Anime & Manga > Magi: The Labyrinth of Magic
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Autore: Alex Wolf    21/02/2015    1 recensioni
Nessuna introduzione per questa storia.
Nessun racconto per questa ragazza.
Nessuna certezza di un finale felice, in questo mondo corroso dalle tenebre che soffocano la luce.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Sinbad, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo II
 



Yunan.
 

Non saliva su un’imbarcazione da settimane ormai. Le assi di legno che scricchiolarono quando mise piede sul ponte la indussero a sorridere, prima che ispirasse a pieni polmoni. L’odore di salsedine le riempì il naso, la portò ad assottigliare le palpebre e a godersi lo stridio dei gabbiani che, volando a destra e a manca vicino alla vedetta, attendevano qualche sfortunato pescatore a cui rubare il pesce. Un leggero venticello le accarezzò il corpo, come a volerla salutare. Darle il benvenuto.
Si sarebbe rimessa in viaggio prima, sfortunatamente una brutta tempesta si era abbattuta sulle coste e aveva bloccato spedizioni e partenze, costringendo tutti a rintanarsi nelle locande della zona. Tennah ne aveva approfittato per studiarsi le nuove mape navali. A quanto pareva erano in continua espansione, e si spingevano sempre più in la ogni volta che metteva le mani su qualche carta nuova. Nuovi luoghi da esplorare, nuove specie e culture da conoscere e apprendere. Per questo ci stava mettendo tanto a mantenere quella parola data tre anni prima. Più si convinceva che era arrivata l’ora di tornare, più il mondo la poneva davanti a nuove avventura. E lei di certo non era una che si tirava indietro. Le piaceva rischiare, l’aveva fatto anche poco tempo prima quando durante il suo percorso si era imbattuta in un personaggio alquanto bizzarro che l’aveva, praticamente, calciata dentro quello che lei sapeva essere un dungeon. Se ci ripensava, però, le veniva da sorridere inconsciamente.
 
Era un giornata tranquilla. Beh, a dire la verità mica tanto: la strada che si era ritrovata a percorrere si era rivelata più accidentata del previsto e meno affollata, con poche macchie di vegetazione sotto cui riposarsi di tanto in tanto. Il sole splendeva alto nel cielo, luminoso come la stella del mattino che era però, c’era da ammetterlo, a Tennah sembrava fin troppo luminoso. E caldo. Sebbene indossasse abiti leggeri e chiari sudava costantemente. “E’ un bene,” le aveva detto un uomo incontrato per caso a cui aveva chiesto un passaggio, “sudare ti ricorda che devi bere. E la voglia di dissetarsi ti rammenta che sei viva.” Lei aveva sorriso e annuito, poi era saltata giù dal carretto al momento dei saluti. E adesso eccola li, diretta verso una città nuova con tanta, tanta voglia di riposarsi.
Si passò una mano sulla fronte, coprendosi gli occhi dai forti raggi solari. Davanti a lei, qualche metro più avanti, la strada veniva accerchiata da un piccolo boschetto che, Tennah lo sapeva bene visto che aveva studiato le carte del luogo, scendeva verso valle e si apriva in un meraviglioso ventaglio di verde e ombr, e ruscelli in cui rinfrescarsi.
«L’entrata della valle. Dio esiste» sospirò a voce alta, aumentando la velocità. Poteva già sentire la calura che l’abbandonava mentre entrava nel bosco. Ascoltava i canti degli uccelli e sentiva i profumi dei fiori.
Con le ultime falcate s’inabissò nella coltre armoniosa e vivace, dimenticandosi del dolore ai piedi per il troppo camminare, e quello alle gambe sbucciate a causa di una recente caduta. Scordò il prurito che le conferiva l’ustione causatale dai raggi solari. Semplicemente, appena trovò il primo ruscello vi si buttò dentro di corsa. Si sentiva sporca e puzzolente, e  quando l’acqua sembrò sfrigolare a contatto con la sua pelle, mentre s’immergeva finché l’unica cosa salva dalla dolce carezza del freddo fu il naso, si lasciò sfuggire un sospiro. Rimase in quella posizione da coccodrillo a lungo, osservando ogni cosa con interesse mentre i capelli le danzavano attorno come serpenti fatti d’oro bianco.
