Buon pomeriggio!
Spero stiate tutti bene, perché io ho avuto una giornatina
niente male al lavoro. E mi sono detta che per tirarmi su di morale ci
voleva proprio una cosa: entrare nel mondo di Merlino e
Artù! :)
In questo capitolo finalmente verrà spiegato il motivo
dell'assenza della magia e spero vivamente sia una spiegazione
plausibile (io fossi stata in Merlino avrei fatto lo stesso).
Alex l'ho un po' trascurata ultimamente, lo so, ma nel prossimo
capitolo tornerà più in forma che mai! ;)
Ah, prima di augurarvi buona lettura volevo solo informare che chi
fosse curioso (o si trovi con molto tempo da perdere) questa
è la mia pagina facebook, dove potete trovare
tante foto riguardanti questa storia: locations, prestavolto... cose
così. u_u
Bene, ora vado. Buona lettura e alla prossima!
Vostra,
_Pulse_
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6. The beginning of the end
«Artù!
Non ci posso credere, siete ancora a letto?! Alzatevi,
pigrone!».
Il re respirò profondamente, cercando di trattenere la
rabbia.
Si era abituato ai gabbiani che seguivano il corso del fiumiciattolo
per arrivare al lago, ma non si sarebbe mai abituato ai risvegli
bruschi di cui Merlino era sempre stato un professionista.
«Avanti, devo farvi vedere una cosa!».
Artù si alzò controvoglia e con un diavolo per
capello, ma non appena fu alla finestra vide Merlino appoggiato al
cofano di una di quelle automobili, con gli occhi luminosi e fieri. Era
diversa rispetto a quella che aveva Lady Alexandra: era più
lunga, più bassa, senza il tetto e color blu notte.
«Allora, che ne dite?», gli chiese, aprendo le
braccia. «Sono andato a ritirarla mentre voi dormivate e ora
fila che è una meraviglia!».
«Sorprendente, Merlino. Non ci salirò
mai».
Lo stregone aprì la bocca, scioccato, ma Artù non
gli diede il tempo di dire nulla, chiudendosi la finestra alle spalle.
«Perché non dovreste salirci?», gli
chiese attraverso la porta del bagno.
Artù finse di non averlo sentito e si versò un
po’ di shampoo sulla mano, per poi inschiumarsi i capelli.
Due giorni prima aveva scoperto la doccia –
un’altra invenzione del XXI secolo che avrebbe voluto avere a
Camelot – e da allora non ne aveva più fatto a
meno.
«Artù, non avrete per caso paura?».
«Smettila di dire fesserie e lasciami in pace!»,
urlò.
«Avete nostalgia del vostro destriero? Lo capisco, ma
è da secoli che non si usano più i cavalli per
andare in giro! Se può rassicurarvi, i cavalli ci
sono, dentro le auto!».
«Merlino…», cercò di
azzittirlo pronunciando solo il suo nome, tra i denti.
«Sentite, dobbiamo percorrere diverse miglia e
l’auto è il mezzo più comodo e veloce,
perciò dovrete fare uno sforzo».
«E dove dovremmo andare? Non mi sembra di aver organizzato
alcuna spedizione. Hai di nuovo dimenticato che sono io che
do’ gli ordini?».
«Come volete. Dobbiamo andare a Newport, una città
ad un quarto d’ora da qui in auto, per
fare rifornimenti e comprare un regalo».
Artù spense l’acqua della doccia e tirò
di lato il vetro zigrinato per afferrare l’asciugamano bianco
che si legò intorno alla vita.
«Ho finito, puoi entrare», disse pacatamente.
Merlino entrò in bagno sospirando, ma si fermò
subito, non appena si rese conto che Artù era uscito dalla
doccia a piedi nudi e stava praticamente allagando il pavimento.
«Cosa vi ho detto? Dovete usare il tappetino!».
Artù gli fece il verso e prese un altro asciugamano per
passarselo sui capelli fradici e sul petto, mentre osservava la propria
immagine riflessa nello specchio.
«Un regalo per chi?», chiese ad un tratto, per
ordinargli subito dopo: «Prendi l’oggetto col vento
caldo».
Il mago roteò gli occhi al cielo e gli passò alle
spalle. «Phon. Si chiama phon. O
asciugacapelli, se vi è più facile da
ricordare».
«Asciugacapelli sia. Allora, per chi è questo
regalo?».
