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Autore: _Pulse_    22/02/2015    3 recensioni
[Dal Capitolo 2]
«Come sta?», gli chiese Alex, rompendo quel silenzio che l’avrebbe fatta diventare matta se sommato all’innocente bellezza degli occhi di Merlino.
«Molto meglio. Ora dorme».
«Bene. Come hai detto che si chiama?».
«Artù».
«E tu e lui… vi conoscete da molto?».
«Da sempre».
Alex sollevò di scatto gli occhi e trovò i suoi luminosi, anche se velati di lacrime. Si chiese se fosse il caso di continuare con quell’interrogatorio o se fosse più opportuno aspettare che fosse Merlino a parlarle di lui. Dopotutto l’aveva soccorso – se non salvato – e l’aveva ospitato a casa sua: qualche informazione in più era un suo diritto, se la meritava.
Ma forse l’unica vera ricompensa che desiderava era proprio quella che Merlino le offrì, prendendole inaspettatamente una mano e stringendola forte tra le sue, facendo sì che i loro occhi si incatenassero.
«Ti sei tuffata nel lago per aiutarlo, vero?».
Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Merlino, Nuovo personaggio, Principe Artù
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Buon pomeriggio! 
Spero stiate tutti bene, perché io ho avuto una giornatina niente male al lavoro. E mi sono detta che per tirarmi su di morale ci voleva proprio una cosa: entrare nel mondo di Merlino e Artù! :)
In questo capitolo finalmente verrà spiegato il motivo dell'assenza della magia e spero vivamente sia una spiegazione plausibile (io fossi stata in Merlino avrei fatto lo stesso).
Alex l'ho un po' trascurata ultimamente, lo so, ma nel prossimo capitolo tornerà più in forma che mai! ;)
Ah, prima di augurarvi buona lettura volevo solo informare che chi fosse curioso (o si trovi con molto tempo da perdere) questa è la mia pagina facebook, dove potete trovare tante foto riguardanti questa storia: locations, prestavolto... cose così. u_u
Bene, ora vado. Buona lettura e alla prossima!

Vostra,

_Pulse_

 

 

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6. The beginning of the end

 

«Artù! Non ci posso credere, siete ancora a letto?! Alzatevi, pigrone!».
Il re respirò profondamente, cercando di trattenere la rabbia.
Si era abituato ai gabbiani che seguivano il corso del fiumiciattolo per arrivare al lago, ma non si sarebbe mai abituato ai risvegli bruschi di cui Merlino era sempre stato un professionista.
«Avanti, devo farvi vedere una cosa!».
Artù si alzò controvoglia e con un diavolo per capello, ma non appena fu alla finestra vide Merlino appoggiato al cofano di una di quelle automobili, con gli occhi luminosi e fieri. Era diversa rispetto a quella che aveva Lady Alexandra: era più lunga, più bassa, senza il tetto e color blu notte.
«Allora, che ne dite?», gli chiese, aprendo le braccia. «Sono andato a ritirarla mentre voi dormivate e ora fila che è una meraviglia!».
«Sorprendente, Merlino. Non ci salirò mai».
Lo stregone aprì la bocca, scioccato, ma Artù non gli diede il tempo di dire nulla, chiudendosi la finestra alle spalle.