Stilettate di luce gialla s’insidiavano radamente dalle fronde degli alberi. Guardando bene quel posto, si era ritrovata a pensare, sembrava di stare in un luogo a metà tra il vero e il falso. Era talmente reale che sembrava finto. Forse lo era. Forse era svenuta e stava sognando. Per accertarsi della cosa, prese fra l’indice e il pollice un pezzo di pelle e lo contorse girandolo su se stesso. Il dolore ci mise poco ad arrivare e immediatamente lei lasciò la presa. Non era una che sopportava molto, a dirla tutta. Comunque fu felice di sapere che non stava immaginando tutto. S’immerse completamente, nuotando contro corrente finché il fiato glielo concesse. Continuò così ancora per un po’, finché non decise che era ora di mangiare. Nuotando a cagnolino, o facendosi portare dalla corrente, si ritrovò ben presto dove aveva lasciato le bisacce. L’unico problema ora era che c’era qualcuno a rovistare li in mezzo.
Un giovane uomo, all’apparenza un viaggiatore come lei, con una lunga treccia bionda e i vestiti verdi. Si mordeva la lingua di tanto in tanto, e faceva sguardi sorpresi quando estraeva qualcosa di strano da una delle sacche. Fu quando raccolse dal fondo dell’ennesima un piccolo pendente che lei sembrò ridestarsi da un qualche sogno. Scattò in piedi, smuovendo le acque ce andarono a creare increspature, e puntò un dito contro lo sconosciuto.
«Che diavolo credi di fare, furfante!?» L’uomo si voltò a guardarla. «Metti subito giù la mia roba e pussa via. Schò schò!» Lui arrossì all’improvviso, voltandosi come un turbine dalla parte opposta. Un velo di sudore che, improvvisamente, era andato a brillare sulla sua fronte.
Incuriosita da una simile reazione Tennah fece qualche passo in avanti, finché non lo raggiunse. Forse non stava rubando, forse tentava di trovare una risposta alla domanda: “di chi saranno questi oggetti?”. Allungò un braccio a sfiorargli la spalle e questo tremò. Si coprì gli occhi con entrambe le mani. «GIUROCHENONHOVISTONULLAAAAAA» affermò tutto d’un fiato. Un lampo, un’immagine baluginarono nella mente della giovane donna che accortasi del suo stato attuale arrossì a sua volta e si adoperò con velocità per vestirsi. Ordinò più volte al biondo di non voltarsi, cercando fra le sue cose per trovare le bende con cui si sarebbe fasciata il seno, i vestiti puliti. E intanto si immaginava come potesse essere la scena vista da fuori, da un passante che era li per caso e si ritrovò a ridacchiare. Sicuramente era un bel siparietto comico.
Quando fu pronta, aggirò l’uomo che ancora si ostentava a tenere gli occhi chiusi e vi si sedette davanti. «Sono vestita. Puoi guardarmi, se ti va.» I suoi grandi occhi azzurri si mostrarono.
Sbatté le palpebre, prima di stropicciarsi gli occhi ormai abituati al buio. Vedendoli da vicino poteva ammettere che erano davvero limpidi, infantili. Belli.
«B-b-buon pom-me-meriggio» balbettò, accarezzandosi i lunghi capelli biondi. Il volto rosso.
«Buon pomeriggio a te» sorrise la giovane donna, tentando di metterlo a proprio agio. Non le piaceva che le persone si trovassero in imbarazzo di fronte a lei, in quanto conosceva bene quella sensazione. L’aveva provata più volte all’inizio del suo viaggio, arrivando alla conclusione che imbarazzarsi non sarebbe servito a nulla. Solo a farti stare sull’attenti per ogni minima questione.
