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Autore: yourkittyness    22/02/2015    2 recensioni
ovvero:
Come innamorarsi del proprio vicino di casa.
Le storie di sei ragazzi universitari alle prese con il loro primo amore.
{Aokise - Kagakuro - Midotaka}
Genere: Malinconico, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Un po' tutti
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciao a tutti, mi dispiace per l'attesa e spero che questo capitolo ne sia valsa la pena. Fatemi sapere in un commento!
Ci rivediamo nell'angolo autrice ( •ॢ◡-ॢ)-♡

Il destino ha molta più fantasia di noi
ovvero:
Come innamorarsi del proprio vicino di casa.
(3)

 
Fin da sempre Kise era stato convinto che il suo peggior difetto fosse affezionarsi agli altri troppo velocemente. E, be’, lui di difetti ne aveva tanti. La sua parlantina e l’egocentrismo traspariva nei momenti meno opportuni non potevano essere minimanente paragonati a questa sua natura che non gli aveva portato niente se non delusioni o dolore. Per un motivo o per un altro, finiva sempre per affezionarsi a chiunque riuscisse a sopportarlo per più di un’ora e Aomine Daiki era da poco entrato a far parte di quella cerchia di persone che, seppur un tempo molto grande, aveva finito per stringersi fino a comprendere solo lo stesso Kise.
Non aveva mai preso in considerazione l’ipotesi che la gente si avvicinasse a lui per un secondo fine. Forse era cresciuto semplicemente nella bambagia e nessuno gli aveva insegnato come mettere da parte la sua genuina ingenuità nei confronti delle persone, ma non riusciva davvero a capacitarsi di come la gente riuscisse ad avvicinarsi a qualcuno, facendo finta di essergli amica per poi andarsene, senza rimanerne scottati. Forse era stata colpa di Yukio, che lo aveva abituato troppo bene per gli standard di quella società.
Il solo pensare a dargli la colpa di una simile sciocchezza lo faceva sentire una feccia. Chi era lui per poter accusare l’altro? Si sentiva in colpa solo a pronunciare o a pensare il suo nome. Ogni volta che lo evocava si sentiva come se stesse bestemmiando, come se stesse gettando fango su di lui, perché, dall’inizio – o forse sarebbe stato meglio dire dalla fine – la colpa era stata solo sua.
Aprì gli occhi, assonnato, riportando alla mente quello che era successo quella stessa mattina. Aomine aveva avuto un attacco di panico e lui era scoppiato a piangere, completamente terrorizzato che quello che aveva vissuto al liceo potesse ripresentarsi di nuovo. Perché alla fine Kise sarebbe rimasto sempre lo stesso egoista di sempre, lui non aveva pianto per Aomine, aveva pianto per se stesso.
In qualche modo aveva convinto Daiki a farlo rimanere da lui, troppo preoccupato per lasciarlo da solo, e avevano cercato di passare un pomeriggio nella normalità, facendo finta che non fosse successo niente e senza menzionare in nessun modo l’accaduto. Malgrado ciò, Kise non era riuscito a stare tranquillo. Un fastidioso senso di ansia all’altezza del petto rendeva difficile persino la respirazione, a quanto pareva era tornata a fargli visita per ricordargli che quello che aveva fatto non era stato affatto superato. Perciò aveva convinto Aomine a farlo rimanere lì anche per dormire. Probabilmente Daiki aveva accettato perché Ryouta sembrava un cucciolo smarrito senza una casa a cui tornare e Kise ne era certo, se fosse andato a dormire da solo, la notte sarebbe stata fin troppo lunga.
Si sporse per prendere il telecomando che era finito a terra, spegnendo la tv. L’orologio poggiato sul tavolino segnava le 3.42 del mattino e Kise dovette ricredersi, anche con Aomine accanto a sé, la notte sarebbe stata molto lunga. Si girò per guardare l’altro: si teneva la testa con un braccio e si ritrovò a ridacchiare notando che, non solo russava, ma aveva anche un po’ di bava ai lati della bocca. Chissà cosa stava sognando.
