’espressione di Baran rimaneva impassibile, lo sguardo nascosto sotto il diadema dorato. Giuro sul mio onore che non mi lamenterò mai più di andare in missione con Sephiroth …
Sarebbe bastata un’altra spinta come quella e … “Perché non riusciamo ad andarcene?”
“L’energia della nave non può fornire la spinta sufficiente ad allontanarci. L’energia gravitazionale dell’astronave aumenta a dismisura prima di un salto nell’iperspazio, altrimenti non resisterebbe all’impatto … e questa energia ci sta attirando verso di sé, ci risucchierebbe nell’iperspazio! E a quel punto un granello di polvere stellare sarebbe più consistente dei nostri corpi, questa navetta non è programmata per i salti alla velocità della luce!”
L’aria iniziava a mancargli. Strinse i denti e si accasciò contro una parete all’ennesimo colpo. “E se aveste ancora più energia?”
“Il carburante è al massimo, il motore fun …”
“Ripeto la domanda. Se aveste più energia?”
Hadler detestava lo sguardo sgranato degli umani che lo fissavano come un povero idiota che non capiva nulla delle loro preziose tecnologie. Ma evidentemente la paura prese il sopravvento sull’indignazione. “Dipende quanta”.
“Tutta quella che vi occorre”.
Il pilota lo fissò, gli occhi di chi ormai non aveva nulla da perdere. “Si può fare”.
La sua collega non batté ciglio quando aprì uno sportello nascosto nella parete della nave ed incassato quasi ai piedi del punto di comando; Hadler si chinò, con cuore in gola, aspettando che l’altro finisse di armeggiare con i pannelli e le combinazioni mentre dal finestrino il fianco del cargo aveva lasciato il posto al ventre e sempre più stelle si erano trasformate in scie luminose. Il portello si scansò di lato, ma Hadler non vide nulla di chiaro nello spazio che aveva davanti, soltanto tubi e fili, fili e tubi. Piccole pompe si muovevano su e giù, mentre altri pezzi di metallo di cui non immaginava nemmeno l’esistenza ruotavano; un’ondata di calore salì dal macchinario, ed il demone sentì le vibrazioni dell’energia partire da un punto ancora più profondo, probabilmente il vero motore della nave. Il velivolo virò bruscamente, ed una cascata di scintille uscì dal portello. “Mescolare la magia alle macchine … una cosa che Zaboera troverebbe affascinante” bofonchiò Baran, che dal tono di voce trovava perfino divertente quella scena.
“La prossima volta perché non chiedi a Zaboera di seguirti in una delle tue missioni suicide, amico?”
Senza pensarci infilò la mano nello scomparto. L’umano gli gridò qualcosa, cercò di scansargli il braccio, ma irrigidì i muscoli e lanciò tutto il potere che aveva nel sangue in quello spazio angusto seguendo la scia che il flusso stesso del motore disegnava dal nucleo alle apparecchiature. Si caricò di potere puro e semplice, scacciando qualunque forma di magia elementare si affacciasse nella sua testa; strinse i denti cercando di percepire l’origine dell’energia della nave, la forza che spingeva il motore per crearne una simile. Soppresse il fuoco e il ghiaccio, l’acqua ed il fulmine, sentendo la magia allo stato vivo arroventargli il corpo fin sulla punta delle orecchie; un’esplosione viva, indistinta ed informe che aveva bisogno di tutto fuorché del suo controllo. “LA NAVE E’ SOVRACCARICA, CONVOGLIA L’ENERGIA SUGLI AUSILIARI!”
Non diede peso alle loro parole, rimbombavano insieme al vibrare del motore. Qualunque cosa riuscisse a smuovere la nave si stava beando della sua magia, e per un attimo la macchina stessa ebbe qualcosa di vivo. Spinse tutto il potere del suo corpo magico dentro quel piccolo universo composto da fili e pistoni, cercando di aggrapparsi al flusso senza distruggere ciò che lo circondava; tutto intorno al braccio si mosse più velocemente, assetato della sua forza. Non capiva, non capiva assolutamente nulla, ma aveva la sensazione che se avesse aperto gli occhi per scoprire cosa stesse succedendo davvero avrebbe rotto quell’ondata.