«Come ti chiami?» Silenzio. Quiete interrotta solo dal cinguettio costante dei fringuelli, il fruscio delle foglie e lo scorrere tranquillo e monotono del piccolo fiumiciattolo. Ma nessuna frase. Vedendo che l’uomo non le rivolgeva ancora la parola, Tennah incrociò le gambe e vi poggiò sopra i gomiti. Le guance schiacciate contro i palmi aperti, che le tiravano le labbra verso l’alto. Doveva essere buffa, o almeno era quello il suo intento. Tentò con qualcos’altro: «Beh, vuoi dirmi perché frugavi fra la mia roba?»
«I-io» parlava veloce, inciampando sulle lettere, «michiamoYunanestavocercandoqualcosadamangiarequandohovistoletueprovviste!» La bionda rizzò la schiena, strabuzzando gli occhi. Che strana lingua era mai quella?
Vedendola in difficoltà il giovane prese un bel respiro, si fece forza e ingoiò un fiotto di saliva. Era difficile parlare con qualcuno che non aveva inibizioni (non fino a un momento prima almeno). E ancor più difficile ammettere che si vergognava delle sue azioni. Ma doveva una risposta alla donna, perciò tanto valeva parlare senza troppe complicazioni. «Io… mi chiamo Yunan e sono un viaggiatore. Ho sentito odore di cibo ed essendo affamato ne ho seguito la scia, che mi ha portato fino al tuo saccone. Ho pensato che qualche viandante l’avesse scordato, così…» abbassò lo sguardo e prese battere le punte degli indici fra loro, nuovamente rosso in viso. 
Si aspettava che da un momento all’altro la donna gli tirasse uno schiaffo, oppure gli gridasse contro. Invece, rimase piacevolmente sorpreso quando quella, dopo essersi diretta verso lo zaino, tornò con le braccia colme di cibo. Qualche frutta fresca, del pane che sembrava ancora buono, pezzi di formaggio secco e una bisaccia con dell’acqua. Gli porse qualcosa, appoggiando il resto a terra davanti alle loro gambe. Poi, in un gesto teatrale contornato da un sorriso docile, gli indicò il cibo abbracciandolo con le braccia. «Se avevi fame bastava dirlo subito! Buon appetito, Yunan.» E giù un morso a una succosa mela verde.
Era strano, Tennah doveva ammetterlo, ma quegli occhi da cerbiatto le avevano come stregato il cuore. Non era amore quello che sentiva, solo tenerezza. Già. La voglia di prendersi cura di qualcuno che sembrava indifeso si era ridestata in lei dopo tempo. Certo, durante il viaggio le era capitato più volte di occuparsi di bambini affamati e cose così, ma questo momento le sembrava diverso. Quei bambini, seppure piccoli, avevano già negli occhi uno sguardo indagatore e nella mente gli insegnamenti dei genitori. Lei sapeva che potevano cavarsela da soli, ne era certa. Come loro anche lei era cresciuta in simili condizioni, poi era stata venduta ma questa è un’altra storia. Mentre Yunan, quell’uomo pallido che aveva chiesto in prestito al cielo il colore degli occhi, sembrava così innocente. Spensierato. Le faceva sorridere il cuore, ecco.
Rimase a osservarlo, mentre un rivolo di succo acerbo le colava sulla mascella e lei l’asciugava distrattamente. Lui mangiava da prima a piccoli bocconi, per poi addentare sempre più polpa. Era così infantile che Tennah si ritrovò a sghignazzare, nascondendo il viso dietro la mela mangiucchiata.
«Che fe?» Sembrava un coniglio.
«Mh? No, niente.» La ventiseienne socchiuse le palpebre, poi lanciò il torsolo della mela alle spalle e si asciugò le mani alla gonna leggera che indossava. Successivamente, tornò a osservare il biondo dalla lunga treccia che s’ingozzava. Le guance nuovamente poggiate sui palmi aperti, che le spingevano in alto. «Comunque, io sono Tennah. Molto piacere.»