Si raggomitolò sul divano, cercando di occupare meno spazio possibile, poggiando la fronte sulle sue ginocchia cercando di far placare quel senso di ansia che lo stava portando alla pazzia. Cercava di dirsi che con Aomine non sarebbe finito allo stesso modo, che sarebbe riuscito a passarci sopra e che avrebbe continuato a vivere senza pensare a Kasamatsu sentendosi l’errore ma, mentre si sentiva sempre più schiacciato dall’oscurità, sembrava che tutto stesse perdendo forma: lui stesso, il mondo circostante e infine i suoi pensieri.
-
Ryouta venne svegliato da un piacevole profumo di zuppa di tofu – la sua preferita – e riso. Che Aomine stesse preparando la colazione?
Mugugnò qualcosa, stiracchiandosi, e si accorse che era stato coperto da un plaid. Sentì le guance andargli a fuoco. Era rimasto a casa di Daiki per prendersi cura di lui e invece era stato il contrario. Che avesse insistito per rimanere perché in fondo sapeva che stare da solo sarebbe stato difficile più per lui che per il ragazzo con la pelle ambrata?
Si portò la coperta sulla faccia quando sentì Aomine dire: «Ti ho sentito, muoviti ad alzarti», ma Kise si sentiva come una ragazzino che doveva alzarsi per andare a scuola, con un test di matematica ad attenderlo. Quello che aveva vissuto ieri gli sembrava un incubo ma la consapevolezza che non era stato un frutto della sua immaginazione lo spingeva a rimanere su quel divano per sempre, sperando che la forza di gravità lo schiacciasse fino al centro della terra.
«Oi» questa volta la voce di Aomine era più vicina, ma si rese conto che era a pochi centimetri da lui solo quando gli tolse la coperta di dosso. Kise in tutta risposta si mise a pancia in giù facendo sprofondare il viso su un cuscino. «Ti ho preparato la colazione e questo è il tuo ringraziamento?»
«Altri cinque minuti» disse cercando di strappargli la coperta di mano con la faccia ancora spiaccicata contro il cuscino.
«Mi hai scambiato per tua mamma?» Ryouta, ormai rassegnato, e sentendo un certo languorino, decise di andare fino alla tavola e, eventualmente, dormire sulla sedia. Seguì Daiki fino all’altra stanza, mentre il profumo della colazione gli inondava le narici e sembrava gli stesse rimettendo in moto il cervello. Strofinandosi gli occhi si sedette, trovando di fronte a sé una tavola talmente ben apparecchiata e così tanto piena di cibo che pensò di essere finito a casa di sua madre.
«Dopo questa colazione penso che sì, potrei scambiarti per mia mamma» Aomine sbuffò, lievemente in imbarazzo e Kise afferrò le bacchette pronto per mangiare.
La tavola era avvolta da un silenzio per niente imbarazzante. Kise si era abituato molto facilmente alla presenza di Aomine, per la maggior parte del tempo era silenzioso – a parte le volte in cui veniva infastidito ed esplodeva come un vulcano urlando talmente forte da sovrastare il rumore di un trapano. Aomine gli ricordava un Savannah, un gatto ibrido, metà domestico e metà selvatico.
Purtroppo però, per quanto si sforzasse di pensare ad altro, i ricordi di ieri gli balenavano in mente ogni volta che chiudeva gli occhi, come se quelle scene fossero state marchiate a fuoco sotto le sue palpebre, indelebili. Avrebbe preferito che Aomine non uscisse l’argomento, o si sarebbe sentito in dovere di spiegare troppe cose che non voleva ricordare, eppure, anche se l’avesse fatto, non avrebbe potuto di certo dargli torto. Era stata un’esperienza devastante: neanche quando aveva ripreso quel vecchio album fotografico in mano, mentre sistemava gli oggetti presenti nei pacchi che stava svuotando dopo il trasferimento, i ricordi avevano preso così il sopravvento di lui, le mani non avevano certo preso a tremargli in quel modo e le lacrime non avevano cominciato a scorrere incessantemente. Di nuovo capì quanto fosse egoista, lì, seduto al tavolo di Daiki, mentre si preoccupava più per se stesso, per il suo passato e per i suoi ricordi che di Aomine e del presente che lui stava vivendo.
