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Autore: arya_stranger    20/02/2015    0 recensioni
"Artiglio le lenzuola come se potessero ricevere da una qualche divinità trascendente l’energia vitale per spiccare il volo. Fisso le mie falangi ceree e smunte arpionare la stoffa candida. Il pugno si serra in una nervosa convulsione del polso e quasi sento gemere le gracili articolazioni. Le vene violacee affiorano in superfice, creando un intricato disegno dalle sfumature indaco. Uno spasmo mi scuote i muscoli dell’avambraccio contagiando con un tremito tutto il mio corpo emaciato."
L'esistenza di una creatura in lotta contro l'incommensurabile rottura della pazzia.
Genere: Introspettivo, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Artiglio le lenzuola come se potessero ricevere da una qualche divinità trascendente l’energia vitale per spiccare il volo. Fisso le mie falangi ceree e smunte arpionare la stoffa candida. Il pugno si serra in una nervosa convulsione del polso e quasi sento gemere le gracili articolazioni. Le vene violacee affiorano in superfice, creando un intricato disegno dalle sfumature indaco. Uno spasmo mi scuote i muscoli dell’avambraccio contagiando con un tremito tutto il mio corpo emaciato. Le ginocchia rabbrividiscono all’aderenza con il pavimento marmoreo e gelido. La lastra di ghiaccio preme furiosamente contro la rotula, vendicandosi di un torto ricevuto in passato. Forse qualche ciclo lunare fa potrei aver scaraventato un qualsiasi oggetto con un grado di insignificanza piuttosto elevato contro il linoleum, e questo sta solo facendo giustizia per le ferite ricevute. Dopo tutto comprendo il suo comportamento; credo abbia architettato accuratamente la sua rivalsa contro di me. Sarebbe ingiusto rendere vani i suoi sforzi tornano con i piedi per terra e in posizione eretta… Così rimango chino sopra il letto, e le ginocchia continuano a implorare.
Comincio a contare. Credo che l’infinita successione di numeri ripetuta finché la testa non scoppia sia il calmante più utile mai creato dall’uomo. Ho sperimentato l’incredibile futilità di quelle ridicole siringe allagate da strane sostanze opache con il compito di sedare ogni mio senso e impulso emotivo. Beh, è piuttosto ovvio che abbiano un loro particolare effetto, ma quali benefici ricevo da un sonno artificiale? Nessuno. Invece l’enumerazione di cifre in un susseguirsi di numeri inesauribili ha il potere di controllare la mia mente, generando una camera cerebrale in cui io mi possa isolare dal resto del creato. Lo spazio in cui ogni mia facoltà fugge, rende possibile ogni cosa, almeno per un periodo piuttosto circoscritto di tempo. Mi perdo in pensieri ingannevoli; immagini di quello che tutta la mia esistenza potrebbe essere, ma non è, riempiono la piccola stanza, affollando anche l’angolo più recondito. Arcani inconfessati, confutati dalla mia stessa logica, affiorano lenti da un fluido di torpore nel quale sono intorpiditi e addormentati. Ogni desiderio, aspirazione o fantasia si scioglie dalla fredda ragione e si lascia abbracciare come un vecchio amico.
E io mi abbandono a quella fugace evasione di coscienza, che mi consente di fare tutto ciò che voglio, a patto che ogni peripezia rimanga confinata in quel piccolo vano della mia testa.
Il vago sentimento di libertà svanisce quando comincio a percepire le quattro pareti avvicinarsi contro di me. Allo scoccare della fine del tempo concessomi, un porta viene disegnata sulla parete di destra e le vado incontro con riluttanza. Afferro saldamente la maniglia e la faccio ruotare, scorgendo fuori da essa il mondo reale, la cruda verità che consuma i cuori degli innocenti e alimenta il sangue dei peccatori.
Non ho altra opzione se non uscire, ed esco, come solo un essere sconfitto potrebbe.


Appena mi allontano dal pianeta fittizio dentro la mia mente per tornare alla Terra, capisco che non è stato il mio buonsenso a far sì che le pareti cominciassero a restringersi. Un fattore esterno ha contribuito alla riduzione del mio tempo a disposizione nell’unico luogo in cui io possa essere me stesso.
Qualcuno bussa alla porta delicatamente, come se avesse paura di farle del male. Ma in realtà so che quella morbidezza è causa mia. L’inutilità del tatto che ognuno mostra verso di me si rivela, come suole fare.