S’incamminarono assieme, da li in avanti. Era stata un’idea d’entrambi, ed entrambi avevano convenuto che sarebbe stata una buona cosa. Dopo tutto, viaggiare in coppia era sempre più divertente e quella volta non fece eccezione. Con l’aiuto di Yunan, che si dimostrò un esperto in varie cose, Tennah imparò i nomi di varie piante e le loro qualità. Scoprì che esisteva una pianta che cresceva solo in quel luogo e che poteva curare molto bene l’avvelenamento di qualsiasi genere. Ne colse un bel po’, assieme ad altre, giusto per precauzione. Non si poteva mai sapere. In cambio, la giovane insegnò al viandante i luoghi migliori per ripararsi e per accendere fuochi con qualsiasi oggetto, e a cucinare. Purtroppo l’amico si rivelò un po’ negato con quest’ultima qualità, nulla che non si potesse migliorare col tempo lo rassicurò lei con qualche pacca sulla spalla.
«Ehi, afolfa» le disse una sera lui, mentre si gettava a capo fitto sulla coscia di un coniglio che, sfortunatamente, gli era capitato davanti durante il tragitto. Il grasso che gli colava sulle dita, ma lui non sembrava farci caso. «Lo sai che dofe ti fai dirifenfo fu fe un dungeon?»
Tennah smise di cucire il pelo del povero animale e si voltò a guardare l’uomo. La corteccia contro cui era appoggiata era liscia e calda, però nascondeva delle insidie. Perciò, quando spostò le spalle nella direzione di lui un piccolo rigonfiamento le graffiò la pelle. Ci fece poco caso, comunque. «Ti ho già detto che con la bocca piena non si parla. Anche perché, non capisco nulla di quello che dici.»
Yunan ingoiò velocemente, poggiando nella sua ciotola il cibo. «Lo sai che dove stai andando tu c’è un dungeon?»
Dungeon. Che strana parola. Non era la prima volta che le capitava di sentire una cosa simile, molte volte mentre stava facendo rifornimenti le era capitato di udirla. Ma cos’è quel “dungeon” proprio non se lo ricordava. Eppure, avrebbe dovuto. Sembrava un cosa così importante.
Perciò, si limitò a inarcare le sopracciglia e riprendere a cucire.
Il Magi osservò la compagna di viaggio, intenta nel suo lavoro e incurante del suo sguardo. Il fuoco le danzava sulla parte sinistra del viso, illuminando uno spicchio di cicatrice che le risedeva sul ponticello del naso. Si era chiesto più volte come se la fosse procurata, ma non l’aveva mai domandato direttamente. Però, adesso non era quella la sua priorità. Ora doveva scoprire il perché di tale disinteresse verso i dungeon. Non gli era mai capitato durante il suo girovagare di trovare qualcuno a cui non importasse niente della torre apparsa dal nulla. Insomma, bene o male tutti erano incuriositi dai segreti che si celavano all’interno delle torri. Yunan s’imbronciò.
«Smettila di fissarmi così, è imbarazzante» borbottò a un tratto lei. Odiava essere osservata, la faceva sentire scoperta. Indifesa. Era come se tutti i suoi difetti venissero analizzati e poi stilati uno a uno; e lei ne aveva tanti, di difetti. Per questo non sopportava essere guardata.
Yunan abbassò velocemente lo sguardo, giocando con i suoi stivali. «Non ti interessa nulla dei dungeon?» domandò.
Tennah scosse il capo. «Dovrebbe?»
«Mhhh. Sinceramente? Non ne ho idea. Però, non ho mai incontrato nessuno a cui non importasse di diventare ricchissimo affrontando il “grande mistero” celato dietro le mura delle torri, sebbene il costo in palio è la propria vita.» la guardò di sfuggita, e gli parve di vedere una scintilla brillarle nell’unico occhio a lui visibile.
«Ahhhh, quello è un dungeon.»
«Che hai detto?» lui sbatté le palpebre sorpreso, tentando di capire le parole che poco prima lei aveva sussurrato.