Quando si riscosse dai suoi pensieri, si accorse che Aomine lo stava guardando con un’espressione preoccupata. “Dovrei essere io a preoccuparmi per lui ma è lui che si preoccupa per me. Stanno succedendo proprio le stesse cose, eh?”.
«C’è qualche problema? Forse qualcosa non ti piace?» Kise scosse la testa, con un mezzo sorriso.
«No, è che…» si fermò. Sarebbe stato meglio non andare avanti. «Niente. Lascia stare.»
Aomine sospirò, massaggiandosi la radice del naso. «Per caso riguarda quello che è successo ieri?»
Kise si sentì un idiota, anche se non voleva parlarne aveva finito per far uscire il discorso. Cosa avrebbe dovuto rispondere? Sì, ovviamente, e poi? Avrebbe dovuto continuare a parlare di quanto la sua vita al liceo fosse stata una merda, di quanto lui fosse una merda, tanto che non era riuscito a salvare il suo migliore amico? Non voleva deprimere nessuno con la sua vita ma anche se avesse cercato di negare i fatti l’altro avrebbe sicuramente capito che invece sì, pensava a quello che era successo il giorno prima e niente andava bene.
«Sì» si limitò a dire, reprimendo tutto quello che fino ad ora aveva cercato di tenere a bada. Eppure lui stesso sapeva che prima o poi anche lui si sarebbe spezzato, per quanto cercasse di far finta di essere la persona allegra e solare che non era. Perché la vita di Kise Ryouta non era affatto così perfetta.
«Posso chiederti una cosa?» l’atmosfera si stava facendo sempre più tesa. Se era vero che anche Kise aveva un punto di rottura, probabilmente stava per sbriciolarsi in mille pezzi. Si limitò ad annuire. «Ti sei messo a piangere solo perché ti sei fatto prendere dalla paura?»
«No» disse secco. Non voleva andare oltre ma si sentiva in dovere di dirglielo, di parlargliene e la ragione non la sapeva neanche lui. Forse perché sapeva che Daiki avrebbe potuto capirlo, avrebbe potuto consolarlo. Forse.
«Ti ricordo che al nostro primo incontro tu mi hai fatto una domanda inopportuna?» fece una piccola pausa, probabilmente per vedere quale reazione Kise avrebbe avuto. «Questa volta posso essere io a farmi gli affari tuoi?» a Kise sfuggì un sorriso, guardando un punto indefinito del tavolo, annuì. «Perché hai pianto?»
Kise prese un bel respiro. Era arrivato il momento di parlarne, per la prima volta. Non si sentiva pronto, ma era necessario e forse l’avrebbe aiutato ad andare avanti.