Mi immobilizzo sul letto nel quale sono disteso. Poi i miei muscoli reagiscono in meno di un secondo, spingendo le gambe a scattare in piedi.
Una tiepida e fastidiosa sensazione si espande dal petto fino allo stomaco. Deglutisco la poca saliva che rimaneva a umidificare la bocca, ormai arida.
Di nuovo un colpo alla porta. Questa volta più deciso.
Retrocedo tenendo lo sguardo fisso sulla porta. Non può accadere, non ancora. La mia mente non potrebbe sopportare un tale sforzo psichico.
Apro e chiudo i pugni ad intervalli stabiliti, cercando di regolarizzare la respirazione. Ogni volta che le punte delle dita vanno a toccare i palmi, le unghie si conficcano nella carne lasciando dei piccoli segni rossi a forma di luna. È buffo come gli astri mi vengano a far visita nelle più svariate forme. Non esco da questa camera da secoli, e da ancora più tempo non vedo il firmamento. Eppure lui ha trovato lo stesso il modo di venire a trovarmi, sulle mie mani, sotto forma di incisioni sulla mia pelle. Sotto forma di ferita. Sotto forma di sofferenza.
Un cigolio sfiduciato mi riporta alla realtà. Mi concentro sulla porta in procinto di aprirsi. Massimo due secondi e qualcuno entrerà da quella porta. Potrebbe essere un Camice Bianco, come li chiamo io. Potrebbe essere mia madre. L’unica certezza che ho è il fatto che non vedrò entrare mio padre. Mi odia per quello che sono diventato. Credo sia l’unica persona rimasta sana della mia famiglia. Gli altri cercano strani rimedi per far sì che torni “normale”. Mio padre è l’unico che comprende la mia incommensurabile rottura. Esatto, sono come un vaso infranto, e non posso essere riparato. Puoi impegnarti al massimo: scovare ogni frammento, perfino sotto il mobilio, comprare la migliore colla, passare ore a lavorare sulla ceramica. Eppure sai che, nonostante tutti gli sforzi, il vaso non tornerà mai più come era prima; e allora perché combattere così ostinatamente?
La porta si apre.
Sento un clic. Hanno disattivato la mia mente.
Comincio a gridare strappando dalla gola riarsa versi rochi e urla laceranti. È come se mi stessero sbranando la trachea, prima stuzzicandola per studiare attentamente ogni sua minuzia, e poi accanendocisi rabbiosamente.
Vorrei poter sbraitare che devo stare da solo con la mia anima e con nessun altro ente presente sulla Terra. Gli altri non possono sfruttare la mia esistenza a loro piacimento.
Le mie sinapsi mi trasmettono velocemente informazioni sotto forma di impulsi nervosi ed arrivo ad una sola e univoca conclusione: non posso evadere da questa prigione che ho forgiato con le mie stesse mani.
Sbatto la scapole contro il muro finché il mio corpo spossato non si abbandona e scivola lungo la parete.
Mi siedo per terra e avvicino le gambe al petto, nascondendo la testa fra le braccia avvolte attorno alle ginocchia. Se non posso scappare, per lo meno non voglio vedere, né sentire. Vorrei solo essere un piccolo organismo unicellulare. Magari un fastidioso batterio, così da poter infettare tutte le persone che nel corso della mia vita mi hanno fatto qualche torto. Mi vendicherei. Lo farei con il gusto con cui un generale osserva le sue legioni avanzare verso la vittoria. Però, dopo aver compiuto il mio progetto, mi sentirei l’individuo più infimo dell’universo conosciuto e non. È questo il problema della vendetta per noi animi sensibili: è semplicemente troppo, e il suo fardello ci schiaccia spietato.
Un mano si posa sulla mia spalla magra. Trasalisco ma mi costringo a rimanere immobile. Ogni mia ribellione risulterebbe alquanto inutile e controproducente. La persona che ha appena poggiato la mano sulla mia spalla si china fino a raggiungere la mia altezza. Per un secondo non succede nulla. Poi mi solleva delicatamente la manica del camice bianco-azzurrino -che qui indossano tutti i pazienti- fino a lasciare scoperta la spalla.
“Farà un po’ male” sussurra una voce serena.
Immediatamente sento qualcosa pungere la carne del mio braccio e poi un liquido vischioso comincia a passare attraverso quella che sono certo sia una siringa. Il fluido che entra nel derma è denso e mi provoca un bruciore diffuso per tutta l’area attorno alla puntura.