«Per Alex. Le ho promesso che le avrei ripagato la piastra
per capelli che le avete rotto e sarete voi a dargliela,
così che vi possa perdonare».
«E dobbiamo per forza andare a…».
«Newport».
«… per comprarle una nuova piastra per
capelli?».
Merlino annuì e gli rivolse un sorriso attraverso lo
specchio prima di accendere il phon ed iniziare ad asciugargli o,
meglio, arruffargli i capelli color del grano.
«Questo è un paesino piccolo, non
c’è molto», spiegò, alzando
la voce perché Artù potesse sentirlo sopra il
rumore dell’asciugacapelli. «Newport vi
sembrerà gigantesca e avrete
l’opportunità di vedere uno scorcio del mondo
moderno. Sono sicuro che vi piacerà».
Artù strinse le labbra guardandosi allo specchio e
respirò profondamente, pensando che prima che potesse
piacergli avrebbe dovuto accettarlo, e non sarebbe stato facile.
Si sbagliava: era stato facile.
Il viaggio sull’auto di Merlino era stato piacevole, grazie
al vento che gli scompigliava i capelli e che gli aveva dato la
sensazione di essere su un cavallo velocissimo, in grado di percorrere
miglia e miglia senza mai sentire la stanchezza o la sete.
E non appena il suo servitore gli aveva detto che si stavano
avvicinando a Newport Artù ne era rimasto affascinato. I
suoi occhi meravigliati avevano afferrato tutto ciò che
potevano, senza alcuna restrizione, e non aveva nemmeno avuto il tempo
di pensare a quanto tutto fosse diverso rispetto a Camelot e a tutti i
regni che aveva visto in lungo e in largo.
Già da lontano aveva capito che si stavano avvicinando ad un
fiume, quello che Merlino aveva chiamato Usk, e che presto avrebbero
dovuto attraversarlo per entrare nei confini di Newport, ma mai avrebbe
immaginato ad un ponte come quello che avevano attraversato.
Era enorme, come non ne aveva mai visti in vita sua, con addirittura
quattro corsie per il passaggio delle auto e di altri mezzi sempre a
motore a cui Merlino aveva dato dei nomi che lui non aveva nemmeno
ascoltato, troppo impegnato a seguire con lo sguardo la struttura di
fili metallici e bianche travi di sostegno che svettavano contro il
cielo azzurro ai lati del ponte.
Una volta attraversato il ponte era stato tutto un continuo susseguirsi
di abitazioni, edifici a volte imponenti in grado di riflettere la
luce, cartelli, semafori, viali alberati e auto, tantissime auto.
Poi si erano immessi in alcune strade più piccole e meno
trafficate e per un po’ costeggiarono un ampio parco
circondato da mura in mattoni, fino a quando non tornarono a prevalere
le abitazioni: file e file di casette tutte uguali, ma piacevoli alla
vista.
Passarono davanti a quella che Merlino chiamò
“cattedrale”, un luogo di culto,
anch’essa circondata da una cinta muraria alta circa un metro
e mezzo, e dopo altri dieci minuti raggiunsero il centro della
città, dove la maggior parte delle vie che interessavano a
loro erano chiuse alle automobili.
Merlino aveva parcheggiato sottoterra e prima di entrare nel Kingsway
Shopping Centre, la loro meta originale, avevano fatto una camminata
lungo le vie intorno a John Frost Square, fermandosi davanti alle
vetrine dei negozi ogni volta che Artù ne sentiva il
bisogno.
Non riusciva a credere a come il commercio fosse cambiato, nel corso
del tempo, e soprattutto quanto l’offerta fosse aumentata: si
poteva comprare di tutto!
Erano passati anche di fianco ad un Caffè Nero e Merlino
aveva dovuto cedere, accompagnandolo all’interno e
comprandogli un caffè al cioccolato che aveva adorato. Poi,
alla fine, si erano apprestati ad entrare nel grande centro
commerciale. Quello fu l’inizio della fine.
***
Per
prima cosa entrarono nel negozio d’elettronica ed
elettrodomestici per cercare la piastra per capelli nuova da regalare
ad Alex.
Merlino non si perse nemmeno un battito di ciglia di tutte le varie
espressioni che passarono sul volto di Artù: stupore,
incredulità, shock, eccitazione, smarrimento… Era
uno spettacolo così divertente che scoppiò a
ridere, anche se non avrebbe dovuto farlo per non attirare
l’attenzione dei commessi e degli altri clienti.