 
«Perché non dovreste salirci?», gli chiese attraverso la porta del bagno.
Artù finse di non averlo sentito e si versò un po’ di shampoo sulla mano, per poi inschiumarsi i capelli.
Due giorni prima aveva scoperto la doccia – un’altra invenzione del XXI secolo che avrebbe voluto avere a Camelot – e da allora non ne aveva più fatto a meno.
«Artù, non avrete per caso paura?».
«Smettila di dire fesserie e lasciami in pace!», urlò.
«Avete nostalgia del vostro destriero? Lo capisco, ma è da secoli che non si usano più i cavalli per andare in giro! Se può rassicurarvi, i cavalli ci sono, dentro le auto!».
«Merlino…», cercò di azzittirlo pronunciando solo il suo nome, tra i denti.
«Sentite, dobbiamo percorrere diverse miglia e l’auto è il mezzo più comodo e veloce, perciò dovrete fare uno sforzo».
«E dove dovremmo andare? Non mi sembra di aver organizzato alcuna spedizione. Hai di nuovo dimenticato che sono io che do’ gli ordini?».
«Come volete. Dobbiamo andare a Newport, una città ad un quarto d’ora da qui in auto, per fare rifornimenti e comprare un regalo».
Artù spense l’acqua della doccia e tirò di lato il vetro zigrinato per afferrare l’asciugamano bianco che si legò intorno alla vita.
«Ho finito, puoi entrare», disse pacatamente.
Merlino entrò in bagno sospirando, ma si fermò subito, non appena si rese conto che Artù era uscito dalla doccia a piedi nudi e stava praticamente allagando il pavimento.
«Cosa vi ho detto? Dovete usare il tappetino!».
Artù gli fece il verso e prese un altro asciugamano per passarselo sui capelli fradici e sul petto, mentre osservava la propria immagine riflessa nello specchio.
«Un regalo per chi?», chiese ad un tratto, per ordinargli subito dopo: «Prendi l’oggetto col vento caldo».
Il mago roteò gli occhi al cielo e gli passò alle spalle. «Phon. Si chiama phon. O asciugacapelli, se vi è più facile da ricordare».
«Asciugacapelli sia. Allora, per chi è questo regalo?».
«Per Alex. Le ho promesso che le avrei ripagato la piastra per capelli che le avete rotto e sarete voi a dargliela, così che vi possa perdonare».
«E dobbiamo per forza andare a…».
«Newport».
«… per comprarle una nuova piastra per capelli?».
Merlino annuì e gli rivolse un sorriso attraverso lo specchio prima di accendere il phon ed iniziare ad asciugargli o, meglio, arruffargli i capelli color del grano.
«Questo è un paesino piccolo, non c’è molto», spiegò, alzando la voce perché Artù potesse sentirlo sopra il rumore dell’asciugacapelli. «Newport vi sembrerà gigantesca e avrete l’opportunità di vedere uno scorcio del mondo moderno. Sono sicuro che vi piacerà».
Artù strinse le labbra guardandosi allo specchio e respirò profondamente, pensando che prima che potesse piacergli avrebbe dovuto accettarlo, e non sarebbe stato facile.

 
Si sbagliava: era stato facile.
Il viaggio sull’auto di Merlino era stato piacevole, grazie al vento che gli scompigliava i capelli e che gli aveva dato la sensazione di essere su un cavallo velocissimo, in grado di percorrere miglia e miglia senza mai sentire la stanchezza o la sete.
E non appena il suo servitore gli aveva detto che si stavano avvicinando a Newport Artù ne era rimasto affascinato. I suoi occhi meravigliati avevano afferrato tutto ciò che potevano, senza alcuna restrizione, e non aveva nemmeno avuto il tempo di pensare a quanto tutto fosse diverso rispetto a Camelot e a tutti i regni che aveva visto in lungo e in largo.
Già da lontano aveva capito che si stavano avvicinando ad un fiume, quello che Merlino aveva chiamato Usk, e che presto avrebbero dovuto attraversarlo per entrare nei confini di Newport, ma mai avrebbe immaginato ad un ponte come quello che avevano attraversato.
Era enorme, come non ne aveva mai visti in vita sua, con addirittura quattro corsie per il passaggio delle auto e di altri mezzi sempre a motore a cui Merlino aveva dato dei nomi che lui non aveva nemmeno ascoltato, troppo impegnato a seguire con lo sguardo la struttura di fili metallici e bianche travi di sostegno che svettavano contro il cielo azzurro ai lati del ponte.
Una volta attraversato il ponte era stato tutto un continuo susseguirsi di abitazioni, edifici a volte imponenti in grado di riflettere la luce, cartelli, semafori, viali alberati e auto, tantissime auto.
Poi si erano immessi in alcune strade più piccole e meno trafficate e per un po’ costeggiarono un ampio parco circondato da mura in mattoni, fino a quando non tornarono a prevalere le abitazioni: file e file di casette tutte uguali, ma piacevoli alla vista.
Passarono davanti a quella che Merlino chiamò “cattedrale”, un luogo di culto, anch’essa circondata da una cinta muraria alta circa un metro e mezzo, e dopo altri dieci minuti raggiunsero il centro della città, dove la maggior parte delle vie che interessavano a loro erano chiuse alle automobili.
Merlino aveva parcheggiato sottoterra e prima di entrare nel Kingsway Shopping Centre, la loro meta originale, avevano fatto una camminata lungo le vie intorno a John Frost Square, fermandosi davanti alle vetrine dei negozi ogni volta che Artù ne sentiva il bisogno.
Non riusciva a credere a come il commercio fosse cambiato, nel corso del tempo, e soprattutto quanto l’offerta fosse aumentata: si poteva comprare di tutto!
Erano passati anche di fianco ad un Caffè Nero e Merlino aveva dovuto cedere, accompagnandolo all’interno e comprandogli un caffè al cioccolato che aveva adorato. Poi, alla fine, si erano apprestati ad entrare nel grande centro commerciale. Quello fu l’inizio della fine.