«Tutti pensano che la mia vita sia perfetta. Dicono che sono bello, già da questa età lavoro come modello, la mia è una famiglia agiata, niente problemi, niente preoccupazioni» sorrise amaramente scompigliandosi i capelli. «Mi fa ridere pensare a quanto la gente possa essere superficiale. Giudicano le mie esperienze di vita guardando il mio conto in banca, ma se la mia vita è perfetta allora la loro deve proprio fare schifo» strinse le labbra in una linea sottile. «Penso che la storia che più ti interesserebbe sapere inizi alle superiori. Dicono tutti che gli anni delle medie siano i peggiori e quelli delle superiori i migliori, ironia della sorte:entrambi sono stati una totale merda.» Aomine lo stava ascoltando con attenzione mentre Kise cercava di trovare le parole giuste. «A metà del primo anno incontrai questo ragazzo, Kasamatsu, era un anno più grande di me ma, stranamente, andavamo davvero d’accordo. Alla fin fine non avevamo niente in comune ma, in un modo o nell’altro, dopo le lezioni stavamo sul tetto della scuola a parlare del più e del meno. Una cosa che mi è rimasta molto impressa è che i suoi occhi brillavano quando parlava, anche se l’argomento era una sciocchezza, lui metteva sempre una tale passione in quel che diceva che spesso rimanevo zitto perché non riuscivo più ad aprir bocca. Ora che ci penso, parlavamo molto di me e lui mi ascoltava. Lui però non mi parlò mai di se stesso, della sua famiglia, dei suoi sogni per il futuro, dei suoi altri amici. E io non glielo chiesi mai. Dopo un anno in cui ogni giorno, dopo la scuola, ci ritrovavamo sul tetto, mancò per un’intera settimana da scuola. Lì per lì mi sembrò normale, fino a quando, una settimana dopo non si ripresentò con il volto coperto di lividi. Ci scherzai su, dicendo che doveva smetterla di fare il bulletto in giro…» gli si spezzò la voce, e sentì la prima lacrima calda scivolargli fino al mento. «… e lui rise, e solo adesso realizzo quanto quella risata fosse triste, come se avesse potuto scoppiare a piangere da un momento all’altro, come se… come se avesse potuto gettare via la sua vita in quell’istante. La storia si ripetè ancora e ancora, si assentava spesso e al suo ritorno era ricoperto di lividi. Col passare dei giorni quella luce negli occhi che mi piaceva tanto stava scomparendo, nell’ultimo periodo arrivò addirittura a sembrare una persona differente» Kise si fermò, non sapeva come continuare. Sentirsi raccontare quelle cose successe così tanto tempo fa gli faceva venire alla mente così tante cose, suoni, sensazioni. Riguardando al passato capì che Kasamatsu in realtà parlava spesso di sé, molto velatamente, ma nei suoi discorsi lui c’era sempre e non era mai riuscito a capirlo. «Ancora oggi mi sento in colpa, avrei dovuto intuire molte cose, chiedergli molte cose. Probabilmente non avevo la maturità adatta, ma ancora adesso non mi perdono tutto quel tempo sprecato a parlare di me, senza parlare di lui. Così forse avrei capito meglio tutto. Il periodo davvero peggiore è stato negli ultimi mesi invernali del secondo anno, ormai Kasamatsu era divento un’altra persona e io continuavo a chiedermi se domandargli di più sulla sua vita sarebbe stata una scelta giusta, se avrebbe reagito male, se avrebbe continuato ad essere mio amico. Erano ragionamenti molto stupidi e adesso me ne rendo conto, ma il solo pensiero di poter perdere una persona così importante mi stava logorando. È stato in quel periodo che tutto mi è divenuto più chiaro: Kasamatsu cominciò ad avere seri problemi, come attacchi d’ansia o di panico. Mi sono documentato più volte su internet per sapere cosa fare, per capire come farlo stare meglio, perché stesse così. Era come se la terra si stesse sgretolando sotto i miei piedi, probabilmente consideravo Kasamatsu la mia ancora di salvezza. Il senpai migliore del mondo, che sarebbe stato lì, sul tetto, ad aspettarmi per sempre. Un pomeriggio gli chiesi di promettermelo, di non mollare, che l’avrei trovato sempre lì sul tetto ad aspettarmi. Non