“LA NOSTRA GRAVITAZIONE PERCENTUALE E’ AUMENTATA, JANE! POSSIAMO STACCARCI!”
“Ci sta dando la potenza di un incrociatore …”
Poteva fare di meglio. Poteva fare anche di più. Spinse i cuori al massimo e sentì l’accelerazione della nave diventare sua; un gorgoglio sul fondo della gola lo avvisò di essere al massimo della potenza e la scaraventò dentro quel metallo che divenne incandescente ed iniziò a pulsare al ritmo del suo sangue. Il veicolo metallico non era fatto per ospitare quel tipo di energia tutta insieme, ma a quel punto poteva solo sperare di trattenersi senza far esplodere il motore. L’unica certezza era che la nave si stava muovendo. Baran gli borbottò qualcosa, ma respirò ancora più a fondo e si spinse fin negli ultimi meandri di quella macchina che ormai viveva completamente di lui.
“Andiamo, andiamo, andiamo!” gridò l’umano proprio alle sue spalle. La nave si inclinò e cadde sul pavimento, ma non perse la presa. Stava offrendo magia, si stava consumando, ma la sensazione era eccitante, come se tutti i congegni di quella navicella gli stessero suonando nella testa scoprendo per la prima volta cosa volesse dire davvero la parola “potere”. Lanciò uno sguardo veloce oltre il transparacciaio e vide la superficie del K4 allontanarsi da loro; sorrise per la soddisfazione, poi tornò ad alimentare la macchina quasi fosse un drago a cui mettere le briglie insieme agli umani che adesso stavano gridando per l’euforia.
Fu proprio quando stava per tirare un sorriso di sollievo che il drago impennò.
Tutto intorno a lui iniziò a girare, si ritrovò Baran schiantato contro la sua spalla e nonostante fossero nel vuoto assoluto il suo stomaco reagì come se fosse sottosopra mentre le luci della nave mandavano segnali rossi intermittenti; un’ondata di calore, forte come ne aveva sentite poche, attraversò il suo corpo e tutta la nave fino a spegnere gli schermi. Qualcosa di gigantesco colpì il transparacciaio e quello si crepò senza rompersi, poi qualcos’altro urtò la parte inferiore del velivolo e ruotarono di nuovo, incapaci di liberare le braccia e le gambe dal groviglio che avevano creato. Gli strumenti presenti nella cabina volavano in ogni direzione rendendo il tutto ancora più difficile. Hadler si morse il labbro e continuò ad evocare incantesimi sentendo il flusso del motore indebolirsi per l’urto. “Ma che diamine …?”
“Avevate ragione” mormorò l’umana. Perdeva sangue da un angolo della testa, ma non appena l’onda d’urto passò fu la prima a mettersi in piedi trascinandosi sul bancone di comando. “Avevate dannatamente ragione …”
Hadler si lanciò un veloce incantesimo di guarigione, ma non poté trattenersi e seguì gli occhi dei due umani oltre il metallo trasparente. Un pulviscolo nero e rosso riempiva lo spazio, velando le stelle che lentamente ritornarono alla loro forma originale; un oggetto metallico venne nella loro direzione, e quando li evitò per qualche palmo di mano il demone vide che si trattava di una lamiera affilata. Nel punto dove si trovava il cargo K4 non rimanevano altro che gli ultimi fuochi di un’esplosione e lo spazio che tremolava per la violenta interruzione del salto nell’iperspazio. La donna aiutò il suo compagno a rialzarsi, si strinsero le mani davanti a quello spettacolo di morte.
Le luci della navetta ricominciarono a brillare, ed il motore sotto le sue dita prese quel poco di magia che ancora possedeva e si risvegliò dal colpo.
“Forse quello che dice l’Alleanza Ribelle non è poi così sbagliato”.