 

***

 

Per prima cosa entrarono nel negozio d’elettronica ed elettrodomestici per cercare la piastra per capelli nuova da regalare ad Alex.
Merlino non si perse nemmeno un battito di ciglia di tutte le varie espressioni che passarono sul volto di Artù: stupore, incredulità, shock, eccitazione, smarrimento… Era uno spettacolo così divertente che scoppiò a ridere, anche se non avrebbe dovuto farlo per non attirare l’attenzione dei commessi e degli altri clienti.
«Venite, forza», lo esortò, invitandolo a seguirlo.
Molti degli elettrodomestici accanto ai quali passarono Artù già li conosceva, ma gli faceva comunque un certo effetto vedere quanti tipi ne esistessero, di quanti colori e con quante caratteristiche specifiche.
«Questo che cos’è?», chiese ad un tratto, tirando Merlino per il gomito.
Merlino ridacchiò e batté leggermente la mano sul manico dell’elettrodomestico. «Si chiama aspirapolvere. Ne ho uno anche io, a casa, ma non l’avete ancora visto in azione. Come si può intuire dal nome è una scopa elettrica che risucchia lo sporco. Una specie di phon con il “vento” al contrario».
«Questo ti sarebbe proprio servito per pulire le mie stanze a Camelot», esclamò Artù, sogghignando.
Merlino scosse lievemente il capo e non appena vide un ragazzo con la divisa del negozio lo avvicinò per chiedergli dove avrebbe potuto trovare le piastre per i capelli.
«In fondo al corridoio sulla sinistra», gli spiegò brevemente e Merlino prese Artù per il braccio, evitando di fargli notare che qualunque tasto avesse pigiato sull’aspirapolvere questo non si sarebbe acceso, non senza la spina infilata in una presa elettrica.
Raggiunsero il reparto per la cura dei capelli e vi rimasero circa mezz’ora, discutendo su quale piastra avrebbe preferito Alex. Ce n’erano di tutti i tipi – grandi, piccole, in ceramica, a vapore – e di tutti i colori, ovviamente. Artù volle imporre la propria autorità, come sempre, ma Merlino riuscì a farlo ragionare, dicendogli che conosceva Alex da molto più tempo di lui, che conosceva i suoi gusti e che per questo era sicuro che la fantasia zebrata non le sarebbe piaciuta.
«Da quanto la conosci, esattamente?», gli chiese ad un tratto, guardandolo dall’altro lato del bancone espositivo.
Merlino sollevò gli occhi dalla piastra rossa che stava esaminando. «Chi?».
«Lady Alexandra, idiota!».
Lo stregone aveva capito a chi si riferiva, ma il suo tono vagamente malizioso non gli era piaciuto affatto. Non sapeva dove sarebbe andato a parare, ma aveva qualche sospetto e iniziò a sudare freddo.
«Tre o quattro anni, non ricordo di preciso», rispose con tono distratto, schiarendosi la gola. Ovviamente era una bugia: ricordava perfettamente quando i loro occhi si erano incrociati per la prima e la seconda volta, come il suo cuore avesse perso un battito in entrambe le occasioni e come lei gli avesse sorriso, incantandolo non una ma ben due volte. Non avrebbe mai potuto dimenticare.
«E dove vi siete conosciuti?».
«All’ospedale in cui siete stato anche voi».
Artù trattenne il respiro per un attimo, Merlino lo notò con la coda dell’occhio, per poi chiedergli a bassa voce, contenendo il fastidio per il fatto che non gliel’avesse detto prima: «Sei stato ferito in battaglia? Le altre cicatrici che avevi addosso…».
«Sì, le altre cicatrici sono ferite di… guerra. Ma questa è un’altra storia. Alex ci lavora, all’ospedale: fa l’infermiera. Io ero lì per un altro motivo».
«E quale, di grazia?».
Merlino sospirò e si disse che tanto, prima o poi, l’avrebbe scoperto comunque. «Quando posso mi piace trascorrere del tempo con i bambini malati. L’ospedale ha un reparto specializzato in tumori pediatrici, il migliore del Galles. I bambini ricoverati spesso vengono anche da molto lontano e i loro genitori riescono ad andarli a trovare solo nel week-end, quando non lavorano, perciò io… tengo loro compagnia, faccio quello che posso per non farli sentire soli».
Artù rimase in silenzio per un tempo infinitamente lungo e Merlino alzò lo sguardo per sbirciare la sua espressione: stava sorridendo, quasi dolcemente, mentre continuava a guardare le piastre per capelli. Il mago sentì il cuore riscaldarsi piacevolmente, come lenito da un balsamo, e sorrise a sua volta.
«Mi ci dovrai portare, un giorno», esclamò ad un tratto, facendo sobbalzare il mago. Diceva sul serio?
Non fece in tempo a chiederglielo, perché Artù afferrò una piastra dorata e la brandì come avrebbe fatto con la sua amata Excalibur, urlando: «Questa è perfetta!».
«Non credo proprio», rispose categorico, tornando di nuovo di fronte alla piastra laccata rossa che aveva adocchiato e che sembrava chiamarlo. «Questa è perfetta. Il rosso è il colore preferito di Alex».
Artù lo raggiunse ed esaminò la piastra, piegando la testa a destra e a sinistra. Alla fine annuì, dando al servitore la propria approvazione.
«Potremmo anche dipingerci sopra lo stemma dei Pendragon, per ricordarle che è stata un nostro…».
«Regalo».
Il re fissò Merlino con la fronte aggrottata. «Avresti dovuto contraddirmi».
«Avanti, anche a voi a volte – raramente – vengono delle buone idee».
Artù l’avrebbe picchiato volentieri, ma proprio in quel momento un commesso del negozio li avvicinò per chiedere loro se avessero bisogno d’aiuto e Merlino sorrise raggiante, esclamando che avevano deciso di comprare quel modello.