mantenne la promessa» Kise cominciò a singhiozzare. «Nonostante questo, non posso incolparlo, perché la colpa di tutto è stata mia. Perché non sono stato lì e ho scoperto tutto dopo, insieme agli studenti della scuola, come se fossi stato uno qualunque, un ragazzo che aveva incontrato per caso nei corridoi» provò ad asciugarsi le lacrime con il palmo della mano ma continuavano a scendere, ininterrottamente. «Kasamatsu era omosessuale e a suo padre non andava bene. Suo padre non voleva un figlio come lui, gli ha fatto del male, fisicamente e psicologicamente, lo ha logorato dentro privandolo di tutto e strappandolo da me» Ormai non si sforzava più di asciuagarsi le lacrime, per la prima volta aveva raccontato questa storia a qualcuno e mentre raccontava la loro storia gli sembrò che Kasamatsu stesse rivivendo in quelle stesse parole. «Mi parlava sempre della fioritura dei ciliegi negli ultimi giorni, ma si è tolto la vita prima di vederli sbocciare. Mi ha lasciato anche una lettera, chiedendomi scusa e di portargli dei fiori di ciliegio appena sarebbero fioriti» la voce gli si spezzava ad ogni parola, queste distorte dai singhiozzi continui.  «Quindi sì, ieri non ho pianto per te, ma per me e per lui. Forse ti sembrerò egoista e, credimi, lo sono. Sai, volevo rimanere qui perché pensavo di essere preoccupato per te, forse invece avevo solo paura per me stesso. E-»
«Smettila di dire cazzate» Aomine lo guardava, arrabbiato, e Kise non capiva il perché. «Smettila di dire che la colpa è stata tua, tu non c’entri proprio niente» Kise smise per un attimo di respirare. «Smettila di addossarti tutte le responsabilità, come se il mondo girasse solo attorno a te. Tu non c’entri nienti, è colpa di suo padre, non tua.» dopo una breve pausa continuò. «Secondo me ti è molto grato» le lacrime ripresero a scendere. «Dopotutto l’hai sostenuto, senza fargli domande, penso che in quel periodo lo facessi anche ridere, facendogli dimenticare tutto quello che aveva alle spalle. Non incolparti per cose inutili. Potranno sembrare delle parole banali ma, te lo assicuro, lui non vorrebbe vederti così. Vorrebbe vederti continuare a vivere felice, facendo le esperienze che lui non ha fatto. Ogni volta che respiri, che sbatti le palpebre, che ti batte il cuore, lo stai facendo per entrambi. Hai capito brutto pezzo di scemo?» Kise sentì la mano di Aomine sui suoi capelli. Il biondo si aggrappò alla maglietta dell’altro, come se fosse l’unico appiglio per non cadere in un baratro.
Kagami era davanti al portone del condominio con le chiavi della macchina di Himuro in mano. Gliele aveva chieste all’improvviso, ma era per un buon motivo quindi aveva fatto di tutto per farsele dare. A dire il vero, il problema maggiore era stato Murasakibara, il ragazzo del suo migliore amico. A volte era davvero infantile e fastidioso e a pensarci sentì la rabbia salire.
«Chissà dov’è finito Kuroko» disse scompigliandosi i capelli. Per arrivare a casa dei genitori dell’altro ci sarebbero volute tre ore e non era abituato ad alzarsi presto, soprattutto dopo aver passato la serata a riguardarsi alcune partite dell’NBA. Anche se si sentiva uno sciocco, non era ancora riuscito a rinunciare al suo sogno di diventare un giocatore professionista ma non poteva certo biasimare suo padre per averlo convinto ad intraprendere gli studi universitari.
«Buongiono, Kagami-kun» sentì una flebile voce provenire da un punto indefinito e saltò all’indietro, urlando in maniera non proprio mascolina, ritrovandosi Kuroko davanti. Non aveva idea di quando fosse arrivato, sapeva solo di aver perso sei anni di vita, se non di più.
«’Giorno» si limitò a dire, con la fronte corrucciata. «Non dovresti far spaventare le persone così.»
«Non è colpa mia. Ti ho solo dato il buongiorno» non sapeva perché, ma sentiva che dietro quelle semplici parole si nascondesse della tristezza.
Istintivamente gli appoggiò una mano sulla testa, scompigliandogli un po’ i capelli. «Su, andiamo, non vorrai far aspettare ancora il tuo cagnolino.»