Hadler ignorò qualunque parola degli umani. Vide la mano di Baran cercare di acchiapparlo, ma per la prima volta dopo centinaia di anni il mondo si fece nero e perse conoscenza.


Narratore: “… sul serio, Registe? Non è uno dei vostri soliti scherzi diabolici, vero?”
REGISTE: “Noi non scherziamo mai, Narratore. Dovresti saperlo.”
Narratore: “Siano lodati cielo, terra e mare! Allora l’agonia dei flashback è quasi finita! Alleluja!”
REGISTE: “QUASI finita, Narratore. QUASI. E adesso…. “
Narratore: “… sì, sì, lo so. Faccio spazio al solito raccomandato di acciaio Inox… che mestizia… “



Il primo giorno senza Zexion lo passai rinchiuso nel laboratorio, sussultando a ogni minimo rumore proveniente dall’esterno. Ero certo che fosse solo questione di tempo prima che il Superiore mandasse qualcuno a prendermi di forza e buttarmi fuori dal suo prezioso Castello. Dopo la fuga dal laboratorio Zexion aveva sicuramente trovato rifugio dal numero I, e non appena gli avesse confidato la causa delle sue lacrime il capo dell’Organizzazione non avrebbe esitato un solo istante a decretare la mia condanna.
Eppure non riuscivo a fuggire. Una parte del mio cervello continuava a gridarmi di andare via, di raccogliere i libri e gli strumenti più importanti e di teletrasportarmi in un mondo sicuro prima che fosse troppo tardi, ma tutto ciò che riuscivo a fare era aggirarmi senza sosta tra i tavoli e gli scaffali gettando occhiate ansiose alla porta, sicuro che presto sarebbe esplosa in frantumi sotto le potenti spallate di Xaldin e Lexaeus.
Ma le ore passavano, e nessuno venne a cercarmi.
Dopo un’intera notte di silenzio assoluto cominciai a persuadermi che forse avevo fatto male i conti. Il Superiore doveva essere meno furioso di quanto avessi previsto. O forse… forse Zexion non gli aveva ancora raccontato nulla.
Zexion. La reale portata della sua assenza mi colpì con tutta la sua forza solo quella mattina, quando mi costrinsi a mandare giù un po’ di tè con qualche biscotto. Stavo per prendere una seconda tazza dalla credenza, in modo automatico, quando mi bloccai a metà del gesto e mi voltai verso la camera da letto. Il suo letto era vuoto, intatto. Non sarei stato io a svegliarlo, quel giorno. Non avremmo giocato a “maghi e streghe” mentre facevamo colazione. Non lo avrei portato su Caprica a vedere le astronavi come gli avevo promesso.
Respirai profondamente, trattenendomi a stento dallo scagliare via la tazza in un moto di rabbia. Se Zexion non aveva ancora parlato con il Superiore allora forse…
No, non volevo illudermi con false speranze. Con quale coraggio potevo ancora guardarlo negli occhi dopo quello che era successo… dopo quello che gli avevo fatto?
In un attimo mi fu chiaro cosa dovevo fare. Dovevo andarmene. Per il suo bene, dovevo andarmene.
Mi alzai in fretta, raggiunsi un baule nella stanza da letto e rovistai tra le pile di cianfrusaglie finché non trovai quello che cercavo. Una sacca da viaggio consunta ma ancora resistente, la stessa che mi aveva accompagnato nel mio primo viaggio da medico girovago lungo le vie impervie e desolate del mio mondo. La riempii di vestiti e libri – più libri che vestiti – e raccolsi medicinali, qualche boccetta di sonnifero, un paio di veleni per sicurezza, sacchetti con erbe essiccate, gessi, matite, bisturi, tutti gli strumenti che potevo portare con me senza che la sacca cedesse. Sul tavolo, la tazza di tè giaceva ormai fredda, dimenticata.