 
Per raggiungere le casse dovettero passare di fronte al reparto telefonia mobile. Non l’avessero mai fatto.
Artù si fermò bruscamente e Merlino gli finì addosso, colto di sorpresa.
«Quelli sono i telefoni portatili… Come hai detto che si chiamano?».
«Cellulari».
«Cellulari, cellulari», ripeté a bassa voce, per ricordarselo. «In ogni caso, ne voglio uno anche io».
Merlino rischiò di strozzarsi con la sua stessa saliva. «Che cosa? Come potrebbe tornarvi utile un cellulare?».
Artù si voltò a guardarlo e ancor prima che aprisse bocca Merlino capì che l’avrebbe preso a male parole. «Sei proprio stupido a volte, sai? Mi hai detto che non potrai stare al mio fianco ventiquattr’ore su ventiquattro e, detto sinceramente, io non ho alcuna intenzione di averti tra i piedi tutto il tempo. Se io avessi un cellulare potremmo comunicare a distanza in qualsiasi momento e nel caso si verificasse un’emergenza lo sapremmo e potremmo intervenire, non trovi?».
Lo stregone ci pensò un po’ su e alla fine fu costretto ad ammettere che Artù non aveva del tutto torto. Anzi, quella era la sua seconda buona idea della giornata. Non smetteva mai di sorprenderlo.
«Avete ragione».
«Ovviamente», rispose Artù, scoccando un sorriso vittorioso ed iniziando a dirigersi verso gli espositori. Merlino però lo prese per un braccio e, guardandolo seriamente, lo avvertì: «Non sarà facile imparare ad usarlo».
«Per chi mi hai preso, Merlino? Io sono Artù Pendra–».
Il mago gli tappò la bocca con una mano e si gettò un’occhiata intorno. Quando fu sicuro che nessuno avesse prestato attenzione alle parole del biondo, disse tra i denti: «So benissimo chi siete, microcefalo, non è necessario urlarlo ai quattro venti. Vi siete già dimenticato? Anonimato, riservatezza…».
«Tutti questi anni e continui ad insultarmi come se nulla fosse», fece notare Artù, dopo essersi tolto bruscamente la mano di Merlino dalla bocca. «Non sei cambiato di una virgola».
«Me l’avete chiesto voi, no?», rispose, ma a capo chino, conscio che quando la verità sarebbe venuta a galla Artù non ne sarebbe stato contento. Non tanto per la sua scelta, ma per il fatto che spesso e volentieri continuava a mentirgli, nonostante non ce ne fosse più alcun bisogno.
Artù sorrise, ma si voltò subito, esclamando: «Chissà che mi passava per la testa…», poi si avvicinò ai vari modelli di telefoni cellulari.