A dire il vero, dopo il primo incontro con Kuroko, Taiga aveva pensato più e più volte a quel nanetto dai capelli azzurri. Nonostante fossero vicini di casa non l’aveva mai notato e persino quella mattina non l’aveva visto avvicinarsi. Anche in quel momento, che era seduto nel sedile accanto a lui, gli sembrava che potesse sparire da un momento all’altro. Era una presenza strana, ma riusciva a sentirsi a suo agio. Con lui il silenzio non era per nientepre imbarazzante, sembrava la normalità. Era come se si conoscessero da anni, come se in una vita precedente si fossero già conosciuti. Lo scorso pomeriggio era stato addirittura piacevole; aveva preparato del caffè in più per il semplice scopo di invitarlo a casa sua e scoprire che tipo di persona era e ne era rimasto piacevolmente sorpreso. Scoprire, poi, che anche lui amava il basket lo aveva mandato in estasi. Era da tempo che non incontrava qualcuno con le sue stesse passioni e il solo pensare di poter fare un one-on-one contro qualcuno dopo così tanto tempo lo mandava fuori di testa.
 «Dovrai farmi da navigatore, lo sai?» disse Kagami con un mezzo sorriso. Tetsuya annuì, nascondendosi dentro la felpa che aveva addosso. «Hai il viso rosso, ti senti bene?» Tetsuya cominciò a tossire e Kagami sperò che non gli morisse in macchina.
«Sì, tutto bene» si limitò a dire, cercando di nascondersi ancora di più.
«Allora» disse Taiga tossicchiando. «Il tuo cane, quanto è grosso, esattamente?»
«È un cucciolo di Husky, quindi non è ancora tanto grande.»
«Capisco» Kagami sospirò sollevato, più piccolo era, meno avrebbe sofferto. Sin da piccolo aveva avuto una certa paura dei cani, forse da quando il cane di suo zio aveva cominciato a rincorrerlo dopo aver indossato una maglietta con un hot-dog stampato sopra.
«Quindi Kagami-kun ha paura dei cani?»
«Assolutamente no» disse troppo in fretta, arrossendo come un peperone. «Semplicemente non vado molto d’accordo con loro. Preferisco i gatti.»
«Come mai hai paura dei cani?»
«Ti ho detto che non ho paura!» si scompigliò i capelli lanciandogli un’occhiataccia. «Be’, comunque, una volta, quando ero molto piccolo, il cane di mio zio ha cominciato a corrermi dietro. È stato decisamente traumatizzante perché ancora non sapevo correre bene ed inciampavo ogni due passi.»
«E i tuoi genitori?»
«Erano entrati dentro per prendere borse e cappotti, quel maledetto cane ha aspettato il momento in cui ero solo per aggredirmi.»
«Non hai mai preso in  considerazione l’ipotesi che stesse giocando?»
«Assolutamente no. Non puoi neanche immaginare la malvagità che luccicava in quegli occhietti neri» a Kuroko scappò una risata e Taiga arrossì, di nuovo.
«Se ti può consolare, cercherò di non farti “aggredire” da Nigou.»
«Nigou? Perché si chiama così?»
«Dicono che io e lui siamo molto simili, quindi abbiamo deciso di chiamarlo Tetsuya Nigou, detto Nigou.»
«Come fa un cane ad assomigliarti?» chiese ridendo.
«Lo capirai vedendolo.»
-
Appena Kagami mise un piede a terra, sentì un cane abbaiare e una palletta nera correre verso Kuroko. Kagami non era ancora preparato psicologicamente alla vista di quell’animale e di sicuro sapere che era ancora piccolo non gli importava, dopotutto era sempre un cane.
Stava cercando di stare il più lontano possibile da quella palla di pelo, ma quando Tetsuya se ne accorse non perse tempo ad andargli incontro, portando quella bestiola tra le mani.