Mi gettai in spalla il bagaglio che si chiudeva a malapena mentre i miei occhi percorrevano ogni angolo del laboratorio in cerca di qualcosa che potevo aver dimenticato. Dovevo fare in fretta. Avevo già esitato troppo. Zexion poteva sentire il mio odore anche a distanza, e non avrebbe mai ritrovato la serenità finché io fossi rimasto ad abitare sotto il suo stesso tetto. Dovevo sparire, cambiare mondo e non farmi rivedere mai più.
Il mio sguardo cadde sullo spazio tra due scaffali, dove il bianco asettico della parete era stato ricoperto dal mosaico vivace e colorato dei disegni di Zexion. Il mio bambino adorava disegnare, ed era anche piuttosto bravo per la sua età. Avevamo scelto insieme i lavori da attaccare alla parete, confrontandoli uno per uno e stilando addirittura delle classifiche. Zexion si era divertito da morire.
Il disegno più grande, al centro esatto della composizione, raffigurava il laboratorio stesso. Un omino con due ciuffetti biondi sorrideva in mezzo a strumenti e provette, tenendo per mano un bambino dai capelli argentati. Anche il bambino sorrideva. Accanto alle due figure, con un pennarello rosso, Zexion aveva scritto “Per sempre insieme”.
La borsa mi scivolò dalla spalla e cadde a terra con un tonfo. Qualcosa all’interno si ruppe, una boccetta probabilmente, ma non vi badai. In pochi passi raggiunsi la porta di ingresso del laboratorio ed esitai, la mano stretta attorno alla maniglia. Continuavo a rivedere Zexion che correva via in lacrime, fuggendo dal luogo che era stato la sua casa per anni. Fuggendo da me.
E io? Me ne sto davvero andando per il suo bene, o anche la mia è una fuga?
Con un’imprecazione mandai al diavolo la cautela e aprii la porta.
Non so cosa mi aspettassi di trovare fuori, ma ovviamente era tutto come al solito. Corridoi bianchi, scalinate bianche, soffitti alti e colonne dagli intarsi eleganti. Silenzio, silenzio assoluto. Il Castello era troppo grande per soli sette abitanti.
Salii qualche rampa di scale, diretto in nessun posto in particolare. Stentavo a credere che fosse tutto così tranquillo, che ancora non fosse partita una gigantesca caccia all’uomo contro di me.
A metà delle scalinate del terzo piano mi imbattei in Xigbar.
“Vexen!”
Il mio primo istinto fu di scappare, ma le mie gambe rimasero incollate al pavimento, paralizzate dalla sorpresa.
“Certo che Zexion ne deve avere di pazienza per vivere con te!”
Le sue parole mi strapparono un sussulto. Indietreggiai di qualche passo, stordito, e quasi rischiai di inciampare sui gradini. Xigbar se ne accorse e mi afferrò per un braccio, impedendomi di cadere. Il suo unico occhio color ambra mi squadrò con aria critica, ma senza cattiveria: “Sei sicuro di sentirti bene?”
Non sembrava avercela con me. Anzi, il suo sguardo esprimeva sincera preoccupazione. Mi divincolai dalla sua stretta: “No, niente… ho solo dormito poco, mi gira un po’ la testa… “
“Lo dico sempre io che troppo tempo sui libri brucia il cervello” sentenziò il numero II con un sorriso bonario. “Comunque, prima che me lo dimentico, Zexion mi ha detto di dirti che ti aspetta in biblioteca.”
“Cosa…? Te lo ha detto… lui?”
“Certo, e chi sennò? È stato molto carino ad andare a dormire dal Superiore per non disturbarti nel tuo esperimento. Io al suo posto non sarei stato così paziente!”
Non aveva senso. Le parole di Xigbar non avevano senso. Doveva essere di nuovo ubriaco.
“Bene, allora… allora vado a cercarlo” mi sentii dire.
“Sarebbe ora! Muoviti, lo sai che quel ragazzino mette sempre su quella faccia afflitta da bimbo a cui hanno ammazzato il pesce rosso quando non ci sei tu!”
Superai il numero II e percorsi altre due rampe di scale fino all’entrata della Biblioteca. Gli ultimi metri li feci quasi di corsa, la mente affollata da un vortice di sensazioni contrastanti. Zexion non aveva detto la verità al Superiore, aveva nascosto il suo vero stato d’animo agli altri membri dell’Organizzazione. E con la sua bugia, mi aveva protetto.