 
Ovviamente Artù non si era accontentato di un cellulare con le funzioni base: aveva scelto uno degli ultimissimi modelli in circolazione, con lo schermo interamente touch-screen, fotocamera potenziata, memoria esterna da chissà quanti giga e mille altre applicazioni di cui dubitava fortemente ne avrebbe anche solo notata l’esistenza.
Merlino però aveva ceduto, pur di vedere il proprio re felice come un bambino. Forse accontentare ogni suo capriccio non sarebbe stata la soluzione migliore per il suo portafoglio, ma i soldi erano l’ultimo dei suoi problemi. E a questo proposito Artù scoprì un’altra novità del mondo moderno: la carta di credito.
Dopo che la cassiera ebbe finito di battere ciò che avevano acquistato, Merlino tirò fuori il portafoglio e sotto gli occhi confusi di Artù le passò la carta.
«Come speri di pagare con quella?», gli chiese un po’ troppo ad alta voce, facendo voltare la commessa, la quale lo fissò insospettita.
«Non lo stia a sentire, proceda pure», disse nervosamente Merlino, per poi fulminare con lo sguardo il re di Camelot.
La transazione avvenne senza problemi e dopo aver firmato lo scontrino Merlino mise a posto la carta e si avviò verso l’uscita, con Artù alle calcagna, desideroso di chiarimenti.
«È troppo complicato, come faccio a spiegarvelo?».
«Mi stai dando ancora dello stupido?».
Merlino ridacchiò. «Non mi permetterei mai!».
«Non riuscirò mai a sembrare in tutto e per tutto un uomo di quest’epoca se tu ti rifiuti di spiegarmi cose come queste!».
«Okay, avete ragione».
Il mago si fermò di fronte ad una gioielleria e si voltò verso di lui, estraendo nuovamente il portafoglio dalla tasca interna del giubbino per fargli vedere la sottile scheda con il microchip.
«Si chiama “carta di credito” ed è uno strumento che serve per pagare quando non si hanno o non si vogliono avere soldi contanti appresso».
«E i soldi contanti dove sono? Come…?».
«Sono depositati in una banca, una specie di… forziere gigante. Quasi tutti in quest’epoca possiedono un conto corrente, cioè un forziere un po’ più piccolo nel forziere gigante, dove vengono messi i soldi che si guadagnano. Viene fatto tutto via computer».
«L’affare simile alla televisione, quello con la tastiera».
«Esatto. Se hai bisogno di soldi contanti, si va in banca o in uno sportello automatico e si prelevano usando una di queste. La carta è direttamente collegata al conto che hai in banca e la cassiera, quando gliel’ho data, ha preso direttamente da lì i soldi».
«Chiaro. Più o meno».
«Bene. Possiamo andare a fare la spesa, ora?».
«Io ho fame».
Merlino roteò gli occhi al cielo, respirando profondamente, ed indicò un punto in fondo al corridoio. Fu così che Artù scoprì McDonald’s.

 

***

 

Alex aprì gli occhi, infastidita dalla forte luce che entrava dalle finestre. Quando era tornata dal turno all’ospedale, quella mattina, era ancora buio e si era dimenticata di chiudere le imposte.
Rotolò verso la sponda del letto ed allungò una mano verso il comodino per afferrare il cellulare e guardare che ore fossero: era da poco passata l’ora di pranzo e si suo stomaco reagì subito borbottando.
Alex sospirò e si portò le braccia dietro la testa, rimanendo ad osservare il soffitto per un po’, pensando a Merlino e a quanto gli mancasse.
Erano ormai due giorni che non lo vedeva e la cosa che le faceva più rabbia in assoluto non era il fatto che non si facesse sentire con lei, bensì con i bambini dell’ospedale, con i quali ormai non sapeva più che scusa inventarsi. Avevano iniziato a chiedere chi fosse l’amico venuto da lontano che non permetteva a Merlino di andarli a trovare e lei si era limitata a dire che non lo sapeva. La verità, dopotutto.
Più ci pensava, più Artù le sembrava un mistero, così come la sua storia. Merlino era sempre stato un tipo riservato, ma le risultava difficile credere che avesse tenuto nascosto un qualcosa di così grosso e doloroso, senza mai sentire il bisogno di parlarne con qualcuno. O forse ciò che le risultava davvero difficile era accettare che lei non godesse ancora della sua fiducia. Ma in fondo come biasimarlo? Nemmeno lei era pronta a rivelare a Merlino i suoi scheletri, non ancora.
Ad ogni modo, aveva bisogno di vederlo e di assicurarsi che stesse bene. Il pensiero che Artù, in un raptus dei suoi, lo avesse accoltellato nel sonno l’aveva sfiorata più di una volta, facendola rabbrividire. E poi gli avrebbe fatto una lavata di capo coi fiocchi per il suo comportamento menefreghista: l’aveva lasciata da sola con quei piccoli demoni per tre sere consecutive!
Era stata una settimana abbastanza impegnativa, con tutti i turni di notte che aveva dovuto fare per sostituire uno dei loro colleghi in malattia, ma quel giorno e il giorno successivo era di riposo e aveva proprio bisogno di rilassarsi e staccare un po’ la spina, pensando prima di tutto a se stessa.
Per questo si alzò, si preparò un brunch leggero e si preparò per uscire, intenzionata a scaricare un po’ di tensione e ad affrontare Merlino a quattr’occhi.