«Nulla. Niente.» La ragazza si mosse, sdraiandosi a pancia in giù rivolta verso di lui. Continuava a cucire quella che sarebbe diventata una sacca di pelo grigio e bianco, morbido e impermeabile. Si sentiva fortunata: Yunan non aveva appreso la frase che poco prima aveva soffiato dalle labbra.
«Ad ogni modo, non mi interessano le ricchezze» affermò di punto in bianco. «Non ho mai vissuto nel lusso, e non saprei che farmene di tutto quell’oro che dicono venga donato ai conquistatori. Io sto bene nel mio piccolo.» Ed era vero. L’oro e i gioielli, certo gli avrebbe fatto piacere indossarne qualcuno di tanto in tanto, non avevano mai fatto realmente per lei. Le piacevano i vestiti che indossavano le dame, così colorati e leggeri, e con le monete ne si potevano comprare a borsate ma non le servivano. Aveva i suoi abiti, e si procurava i soldi con il sudore. Era sempre stata la sua regola principale: o si suda, o non si merita nulla.
Perciò, perché crogiolarsi in un oro guadagnato con facilità, fra servitori e leccapiedi, in un materasso morbidissimo piuttosto che in un piccolo letto –comprato con gli sforzi- sotto le stelle?
Senza accorgersene, aveva fatto sorridere Yunan. «Mi piace il tuo modo di pensare, Tennah.» Si pulì le mani con un fazzolettino che poi gettò nel fuoco. I loro occhi s’incontrarono per un secondo, e lei si ritrovò a pensare che lo sguardo dell’amico sembrava quello di una guardia: indagatore. Non sapeva se era il fuoco che li divideva a dargli quell’aspetto, comunque Yunan incuteva una certo senso d’inquietudine.
Tennah abbassò prontamente lo sguardo, tornando al suo lavoro con ago e filo. Lui continuò, poggiando le mani alle sue spalle sull’erba fresca. «Però, se non ti dispiace, visto che le nostre strade presto si divideranno: che ne dici di dare un’occhiata al dungeon che risiede nella prossima città?»
Lei sembrò pensarci –in realtà lo stava facendo- ma poi lo guardò e la sua forza di volontà vacillò. Non avrebbe voluto avvicinarsi a quel luogo avido ma Yunan aveva quel sorriso tanto innocente… Se avesse saputo allora quello che sarebbe successo, probabilmente, non avrebbe accetto.
Ma non poteva viaggiare avanti nel tempo, perciò si ritrovò a sospirare annuendo. «D’accordo. Credo che un’occhiata non potrà fare male a nessuno.» Ah, quanto si sbagliava.
 
Il giorno dopo si alzò con le primi luci dell’alba. Il sole filtrava con più naturalezza fra le fronde verdi colorando il prato di luce gialla, ed illuminando la rugiada di tanti minuscoli arcobaleni. In lontananza si poteva sentire qualche carovana di passaggio, diretta dalla parte opposta alla loro. La città a cui si stavano dirigendo era famosa per il suo porto, da cui attraccavano persone di tutte le nazionalità in cerca di nuove scoperte e –ora che se l’era ricordato- fortuna.
«Dai, svegliati bell’addormentato. Se continui a dormire con la bocca aperta finirai per fare da latrina agli scoiattoli.» Diede qualche calcetto al ventre del compagno esortandolo ad aprire gli occhi, ma l’unica risposta che ottenne fu un mugolio e la vista delle sue spalle.
Tennah sospirò, grattandosi distrattamente il capo. I capelli erano più lunghi di quanto si ricordasse e mossi. Le dita fini s’impigliarono nei nodi formatisi la sera prima, quando, distrattamente, le passò fra quelle corde d’oro. Si chiese se anche quelli di Yunan fossero così, sebbene a guardarli si sarebbe detto di no. Non volle indagare. Il confronto con l’uomo era ben evidente, meglio se non si girava il dito nella piaga.