È questione di qualche secondo prima che la coscienza cominci a diventare scura. Le palpebre cadono e mi lascio trasportare dalle braccia dell’oblio.


Il lento e regolare bip della macchina che misura il battito cardiaco mi risveglia dal sonno artificiale  in cui ero caduto. Riesco a socchiudere leggermente le palpebre incollate dalle piccole lacrime del sonno. I miei occhi si aprono e riesco a far entrare nelle mie pupille la luce, innescando un loro immediato rimpicciolimento. Faccio scontrare le ciglia fra loro qualche volta, finché non mi abituo al forte chiarore che riempie la stanza.
Cerco di avvicinare la mano destra alla fronte per allontanare qualche ciuffo di capelli che è finito sopra gli occhi, ma mi accorgo che nell’incavo del mio gomito è infilato un tubicino. Mi hanno attaccato alla flebo, nemmeno fossi un paziente in fin di vita. Afferro la farfallina a cui è collegato il tubicino e sfilo l’ago dal mio braccio.
Mi tolgo le coperte di dosso con rabbia e mi alzo di scatto. Per un momento sento la testa girare e credo di cadere. Rintraccio un punto di appoggio e trovo il piccolo comodino in compensato ricoperto di plastica. Socchiudo gli occhi e prendo un respiro profondo. Ritrovo l’equilibrio e la mia mente vaga in cerca di quella piccola stanza in cui io possa liberarmi.
Ci sono dei momenti in cui le mie capacità psichiche subiscono delle alterazioni, o almeno questo è quello che mi hanno detto. La mia mente è come divisa in due: una parte vive nella realtà concreta e l’altra nel mondo utopico creato da me.
Ho provato a continuare a condurre una vita normale, ma la vergogna che mi assaliva ogni volta che le persone mi squadravano dall’altro al basso mi cristallizzava e non riuscivo più a mettere piede fuori di casa. Poi è peggiorato. Non volevo che nessuno mi venisse a trovare, non volevo che nessuno mi vedesse in quello stato. Ero turbato dal fatto che gli altri potessero pensare cose maligne riguardo me e quello che mi stava accadendo. Questa vergogna in cui stavo galleggiando mi impediva di fare qualsiasi cosa che non fosse chiudermi in una stanza e piangere finché la stanchezza non vinceva sulla mia depressione e cadevo nel sonno. Questa vergogna ha portato mio padre ad odiarmi con tutto il suo cuore. Non mi crede una persona sana di mente, ed ha ragione. So che non è lui quello nel torto. Questa vergogna è quella che ha portato mia madre a diventare apprensiva, agitata, inquieta ad ogni mio minimo comportamento strano. Questa vergogna è quella che mi ha portato al ricovero, un ricovero che ormai dura da mesi, o forse anni, non lo so. I giorni si susseguono in una monotonia di esami, sedute psicologiche e psichiatriche condotte da persone (così squilibrate da scegliere un lavoro del genere) che cercano di aprirmi la testa per vedere quali schifezze ci siano dentro. Questa vergogna è quella che mi ha portato ad un’irrimediabile autodistruzione, il cui fascino mi ha talmente catturato da non potergli resistere. Mi sto disfacendo con le mie stesse mani, ma non me ne curo, è una poltiglia di sofferenza il cui torpore mi avvolge adombrando i sensi. Questa vergogna è quella che mi ha portato ad un odio verso me stesso che sarebbe capace di portarmi alla morte in meno di un minuto. Solo una cosa mi è rimasta: il rifugio di stoicismo che nella mia mente prende la forma della piccola stanza dalle quattro pareti. È una sorta di sonno in cui posso precipitare tutte le volte che lo ritengo utile, a mio piacimento. È come il sonno artificiale a cui mi costringono i Camici Bianchi ogni volta che divento ingestibile e i miei nervi scattano senza nessuna regola. Forse quella piccola stanza è davvero una sorta di sonno chimico, solamente non è provocato dalle medicine, ma da un difetto della mia mente.
E se un torpore generato artificialmente, per di più da me stesso, è l’unica soluzione che ho per combattere e sterminare le faville di vergogna che si scagliano contro di me come frammenti di ghiaccio nel cuore, non posso fare altro che inginocchiarmi a questa condizione.
Forse, un giorno, non riuscirò più a raggiungere il mio piccolo mondo plasmato dal mio sonno chimico. Quando quel giorno arriverà, non mi resterà che gridare per il silenzio. 




 
   
 
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