 
Non era mai stata a casa di Merlino, ma sapeva dove abitava.
L’aveva scoperto una sera, quando la sua auto alla Supernatural l’aveva lasciato ancora una volta a piedi e lei si era offerta di accompagnarlo a casa, visto anche il tipo di tempesta che si stava scatenando. Lui dopo un paio di rifiuti si era lasciato convincere e aveva guidato Alex fino in aperta campagna. Quando le aveva indicato la grande villa a due piani che, nel buio e sotto la pioggia, aveva l’aspetto vero e proprio di un castello in miniatura, Alex era rimasta a bocca aperta, sconvolta. Si era chiesta come Merlino, lavorando come cameriere nella caffetteria del paese, potesse permettersi di mantenere una casa del genere, ma lui stesso le aveva rivelato che l’aveva ereditata da suo nonno e che la maggior parte delle stanze al piano superiore erano del tutto inutilizzate.
Dovette allungare di molto il proprio percorso abituale per raggiungerla, ma sotto quel cielo incerto, ricoperto di nuvole, non aveva sudato poi molto.
Si tolse gli auricolari dalle orecchie, mettendo in stand-by il proprio mp3, e percorse il vialetto fino a raggiungere il porticato in mattoni. Suonò il campanello ed attese per qualche minuto, poi si disse che non doveva essere in casa e sospirò, chiedendosi dove diavolo potesse essere andato.

 
Entrò nella caffetteria della signora Begum e trovò proprio lei dietro il bancone, lei che solitamente se ne stava rintanata in cucina a preparare i dolci da esporre in vetrina.
«Alexandra! Che piacere, tesoro», le disse, rivolgendole un sorriso ed indicandole di sedersi su uno degli sgabelli alti. «Ti preparo un bel milk-shake dissetante? Sembra che tu abbia corso la maratona di New York!».
Alex rise, slacciandosi la felpa. «Quasi. Contavo di trovare Merlino, ma a quanto vedo…».
«Ah, pensavo lo sapessi! È in malattia, tornerà lunedì. Si è preso un brutto raffreddore. Sei già passata a casa sua? Sicuramente sarà lì, al caldo sotto le coperte!».
Alex stiracchiò un sorriso, ripromettendosi che quelle orecchie a sventola gliele avrebbe staccate dalla testa a morsi. «No, non sono andata a casa sua. Magari più tardi, per vedere se ha bisogno di qualcosa».
«Sei sempre così gentile con lui, Alex. È proprio fortunato ad averti».
La signora Begum le fece l’occhiolino e Alex, rossa come un peperone, cercò di spiegarle che erano solo amici e che non sarebbero mai stati nulla di più, ma la proprietaria della caffetteria la ignorò e sparì in cucina, ridacchiando.
Alex sbuffò, facendo una pernacchia con le labbra, e ringraziò il cielo che la caffetteria fosse vuota.