«Venite, forza», lo esortò, invitandolo
a seguirlo.
Molti degli elettrodomestici accanto ai quali passarono Artù
già li conosceva, ma gli faceva comunque un certo effetto
vedere quanti tipi ne esistessero, di quanti colori e con quante
caratteristiche specifiche.
«Questo che cos’è?», chiese ad
un tratto, tirando Merlino per il gomito.
Merlino ridacchiò e batté leggermente la mano sul
manico dell’elettrodomestico. «Si chiama
aspirapolvere. Ne ho uno anche io, a casa, ma non l’avete
ancora visto in azione. Come si può intuire dal nome
è una scopa elettrica che risucchia lo sporco. Una specie di
phon con il “vento” al contrario».
«Questo ti sarebbe proprio servito per pulire le mie stanze a
Camelot», esclamò Artù, sogghignando.
Merlino scosse lievemente il capo e non appena vide un ragazzo con la
divisa del negozio lo avvicinò per chiedergli dove avrebbe
potuto trovare le piastre per i capelli.
«In fondo al corridoio sulla sinistra», gli
spiegò brevemente e Merlino prese Artù per il
braccio, evitando di fargli notare che qualunque tasto avesse pigiato
sull’aspirapolvere questo non si sarebbe acceso, non senza la
spina infilata in una presa elettrica.
Raggiunsero il reparto per la cura dei capelli e vi rimasero circa
mezz’ora, discutendo su quale piastra avrebbe preferito Alex.
Ce n’erano di tutti i tipi – grandi, piccole, in
ceramica, a vapore – e di tutti i colori, ovviamente.
Artù volle imporre la propria autorità, come
sempre, ma Merlino riuscì a farlo ragionare, dicendogli che
conosceva Alex da molto più tempo di lui, che conosceva i
suoi gusti e che per questo era sicuro che la fantasia zebrata non le
sarebbe piaciuta.
«Da quanto la conosci, esattamente?», gli chiese ad
un tratto, guardandolo dall’altro lato del bancone espositivo.
Merlino sollevò gli occhi dalla piastra rossa che stava
esaminando. «Chi?».
«Lady Alexandra, idiota!».
Lo stregone aveva capito a chi si riferiva, ma il suo tono vagamente
malizioso non gli era piaciuto affatto. Non sapeva dove sarebbe andato
a parare, ma aveva qualche sospetto e iniziò a sudare freddo.
«Tre o quattro anni, non ricordo di preciso»,
rispose con tono distratto, schiarendosi la gola. Ovviamente era una
bugia: ricordava perfettamente quando i loro occhi si erano incrociati
per la prima e la seconda volta, come il suo cuore avesse perso un
battito in entrambe le occasioni e come lei gli avesse sorriso,
incantandolo non una ma ben due volte. Non avrebbe mai potuto
dimenticare.
«E dove vi siete conosciuti?».
«All’ospedale in cui siete stato anche
voi».
Artù trattenne il respiro per un attimo, Merlino lo
notò con la coda dell’occhio, per poi chiedergli a
bassa voce, contenendo il fastidio per il fatto che non
gliel’avesse detto prima: «Sei stato ferito in
battaglia? Le altre cicatrici che avevi addosso…».
«Sì, le altre cicatrici sono ferite di…
guerra. Ma questa è un’altra
storia. Alex ci lavora, all’ospedale: fa
l’infermiera. Io ero lì per un altro
motivo».
«E quale, di grazia?».
Merlino sospirò e si disse che tanto, prima o poi,
l’avrebbe scoperto comunque. «Quando posso mi piace
trascorrere del tempo con i bambini malati. L’ospedale ha un
reparto specializzato in tumori pediatrici, il migliore del Galles. I
bambini ricoverati spesso vengono anche da molto lontano e i loro
genitori riescono ad andarli a trovare solo nel week-end, quando non
lavorano, perciò io… tengo loro compagnia, faccio
quello che posso per non farli sentire soli».
Artù rimase in silenzio per un tempo infinitamente lungo e
Merlino alzò lo sguardo per sbirciare la sua espressione:
stava sorridendo, quasi dolcemente, mentre continuava a guardare le
piastre per capelli. Il mago sentì il cuore riscaldarsi
piacevolmente, come lenito da un balsamo, e sorrise a sua volta.
«Mi ci dovrai portare, un giorno»,
esclamò ad un tratto, facendo sobbalzare il mago. Diceva sul
serio?