Lui era ben tenuto, lei non era a quel livello. Camminavano e si sporcava, mentre il biondo sembrava riuscire a restare lindo; si sedevano e, casualmente, prendeva sempre la parte bagnata del prato; mangiavano e si ungeva le guance e il collo e i vestiti, mentre lui combinava era sempre pronto con un fazzolettino. Così, senza volerlo, persa nei suoi pensieri e con gli occhi alzati al cielo che si scorgeva fra le fronde, Tennah rifilò a Yunan un calcio. Doveva aver usato più forza del previsto perché l’uomo soffocò un grido, coprendosi la parte dolorante della schiena con le mani. «TENNAAAAAH!» ululò.
«AH, finalmente sei sveglio!» Non ricevette mai occhiata più tagliente.
Il percorso verso la città fu più tranquillo del risveglio. Usciti dall’immensa foresta i due viaggiatori vennero accolti dal sole caldo, e il rumore dei gabbiani e delle onde. In lontananza si poteva vedere il porto, delimitato dalla battigia bruna. Alla donna sfuggì un sospiro d’estasi quando, all’improvviso, affiorò dalla discesa un carro trainato da enormi buoi. Grandi animali, la cui spalla sorpassava quella di Yunan che era più alto di lei, con lunghe corna appuntite bianche e brillanti; anelli d’oro al naso e zampe possenti. I muscoli guizzanti per lo sforzo.
«Ricordami di comprarne uno» chiese all’amico, mentre questo la prendeva per il manico della sacca e la portava verso destinazione.
Le strade del villaggio li accolsero in un misto di colori e profumi, e risate. Viaggiatori e marinai si confondevano con i commercianti, parlando fra loro come vecchi amici. Qualche bambino correva a destra e a manca, chi rincorrendo un cane chi rubacchiando in giro. Qualcuno, dopo essersi fermato a osservare Tennah e Yunan si fermò persino per tirare la lunga treccia di quest’ultimo prima di scappare via gridando divertito. Dopo l’ennesima volta, il magi decise di nascondere la treccia nel largo cappello verde che poggiava sul suo capo.
«Allora, Yunan, dov’è questo dungeon che tanto volevi vedere?» domandò la bionda, mentre pagava un anziano per della frutta. Aveva deciso che sarebbe stato meglio accontentare l’amico al più presto, in modo da potersi mettere in viaggio il prima possibile. Già sentiva il piacevole dondolio delle onde che la cullava la notte; l’odore di salsedine e i versi giocosi dei delfini che l’accoglievano la mattina presto, quando si avventurava su ponte per vedere l’alba.
Come risvegliatosi da un sonno apparente, il vecchietto ingobbito che stava mordicchiando le monete si ridestò. Alzò i lucidi occhi neri in quelli dei due e disimpastò la bocca quasi completamente sdentata. «Ah, eccone altri due» sospirò. Prese le mani di Tennah e vi ripoggiò le monete sbavate, richiudendovi le dita della ragazza attorno. Lei sbatté le palpebre, sorpresa. «Siete i settimi questo mese. Vi auguro buona fortuna.» E li lasciò soli, dedicandosi ad altra gente.
Questa poi, pensò la giovane. Prese l’amico per la manica e lo trascinò verso un’altra bancarella, mentre Yunan spiegava la posizione esatta del monumento.
La città sembrava diradarsi man mano che l’uomo la conduceva verso la meta. Le case di pietra lasciavano spazio a carovane e accampamenti, per la maggior parte abbandonati. Qualche donna cucinava innanzi a un fuoco, ogni tanto la bionda ne vedeva qualcuna piangere. E poi, c’erano infinità di bambini e capre.
«Dove sono gli uomini di queste famiglie?» pensò a voce alta la giovane. Con gli occhi ambrati seguiva ogni increspatura che il vento creava sulla sabbia. Sembrava di essere affondati in un altro mondo, del tutto diverso da quello allegro della città. Era incredibile come a distanza di pochi metri qualcosa potesse trasformarsi.
«In città, a prepararsi per entrare nel dungeon oppure morti.» Nella voce di Yunan c’era una certa sfumatura che Tennah non riuscì a identificare a cui, però, decise di conferire una semplice emozione: sconforto.