«Kagami-kun, ti presento Nigou» il cane, per tutta risposta, abbaiò e Kagami sentì un brivido di freddo salirgli lungo tutta la schiena. Nonostante il terrore, rimase pietrificato anche nell’accorgersi della somiglianza tra i due, in qualche modo il loro sguardo era simile e la cosa lo inquietava un po’.
Kuroko stava continuando ad avvicinare Nigou al suo viso quando fu salvato – o quasi – dalla madre del ragazzo con i capelli azzurri. Infatti, sentirono la porta sbattere ed un urlo.
«Tetsu-chan!» Taiga per un attimo pensò di aver perso l’udito.
«Mamma non urlare» la donna aveva le lacrime agli occhi.
«Ci sei mancato così tanto!» disse abbracciandolo. Kagami, osservando la donna si disse che madre e figlio erano troppo diversi per essere parenti, l’unica cosa che avevano in comune erano i capelli. Qualche secondo dopo si accorse che dietro i due c’erano un uomo – riuscì a stento a trattenere un urlo – e intuì che probabilmente quello era il padre. Lo stava fissando e Kagami non riuscì a smettere di sudare freddo. Perché lo stava guardando in quel modo? Aveva fatto qualcosa di male? L’aveva scambiato per l’assassino di suo padre?
«E questo giovanotto chi è?» stavolta l’attenzione della donna era rivolta a lui e per un attimo temette il peggio. Perlomeno adesso l’attenzione del padre di Tetsuya era rivolta al figlio e non a lui.
«Sono il vicino di casa di Kuroko» disse. «Mi chiamo Kagami Taiga. Piacere di conoscerla signora.» disse inchinandosi. La donna gli diede una pacca – neanche troppo leggera – sulla spalla.
«Suvvia, non essere così formale.  Puoi chiamarmi Eiko-chan e io ti chiamerò Taiga-chan, ok?» annuì, sentendo dire al padre di Tetsuya “perché quando noi ci siamo conosciuti hai insistito per farti chiamare Sasaki-sama mentre con lui sei così gentile?”.
Taiga era decisamente disorientato, possibile che la famiglia di Kuroko potesse essere così strana?
«Sono così felice che Kuroko sia venuto con un amico! Non lo sei anche tu, caro?» l’interpellato si limitò ad annuire, sembrava depresso. Sentì Kuroko dirgli “stai tranquillo papà, sai com’è fatta la mamma”. 
Senza che gli fosse data la possibilità di respirare, pensare, dire qualcosa di intelligente, la madre di Kuroko lo spinse dentro casa.
Erano seduti in salotto, Kagami lanciò un’occhiata a Kuroko che sembrava stesse chiedendo a dio di ucciderlo all’instante. “Eiko-chan” stava continuando a parlare, ininterrottamente, e ancora, si chiede da chi avesse preso Kuroko. Forse quello più simile al figlio era il padre, di sicuro neanche lui si faceva notare molto. “A proposito, dov’è?”. Quando si girò trovò l’uomo accanto a sé. Il trauma fu troppo per urlare, probabilmente morì per un attimo e dio, avendo pietà di lui, decise di rispedirlo sulla terra. Tutti i componenti di quella famiglia erano troppo per lui. Stava cercando di ricomporsi quando all’improvviso la madre di Kuroko smise di parlare. Non sapeva cosa questo silenzio potesse comportare, ma dalle poche esperienze fatte finora con quella famiglia, non prevedeva nulla di buono.
«Non ho cucinato abbastanza per tutti!» urlò e vide Tetsuya impallidire visibilmente.
«Ti avevo detto di non preparare nulla. È già tanto se sono passato di mattina e non di sera» sua madre gonfiò le guance.