Non fece in tempo a chiederglielo, perché Artù
afferrò una piastra dorata e la brandì come
avrebbe fatto con la sua amata Excalibur, urlando: «Questa
è perfetta!».
«Non credo proprio», rispose categorico, tornando
di nuovo di fronte alla piastra laccata rossa che aveva adocchiato e
che sembrava chiamarlo. «Questa
è perfetta. Il rosso è il colore preferito di
Alex».
Artù lo raggiunse ed esaminò la piastra, piegando
la testa a destra e a sinistra. Alla fine annuì, dando al
servitore la propria approvazione.
«Potremmo anche dipingerci sopra lo stemma dei Pendragon, per
ricordarle che è stata un nostro…».
«Regalo».
Il re fissò Merlino con la fronte aggrottata.
«Avresti dovuto contraddirmi».
«Avanti, anche a voi a volte – raramente
– vengono delle buone idee».
Artù l’avrebbe picchiato volentieri, ma proprio in
quel momento un commesso del negozio li avvicinò per
chiedere loro se avessero bisogno d’aiuto e Merlino sorrise
raggiante, esclamando che avevano deciso di comprare quel modello.
Per raggiungere le casse dovettero passare di fronte al reparto
telefonia mobile. Non l’avessero mai fatto.
Artù si fermò bruscamente e Merlino gli
finì addosso, colto di sorpresa.
«Quelli sono i telefoni portatili… Come hai detto
che si chiamano?».
«Cellulari».
«Cellulari, cellulari», ripeté a bassa
voce, per ricordarselo. «In ogni caso, ne voglio uno anche
io».
Merlino rischiò di strozzarsi con la sua stessa saliva.
«Che cosa? Come potrebbe tornarvi utile un
cellulare?».
Artù si voltò a guardarlo e ancor prima che
aprisse bocca Merlino capì che l’avrebbe preso a
male parole. «Sei proprio stupido a volte, sai? Mi hai detto
che non potrai stare al mio fianco ventiquattr’ore su
ventiquattro e, detto sinceramente, io non ho alcuna intenzione di
averti tra i piedi tutto il tempo. Se io avessi un cellulare potremmo
comunicare a distanza in qualsiasi momento e nel caso si verificasse
un’emergenza lo sapremmo e potremmo intervenire, non
trovi?».
Lo stregone ci pensò un po’ su e alla fine fu
costretto ad ammettere che Artù non aveva del tutto torto.
Anzi, quella era la sua seconda buona idea della
giornata. Non smetteva mai di sorprenderlo.
«Avete ragione».
«Ovviamente», rispose Artù, scoccando un
sorriso vittorioso ed iniziando a dirigersi verso gli espositori.
Merlino però lo prese per un braccio e, guardandolo
seriamente, lo avvertì: «Non sarà
facile imparare ad usarlo».
«Per chi mi hai preso, Merlino? Io sono Artù
Pendra–».
Il mago gli tappò la bocca con una mano e si
gettò un’occhiata intorno. Quando fu sicuro che
nessuno avesse prestato attenzione alle parole del biondo, disse tra i
denti: «So benissimo chi siete, microcefalo, non è
necessario urlarlo ai quattro venti. Vi siete già
dimenticato? Anonimato, riservatezza…».
«Tutti questi anni e continui ad insultarmi come se nulla
fosse», fece notare Artù, dopo essersi tolto
bruscamente la mano di Merlino dalla bocca. «Non sei cambiato
di una virgola».
«Me l’avete chiesto voi, no?», rispose,
ma a capo chino, conscio che quando la verità sarebbe venuta
a galla Artù non ne sarebbe stato contento. Non tanto per la
sua scelta, ma per il fatto che spesso e volentieri continuava a
mentirgli, nonostante non ce ne fosse più alcun bisogno.
Artù sorrise, ma si voltò subito, esclamando:
«Chissà che mi passava per la
testa…», poi si avvicinò ai vari
modelli di telefoni cellulari.
Ovviamente Artù non si era accontentato di un cellulare con
le funzioni base: aveva scelto uno degli ultimissimi modelli in
circolazione, con lo schermo interamente touch-screen, fotocamera
potenziata, memoria esterna da chissà quanti giga e mille
altre applicazioni di cui dubitava fortemente ne avrebbe anche solo
notata l’esistenza.