 

***

 

Dopo l’iniziale fase di stupore, incredulità e una quantità esagerata di domande su praticamente tutto quello che gli balzava agli occhi, Artù aveva iniziato ad annoiarsi, seguendolo tra le corsie del grande supermercato.
Proprio come un bambino aveva iniziato a chiedergli quanto tempo ancora ci avrebbe messo, quando sarebbero tornati a casa e via discorrendo. Merlino aveva iniziato a non sopportarlo più e per un paio di volte si era persino domandando che cosa sarebbe successo se l’avesse abbandonato nel parcheggio sotterraneo del centro commerciale. Probabilmente un disastro di proporzioni epiche, ma meglio quello che avercelo intorno quando era impostato sulla modalità “irritante”.
Quando finalmente gli aveva detto che sì, potevano tornare a casa, Artù gli aveva chiesto di poter guidare. Merlino l’aveva guardato sconcertato, cercando di capire se stesse scherzando. Ma no, il re di Camelot non scherzava su questioni del genere.
Aveva cercato di spiegargli che non poteva imparare a guidare un’auto in cinque minuti e che per farlo legalmente avrebbe avuto dovuto prima ricevere la patente dalla motorizzazione, ma non c’era stato verso di convincere quell’asino reale a lasciar perdere. Anche Merlino però fu irremovibile e gli aveva detto chiaro e tondo che non gli avrebbe mai fatto toccare il volante della sua Fiat 1500 Cabriolet Pininfarina del 1964: molto spesso lo lasciava a piedi, ma era un modello più unico che raro ormai e ci era affezionatissimo.
Artù gli aveva tenuto il muso per tutto il viaggio e Merlino non aveva nemmeno provato ad avviare una conversazione: sarebbe stato inutile con quella testa di legno. Il tempo di sbollire e tutto sarebbe tornato alla normalità.

 
Merlino parcheggiò l’auto nel vecchio fienile che aveva messo a nuovo quando aveva comprato la villa, trasformandolo in una specie di garage, ed aprì il bagagliaio.
«Mi date una mano?», chiese ad Artù, fermo ad esaminare la sua vecchia ma fedele bicicletta.
«Non ci penso proprio. Non vedo nemmeno perché tu abbia ritenuto necessario comprare tutta quella roba».
«Se mangiate come un bue non è colpa mia», bofonchiò, guadagnandosi un’occhiata truce.
«Sono stanco, vado nelle mie stanze».
Merlino socchiuse gli occhi, sentendolo uscire dal fienile, poi si voltò chiamando il suo nome. Il re lo fissò ed afferrò al volo le chiavi che gli aveva lanciato.
«Ricordatemi di darvi le vostre, più tardi».
Artù annuì, accennando un sorriso, e si incamminò nuovamente verso l’ingresso sul retro.
Lo stregone guardò le tre borse che aveva incastrato faticosamente nel bagagliaio e sospirò, tirandosi su le maniche.