La porta della Biblioteca era aperta. Entrai e me la richiusi alle spalle, e per un attimo il rimbombo dei pesanti battenti che tornavano al loro posto rimase sospeso nel silenzio come la voce sorda e minacciosa di un tuono in lontananza.
Quando mi voltai, Zexion era in piedi di fronte a me.
Mi aspettava. Ovviamente mi aspettava, con il suo olfatto doveva aver percepito il mio arrivo già mentre parlavo con Xigbar. Non piangeva, non sembrava spaventato, ma nemmeno si mosse verso di me. Mi fissava con aria intenta, neutra, e io ebbi la precisa sensazione che mi stesse leggendo fin dentro l’anima.
“Zexion… “
No. In passato avevo già avuto la prova che le parole con lui non funzionavano, o quantomeno non erano la chiave giusta per guadagnare la sua fiducia. Le parole erano vuote, potevano ingannare, mentire, e Zexion sapeva vedere ben oltre il loro significato superficiale.
In due passi superai la distanza che ci separava e lo strinsi a me, prendendolo in braccio. Zexion non protestò, non si divincolò, anche se il suo corpo rimase rigido. Non ci badai e continuai a stringerlo con affetto, accarezzandogli i capelli, baciandogli la fronte e lasciando che il mio odore lo avvolgesse in un abbraccio ancora più dolce e protettivo di quello costituito dalla barriera fisica delle mie braccia. Non dissi nulla, permisi alle mie sensazioni di avere il sopravvento e di parlare per me, e pian piano sentii la tensione nei muscoli di Zexion allentarsi, mentre il suo corpo si rannicchiava contro il mio e le sue manine si allungavano per stringere i miei ciuffetti.
“Io non ti farei mai del male, Zexion. Voglio proteggerti. Tu sei… “
“Lo so” mi interruppe lui, e il suo sguardo per un attimo mi parve traboccare di una saggezza infinitamente superiore alla sua età. “Nessuno in questo Castello mi vuole bene quanto me ne vuoi tu. Neanche il Superiore.”
Non c’erano parole per rispondere a questo.
“Mi dispiace se ti ho spaventato. Mi dispiace tanto. Ti prometto che… “
“Lo so.” disse ancora lui. “A me dispiace che sei stato così triste” aggiunse poi.
“Perché non hai detto la verità al Superiore?” domandai, incapace di vincere la curiosità.
“Ti avrebbe mandato via!”
“E tu… tu non vuoi che io… “
“No!” protestò Zexion con forza, troncando la mia frase per la terza volta consecutiva. “Ma io lo so che neanche tu vuoi. Non volevi nemmeno quando stavi preparando le valigie.”
Faceva un effetto strano sentirsi leggere nel pensiero, come se la mia mente fosse un libro aperto del quale sono stati decifrati tutti i segreti. In altre circostanze lo avrei trovato inquietante, ma in quel momento non mi importava nulla. Il sollievo per non aver perduto Zexion era troppo grande. Con il tempo mi sarei abituato al suo potere, avrei imparato a conviverci. Gli avrei voluto ancora più bene per questo. Qualsiasi cosa, pur di continuare a stare con lui.
“Anche io ti voglio tantissimo bene, zio. Pensavo che lo potevi sentire anche tu. Ma ora so che non lo senti, e se vuoi te lo dirò tutti i giorni. Così sarai sicuro.”
Stavolta mi limitai a rispondere rafforzando l’abbraccio.
Grazie.
“Ora sarai meno triste?”
Finché avrò te non lo sarò mai.
“Toglimi una curiosità… “ dissi dopo un po’, lasciandolo scendere a terra. “Hai detto che tutte le persone hanno un proprio odore. Il mio com’è?”
Zexion mi regalò un sorriso raggiante. “Il tuo è il migliore!” esclamò. “Un buonissimo profumo di vaniglia.”
  
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