Merlino però aveva ceduto, pur di vedere il proprio re
felice come un bambino. Forse accontentare ogni suo capriccio non
sarebbe stata la soluzione migliore per il suo portafoglio, ma i soldi
erano l’ultimo dei suoi problemi. E a questo proposito
Artù scoprì un’altra novità
del mondo moderno: la carta di credito.
Dopo che la cassiera ebbe finito di battere ciò che avevano
acquistato, Merlino tirò fuori il portafoglio e sotto gli
occhi confusi di Artù le passò la carta.
«Come speri di pagare con quella?», gli chiese un
po’ troppo ad alta voce, facendo voltare la commessa, la
quale lo fissò insospettita.
«Non lo stia a sentire, proceda pure», disse
nervosamente Merlino, per poi fulminare con lo sguardo il re di Camelot.
La transazione avvenne senza problemi e dopo aver firmato lo scontrino
Merlino mise a posto la carta e si avviò verso
l’uscita, con Artù alle calcagna, desideroso di
chiarimenti.
«È troppo complicato, come faccio a
spiegarvelo?».
«Mi stai dando ancora dello
stupido?».
Merlino ridacchiò. «Non mi permetterei
mai!».
«Non riuscirò mai a sembrare in tutto e per tutto
un uomo di quest’epoca se tu ti rifiuti di spiegarmi cose
come queste!».
«Okay, avete ragione».
Il mago si fermò di fronte ad una gioielleria e si
voltò verso di lui, estraendo nuovamente il portafoglio
dalla tasca interna del giubbino per fargli vedere la sottile scheda
con il microchip.
«Si chiama “carta di credito” ed
è uno strumento che serve per pagare quando non si hanno o
non si vogliono avere soldi contanti appresso».
«E i soldi contanti dove sono? Come…?».
«Sono depositati in una banca, una specie di…
forziere gigante. Quasi tutti in quest’epoca possiedono un
conto corrente, cioè un forziere un po’
più piccolo nel forziere gigante, dove vengono messi i soldi
che si guadagnano. Viene fatto tutto via computer».
«L’affare simile alla televisione, quello con la
tastiera».
«Esatto. Se hai bisogno di soldi contanti, si va in banca o
in uno sportello automatico e si prelevano usando una di queste. La
carta è direttamente collegata al conto che hai in banca e
la cassiera, quando gliel’ho data, ha preso direttamente da
lì i soldi».
«Chiaro. Più o meno».
«Bene. Possiamo andare a fare la spesa, ora?».
«Io ho fame».
Merlino roteò gli occhi al cielo, respirando profondamente,
ed indicò un punto in fondo al corridoio. Fu così
che Artù scoprì McDonald’s.
***
Alex
aprì gli occhi, infastidita dalla forte luce che entrava
dalle finestre. Quando era tornata dal turno all’ospedale,
quella mattina, era ancora buio e si era dimenticata di chiudere le
imposte.
Rotolò verso la sponda del letto ed allungò una
mano verso il comodino per afferrare il cellulare e guardare che ore
fossero: era da poco passata l’ora di pranzo e si suo stomaco
reagì subito borbottando.
Alex sospirò e si portò le braccia dietro la
testa, rimanendo ad osservare il soffitto per un po’,
pensando a Merlino e a quanto gli mancasse.
Erano ormai due giorni che non lo vedeva e la cosa che le faceva
più rabbia in assoluto non era il fatto che non si facesse
sentire con lei, bensì con i bambini
dell’ospedale, con i quali ormai non sapeva più
che scusa inventarsi. Avevano iniziato a chiedere chi fosse
l’amico venuto da lontano che non permetteva a Merlino di
andarli a trovare e lei si era limitata a dire che non lo sapeva. La
verità, dopotutto.
Più ci pensava, più Artù le sembrava
un mistero, così come la sua storia. Merlino era sempre
stato un tipo riservato, ma le risultava difficile credere che avesse
tenuto nascosto un qualcosa di così grosso e doloroso, senza
mai sentire il bisogno di parlarne con qualcuno. O forse ciò
che le risultava davvero difficile era accettare che lei non godesse
ancora della sua fiducia. Ma in fondo come biasimarlo? Nemmeno lei era
pronta a rivelare a Merlino i suoi scheletri, non ancora.
Ad ogni modo, aveva bisogno di vederlo e di assicurarsi che stesse
bene. Il pensiero che Artù, in un raptus dei suoi, lo avesse
accoltellato nel sonno l’aveva sfiorata più di una
volta, facendola rabbrividire. E poi gli avrebbe fatto una lavata di
capo coi fiocchi per il suo comportamento menefreghista:
l’aveva lasciata da sola con quei piccoli demoni per tre sere
consecutive!