Insomma, non doveva essere che quello. Vedere tutte quelle donne che piangevano per via della scomparsa dei mariti, per la consapevolezza di dover crescere dei figli senza nessuno accanto. Ti portava allo sconforto, no?
Lei voleva andarsene da quel luogo, al più presto. Così, ravvivandosi i capelli spettinati si voltò verso il compagno e disse: «Quanto manca ancora?»
«Siamo arrivati, a dire la verità», e puntò un indice contro l’orizzonte.




Era simile a un grosso serpente. S’arrampicava verso il cielo attorcigliandosi attorno ad uno scoglio bello alto collegato alla terra da una scalinata di roccia; più si andava verso l’alto più il dungeon diventava imponente, e si perdeva fra le nuvole. Sui suoi fianchi si alternavano anelli neri attraversati da preziose decorazioni d’argento e madreperla, che rilucevano al sole creando giochi di luce cangianti; si rincorrevano, poi, preziosi intarsi di quelli che sembravano diamanti e acqua marina. E lassù, sopra l’immenso portone che concedeva l’accesso, stava una pietra ovale nera e lucida, ben visibile persino dalla distanza a cui si trovava Tennah.
La giovane socchiuse le labbra, meravigliata da tanta  inaspettata e guardò i grandi cerchi d’argento che circondavano il serpente. Seguì Yunan su per la scalinata di pietra, in un silenzio rotto solo dal rumore delle onde che s’infrangevano contro il basso della scogliera. Quando arrivarono vicini all’entrata, però, la bionda si fermò. Non aveva alcuna intenzione di avvicinarsi più di così, in quanto aveva paura di finirci dentro. Maldestra com’era di certo non ci sarebbe stato da meravigliarsi se fosse inciampata e caracollata dentro quella cosa.
Rabbrividì al solo pensiero, abbracciandosi da sola. Ingoiò un fiotto di saliva a vuoto, lanciò un’occhiata veloce alle spalle di Yunan e fece qualche passo indietro. Da adesso le loro strade si sarebbero divise: l’uomo sarebbe salpato per una destinazione differente dalla sua. Tennah sarebbe nuovamente rimasta sola nel suo viaggio. Un po’ le dispiaceva, dopo tutto Yunan si era rivelato una buona compagnia. Si era abituata a lui, chissà come sarebbe stato ora che non l’avrebbe più avuto al suo fianco. Era difficile da immaginare. Però, quella era la verità: il loro viaggio assieme era finito, da adesso si tornava alle origini.
«Bene», batté le mani fra loro, per poi sfregarle, «avevi ragione: questa… cosa è davvero bella. Ma, ehm, ora devo andare. La mia nave salperà fra qualche ora e devo ancora fare i preparativi e…» gli occhi di Yunan erano davvero azzurri quel giorno, pensò, quando l’uomo si voltò a guardarla. Si sentì improvvisamente una fuggitiva e la cosa la mise a disagio. Aveva così tanta voglia di abbandonarlo?
«E’ stato un piacere viaggiare con te.» Si tolse il capello, piegando leggermente la testa a destra. La lunga treccia chiara gli ricadde sulle spalle, sfiorando il suolo. Sembrava che attorno a lui si fosse creata come un’aura d’orata. Tennah si sentì in dovere di andargli incontro, dirgli “grazie” per tutte le cose che le aveva insegnato.
Perciò fu una sorpresa quando, mosso qualche passo nella sua direzione, si ritrovò catapultata verso la porta. Sbarrò gli occhi, gracchiando infastidita quando il calcio le colpì il sedere. Dopo di che, ricordò solo di aver urlato il nome dell’amico ed essersi ritrovata in un lungo tubo del color dell’oro. Se ne stava beata fra le stelle, cosa che l’affascinava tantissimo, mentre una forza maggiore le conferiva sempre più velocità.
«Dio» mormorò estasiata, dimenticandosi di essere capitata nella situazione che voleva evitare. «E’ meraviglioso.» La velocità aumentò e, senza rendersene conto, Tennah si ritrovò avvolta dalla luce.
 
Continua…
 
  
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