 
Merlino bussò piano alla porta e dall’interno sentì Artù dargli il permesso di entrare. Lo trovò sdraiato sul letto, con una mano sul petto e il respiro leggermente affannoso, gli occhi fissi sul soffitto.
«Artù», esclamò e corse subito al suo fianco, preoccupato. «Che cos’avete? State male?».
«Io… non lo so. È come se…», strinse gli occhi e con essi anche la mano che teneva sul cuore, scosso da un tremito di dolore.
Merlino gliela levò delicatamente e la sostituì con la propria. Senza alcuno sforzo di memoria, istintivo com’era sempre stato nei casi di pericolo, un incantesimo gli uscì dalle labbra e i suoi occhi si tinsero d’oro. Gli effetti della sua magia furono immediati: Artù si rilassò, sospirando di sollievo, e i suoi occhi blu tornarono a guardare quelli di Merlino, ancora chino su di lui.
«Grazie», disse a bassa voce, tirandosi lentamente su a sedere. «È stato… terribile. Come se quella spada mi avesse trafitto ancora. Ne ho sempre avuto il presentimento, ma questa ne è la prova definitiva: quel frammento è ancora lì, pronto a riportarmi nel mondo degli spiriti una volta adempiuto il mio compito. Merlino? Merlino, mi stai ascoltando?».
Il mago si stava guardando le mani tremanti, con gli occhi colmi di lacrime. Aveva sentito tutto ciò che Artù aveva detto ed era preoccupato quanto lui, ma sapeva che avrebbe trovato un modo per impedire che Artù morisse una seconda volta. Ciò che in quel momento lo destabilizzava davvero era un dolore molto più profondo, radicato saldamente nella sua anima: erano secoli che non utilizzava più la magia, secoli che non lasciava che quel flusso potente e pieno di vita gli bruciasse nelle vene. Non era preparato ad affrontarlo di nuovo, a sentirsi invaso da quel potere che, nonostante il suo rifiuto, non aveva mai smesso di aumentare dentro di lui. Era bastato vedere Artù soffrire perché ogni sua barriera crollasse, dandogli libero sfogo, e ora non riusciva più a rimandarlo indietro, ad imprigionarlo nuovamente in quell’angolo remoto della sua mente.
Sentiva le pupille tremargli e la temperatura del suo corpo aumentare inesorabilmente, potenziato da quell’energia troppo a lungo tenuta a freno. La vista gli si annebbiò e la razionalità iniziava ad abbandonarlo, ma con l’ultimo frammento di lucidità corse fuori dalla stanza di Artù e una volta in bagno si gettò sotto il getto freddo della doccia, ancora con i vestiti addosso.
«Merlino!».
La voce di Artù fu una manna dal cielo, ciò che gli diede le forze necessarie a stringere le catene intorno alla magia che lo invadeva da capo a piedi.
Completamente svuotato e con le spalle contro le piastrelle bianche si lasciò scivolare a terra, dove rimase seduto a testa china e le braccia abbandonate accanto alle gambe.
Artù si affrettò a spegnere il getto freddo della doccia e lo sollevò di peso per portarlo nella camera adiacente alla sua. La stanza di Merlino era decisamente diversa dalla sua, molto più moderna, ma non vi prestò molta attenzione. Posò delicatamente il mago sul letto e lo guardò, senza sapere che cosa fare.
«Merlino?».
«Sto bene», rispose con un rantolo. «Lasciatemi solo, per favore».
«Davvero credi che potrei lasciarti da solo in un momento del genere? Che diavolo ti è successo?».
«Non lo so», mentì. «Ora andate via, vi prego».
Artù sospirò, trattenendo a stento la rabbia, e se ne andò chiudendosi la porta alle spalle, delicatamente.
Merlino cercò di respirare profondamente, per calmarsi, ma le lacrime gli inumidirono gli occhi.
Come poteva sperare di proteggere Artù se ogni volta che utilizzava la magia rischiava di venirne sopraffatto, sparendo sotto la sua influenza? Era troppo anziano, nonostante il suo aspetto, e il potere che possedeva troppo grande. E non poteva chiedere aiuto a nessuno. 

 
Infilati dei vestiti puliti ed asciugati alla bell’e meglio i ricci capelli neri scese in salotto, dove trovò Artù seduto sul divano, a fare zapping, una cosa in cui si era rivelato essere molto bravo.
«Grazie per avermi tirato fuori dalla doccia», esclamò, fermo alle sue spalle.
Il re si voltò ed accennò un sorriso. «Siamo pari. Mi spieghi che cosa ti è successo?».
Merlino andò a sedersi al suo fianco, con una gamba sotto l’altra, e confessò: «Quando Camelot è caduta ho deciso che non avrei più utilizzato la magia in vita mia. L’ho rinnegata».
Artù sgranò gli occhi, incredulo. «Tu che cosa? Ti avevo detto che non saresti dovuto cambiare, mai».
«Voi non potete capire», mormorò, scuotendo il capo.
«Ci risiamo».
«È davvero così, Sire. Ho sempre usato la magia per Camelot, per aiutare voi e per proteggervi, ma nel momento in cui mi serviva di più è stata inutile! La magia non è riuscita a salvare voi, come non è riuscita a salvare Camelot, e questo è stato il peggiore dei tradimenti, per me. La mia fede nella magia è andata distrutta, in quel momento».
«Ma è stata la magia a renderti immortale, è stata la magia a far sì che io potessi tornare oggi!».
Merlino gli rivolse un sorriso, un sorriso colmo di amarezza. «Sì, ma come avete detto voi, per un destino che non abbiamo scelto. E anche io sono stanco di vivere così, controllato da qualcosa più grande di noi, in grado di buttarci via non appena raggiungerà il suo scopo».
«Non è una buona ragione per arrendersi e rinnegare se stessi».
«Forse», disse stringendosi il collo tra le spalle. «Comunque è passato troppo tempo e avete visto voi stesso: riesco a controllarla a malapena».
«Ti servirà dell’allenamento. Anzi, a tutti e due servirà».
Merlino colse nel suo sguardo una punta di malizia e capì subito dove voleva andare a parare. «Non vorrete usarmi ancora come manichino vivente, vero?».
«Chi può dirlo».
«Vi odio».
«È reciproco, allora!».
I loro sguardi si incontrarono ed entrambi sorrisero, felici almeno di aversi l’un l’altro.

   
 
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