Era stata una settimana abbastanza impegnativa, con tutti i turni di
notte che aveva dovuto fare per sostituire uno dei loro colleghi in
malattia, ma quel giorno e il giorno successivo era di riposo e aveva
proprio bisogno di rilassarsi e staccare un po’ la spina,
pensando prima di tutto a se stessa.
Per questo si alzò, si preparò un brunch leggero
e si preparò per uscire, intenzionata a scaricare un
po’ di tensione e ad affrontare Merlino a
quattr’occhi.
Non era mai stata a casa di Merlino, ma sapeva dove abitava.
L’aveva scoperto una sera, quando la sua auto alla Supernatural
l’aveva lasciato ancora una volta a piedi e lei si era
offerta di accompagnarlo a casa, visto anche il tipo di tempesta che si
stava scatenando. Lui dopo un paio di rifiuti si era lasciato
convincere e aveva guidato Alex fino in aperta campagna. Quando le
aveva indicato la grande villa a due piani che, nel buio e sotto la
pioggia, aveva l’aspetto vero e proprio di un castello in
miniatura, Alex era rimasta a bocca aperta, sconvolta. Si era chiesta
come Merlino, lavorando come cameriere nella caffetteria del paese,
potesse permettersi di mantenere una casa del genere, ma lui stesso le
aveva rivelato che l’aveva ereditata da suo nonno e che la
maggior parte delle stanze al piano superiore erano del tutto
inutilizzate.
Dovette allungare di molto il proprio percorso abituale per
raggiungerla, ma sotto quel cielo incerto, ricoperto di nuvole, non
aveva sudato poi molto.
Si tolse gli auricolari dalle orecchie, mettendo in stand-by il proprio
mp3, e percorse il vialetto fino a raggiungere il porticato in mattoni.
Suonò il campanello ed attese per qualche minuto, poi si
disse che non doveva essere in casa e sospirò, chiedendosi
dove diavolo potesse essere andato.
Entrò nella caffetteria della signora Begum e
trovò proprio lei dietro il bancone, lei che solitamente se
ne stava rintanata in cucina a preparare i dolci da esporre in vetrina.
«Alexandra! Che piacere, tesoro», le disse,
rivolgendole un sorriso ed indicandole di sedersi su uno degli sgabelli
alti. «Ti preparo un bel milk-shake dissetante? Sembra che tu
abbia corso la maratona di New York!».
Alex rise, slacciandosi la felpa. «Quasi. Contavo di trovare
Merlino, ma a quanto vedo…».
«Ah, pensavo lo sapessi! È in malattia,
tornerà lunedì. Si è preso un brutto
raffreddore. Sei già passata a casa sua? Sicuramente
sarà lì, al caldo sotto le coperte!».
Alex stiracchiò un sorriso, ripromettendosi che quelle
orecchie a sventola gliele avrebbe staccate dalla testa a morsi.
«No, non sono andata a casa sua. Magari più tardi,
per vedere se ha bisogno di qualcosa».
«Sei sempre così gentile con lui, Alex.
È proprio fortunato ad averti».
La signora Begum le fece l’occhiolino e Alex, rossa come un
peperone, cercò di spiegarle che erano solo amici e che non
sarebbero mai stati nulla di più, ma la proprietaria della
caffetteria la ignorò e sparì in cucina,
ridacchiando.
Alex sbuffò, facendo una pernacchia con le labbra, e
ringraziò il cielo che la caffetteria fosse vuota.
***
Dopo
l’iniziale fase di stupore, incredulità e una
quantità esagerata di domande su praticamente tutto quello
che gli balzava agli occhi, Artù aveva iniziato ad
annoiarsi, seguendolo tra le corsie del grande supermercato.
Proprio come un bambino aveva iniziato a chiedergli quanto tempo ancora
ci avrebbe messo, quando sarebbero tornati a casa e via discorrendo.
Merlino aveva iniziato a non sopportarlo più e per un paio
di volte si era persino domandando che cosa sarebbe successo se
l’avesse abbandonato nel parcheggio sotterraneo del centro
commerciale. Probabilmente un disastro di proporzioni epiche, ma meglio
quello che avercelo intorno quando era impostato sulla
modalità “irritante”.
Quando finalmente gli aveva detto che sì, potevano tornare a
casa, Artù gli aveva chiesto di poter guidare. Merlino
l’aveva guardato sconcertato, cercando di capire se stesse
scherzando. Ma no, il re di Camelot non scherzava su questioni del
genere.
Aveva cercato di spiegargli che non poteva imparare a guidare
un’auto in cinque minuti e che per farlo legalmente avrebbe
avuto dovuto prima ricevere la patente dalla motorizzazione, ma non
c’era stato verso di convincere quell’asino reale a
lasciar perdere. Anche Merlino però fu irremovibile e gli
aveva detto chiaro e tondo che non gli avrebbe mai fatto toccare il
volante della sua Fiat 1500 Cabriolet Pininfarina del 1964: molto
spesso lo lasciava a piedi, ma era un modello più unico che
raro ormai e ci era affezionatissimo.
Artù gli aveva tenuto il muso per tutto il viaggio e Merlino
non aveva nemmeno provato ad avviare una conversazione: sarebbe stato
inutile con quella testa di legno. Il tempo di sbollire e tutto sarebbe
tornato alla normalità.
Merlino parcheggiò l’auto nel vecchio fienile che
aveva messo a nuovo quando aveva comprato la villa, trasformandolo in
una specie di garage, ed aprì il bagagliaio.
«Mi date una mano?», chiese ad Artù,
fermo ad esaminare la sua vecchia ma fedele bicicletta.
«Non ci penso proprio. Non vedo nemmeno perché tu
abbia ritenuto necessario comprare tutta quella roba».
«Se mangiate come un bue non è colpa
mia», bofonchiò, guadagnandosi
un’occhiata truce.
«Sono stanco, vado nelle mie stanze».
Merlino socchiuse gli occhi, sentendolo uscire dal fienile, poi si
voltò chiamando il suo nome. Il re lo fissò ed
afferrò al volo le chiavi che gli aveva lanciato.
«Ricordatemi di darvi le vostre, più
tardi».
Artù annuì, accennando un sorriso, e si
incamminò nuovamente verso l’ingresso sul retro.
Lo stregone guardò le tre borse che aveva incastrato
faticosamente nel bagagliaio e sospirò, tirandosi su le
maniche.
Merlino bussò piano alla porta e dall’interno
sentì Artù dargli il permesso di entrare. Lo
trovò sdraiato sul letto, con una mano sul petto e il
respiro leggermente affannoso, gli occhi fissi sul soffitto.
«Artù», esclamò e corse
subito al suo fianco, preoccupato. «Che cos’avete?
State male?».
«Io… non lo so. È come
se…», strinse gli occhi e con essi anche la mano
che teneva sul cuore, scosso da un tremito di dolore.
Merlino gliela levò delicatamente e la sostituì
con la propria. Senza alcuno sforzo di memoria, istintivo
com’era sempre stato nei casi di pericolo, un incantesimo gli
uscì dalle labbra e i suoi occhi si tinsero d’oro.
Gli effetti della sua magia furono immediati: Artù si
rilassò, sospirando di sollievo, e i suoi occhi blu
tornarono a guardare quelli di Merlino, ancora chino su di lui.
«Grazie», disse a bassa voce, tirandosi lentamente
su a sedere. «È stato… terribile. Come
se quella spada mi avesse trafitto ancora. Ne ho sempre avuto il
presentimento, ma questa ne è la prova definitiva: quel
frammento è ancora lì, pronto a riportarmi nel
mondo degli spiriti una volta adempiuto il mio compito. Merlino?
Merlino, mi stai ascoltando?».
Il mago si stava guardando le mani tremanti, con gli occhi colmi di
lacrime. Aveva sentito tutto ciò che Artù aveva
detto ed era preoccupato quanto lui, ma sapeva che avrebbe trovato un
modo per impedire che Artù morisse una seconda volta.
Ciò che in quel momento lo destabilizzava davvero era un
dolore molto più profondo, radicato saldamente nella sua
anima: erano secoli che non utilizzava più la magia, secoli
che non lasciava che quel flusso potente e pieno di vita gli bruciasse
nelle vene. Non era preparato ad affrontarlo di nuovo, a sentirsi
invaso da quel potere che, nonostante il suo rifiuto, non aveva mai
smesso di aumentare dentro di lui. Era bastato vedere Artù
soffrire perché ogni sua barriera crollasse, dandogli libero
sfogo, e ora non riusciva più a rimandarlo indietro, ad
imprigionarlo nuovamente in quell’angolo remoto della sua
mente.
Sentiva le pupille tremargli e la temperatura del suo corpo aumentare
inesorabilmente, potenziato da quell’energia troppo a lungo
tenuta a freno. La vista gli si annebbiò e la
razionalità iniziava ad abbandonarlo, ma con
l’ultimo frammento di lucidità corse fuori dalla
stanza di Artù e una volta in bagno si gettò
sotto il getto freddo della doccia, ancora con i vestiti addosso.
«Merlino!».
La voce di Artù fu una manna dal cielo, ciò che
gli diede le forze necessarie a stringere le catene intorno alla magia
che lo invadeva da capo a piedi.
Completamente svuotato e con le spalle contro le piastrelle bianche si
lasciò scivolare a terra, dove rimase seduto a testa china e
le braccia abbandonate accanto alle gambe.
Artù si affrettò a spegnere il getto freddo della
doccia e lo sollevò di peso per portarlo nella camera
adiacente alla sua. La stanza di Merlino era decisamente diversa dalla
sua, molto più moderna, ma non vi prestò molta
attenzione. Posò delicatamente il mago sul letto e lo
guardò, senza sapere che cosa fare.
«Merlino?».
«Sto bene», rispose con un rantolo.
«Lasciatemi solo, per favore».
«Davvero credi che potrei lasciarti da solo in un momento del
genere? Che diavolo ti è successo?».
«Non lo so», mentì. «Ora
andate via, vi prego».
Artù sospirò, trattenendo a stento la rabbia, e
se ne andò chiudendosi la porta alle spalle, delicatamente.
Merlino cercò di respirare profondamente, per calmarsi, ma
le lacrime gli inumidirono gli occhi.
Come poteva sperare di proteggere Artù se ogni volta che
utilizzava la magia rischiava di venirne sopraffatto, sparendo sotto la
sua influenza? Era troppo anziano, nonostante il suo aspetto, e il
potere che possedeva troppo grande. E non poteva chiedere aiuto a
nessuno.
Infilati dei vestiti puliti ed asciugati alla bell’e meglio i
ricci capelli neri scese in salotto, dove trovò
Artù seduto sul divano, a fare zapping, una cosa in cui si
era rivelato essere molto bravo.
«Grazie per avermi tirato fuori dalla doccia»,
esclamò, fermo alle sue spalle.
Il re si voltò ed accennò un sorriso.
«Siamo pari. Mi spieghi che cosa ti è
successo?».
Merlino andò a sedersi al suo fianco, con una gamba sotto
l’altra, e confessò: «Quando Camelot
è caduta ho deciso che non avrei più utilizzato
la magia in vita mia. L’ho rinnegata».
Artù sgranò gli occhi, incredulo. «Tu che
cosa? Ti avevo detto che non saresti dovuto cambiare, mai».
«Voi non potete capire», mormorò,
scuotendo il capo.
«Ci risiamo».
«È davvero così, Sire. Ho sempre usato
la magia per Camelot, per aiutare voi e per proteggervi, ma nel momento
in cui mi serviva di più è stata inutile! La
magia non è riuscita a salvare voi, come non è
riuscita a salvare Camelot, e questo è stato il peggiore dei
tradimenti, per me. La mia fede nella magia è andata
distrutta, in quel momento».
«Ma è stata la magia a renderti immortale,
è stata la magia a far sì che io potessi tornare
oggi!».
Merlino gli rivolse un sorriso, un sorriso colmo di amarezza.
«Sì, ma come avete detto voi, per un destino che
non abbiamo scelto. E anche io sono stanco di vivere così,
controllato da qualcosa più grande di noi, in grado di
buttarci via non appena raggiungerà il suo scopo».
«Non è una buona ragione per arrendersi e
rinnegare se stessi».
«Forse», disse stringendosi il collo tra le spalle.
«Comunque è passato troppo tempo e avete visto voi
stesso: riesco a controllarla a malapena».
«Ti servirà dell’allenamento. Anzi, a
tutti e due servirà».
Merlino colse nel suo sguardo una punta di malizia e capì
subito dove voleva andare a parare. «Non vorrete usarmi
ancora come manichino vivente, vero?».
«Chi può dirlo».
«Vi odio».
«È reciproco, allora!».
I loro sguardi si incontrarono ed entrambi sorrisero, felici almeno di
aversi l’un l’altro.