«Perché devi essere sempre cattivo con tua madre? Ho preparato il pranzo con tanto amore» lo sguardo della donna si spostò verso Kagami. «Taiga-chan tu vuoi rimanere per pranzo, vero?» il rosso rimase pietrifato. Cosa doveva rispondere? Si girò verso Kuroko che aveva un’espressione tetra, sembrava volesse dire “se dici di sì ti ammazzo”, a quel punto si girò verso Eiko-chan che aveva sul viso un sorriso tanto minaccioso da poter essere scambiata per l’anticristo. Sembrava volesse dire “se dici di no ti ammazzo”. Kagami maledisse se stesso e il momento in cui aveva proposto a Tetsuya di accompagnarlo.
«Per me non c’è alcun problema» disse, sperando di poter rimanere imparziale. «Decidete voi-»
«Decidi, adesso» dissero nello stesso momento. La loro voce rimbombò per la casa. Kagami era terrorizzato.
«Lasciate stare questo povero ragazzo» disse il padre di Kuroko, dando una pacca sulla spalla a Kagami. «Anche se è alto, e muscoloso e tutto quello che non sono stato io in gioventù e lo odio, non prendetevela con lui» Taiga stava per mettersi a piangere. Kuroko non aveva sicuramente preso da lui.
«Zitto tu» dissero ancora contemporaneamente. «Kagami-kun per favore, sbrigati a decidere» disse questa volta Kuroko. Dopo un’attenta riflessione, aveva capito che sarebbe stato meglio assecondare il suo vicino di casa, quel piccoletto avrebbe potuto davvero ucciderlo e, ancora peggio, la sua incredibile capacità di passare inosservato avrebbe anche impedito che la polizia lo arrestasse.
«Forse è meglio anda-» il suo stomaco cominciò a brontolare.
«Credo che Taiga-chan abbia deciso» “merda”.
-
Dopo che il suo stomaco aveva cominciato a brontolare, che il signor Kuroko era andato da qualche parte probabilmente a deprimersi e dopo che Tetsuya aveva cominciato a mandargli occhiate assassine, Eiko-chan si era diretta in cucina. In quell’ultima mezz’ora aveva capito quanto quella famiglia potesse essere anormale ma in qualche modo si sentiva a suo agio.
Eiko-chan aveva esortato il figlio a fare salire Taiga in camera sua e, mentre salivano per le scale, Kagami non potè far a meno di pensare a quanto fosse bello il sedere di Kuroko. Si sentì uno stupido ma ehi, aveva dei pantaloni stretti e fare certi pensieri, quando il soggetto delle tue attenzioni sta per giunta salendo le scale, è più che naturale. Solo in quei pochi secondi si rese conto della cura che Tetsuya aveva messo nel vestirsi mentre lui si era vestito come un rapper fallito.
Quando Kuroko lo fece entrare in camera, Kagami si accorse di quanto l’altro fosse imbarazzato. Taiga non gli diede tanto peso, probabilmente era per quell’inconveniente avuto con sua madre e, be’, anche lui sarebbe stato molto in imbarazzo se qualcuno fosse entrato in camera sua. La camera di Tetsuya era molto semplice, a dir la verità. Non c’era quasi più nulla sulle mensole, tranne qualche vecchio libro di scuola. L’unica cosa che rimandava a Kuroko forse erano i poster dell’NBA attaccati alle pareti.
Kagami si sedette sul letto e Tetsuya, dopo un attimo di esitazione, si sedette accanto a lui, con Nigou sulle gambe. Taiga guardò un attimo quella creturina pelosa, per quanto avesse timore dei cani, apprezzava il fatto che almeno Nigou non stesse ad abbaiare tutto il tempo come gli altri. Quel cane aveva uno sguardo intelligente e il fatto che non la smettesse di fissarlo lo metteva in soggezione. Dopo pochi secondi si sentì un idiota, come poteva un cane metterlo in soggezione?
«Ti sei già abituato alla presenza di Nigou. È sorprendente.»
«È che non mi accorgo della sua presenza, non abbaia mai» come a farglielo apposta, Nigou abbaiò. Kagami istintivamente si spostò.
«Dovresti provare ad accarezzarlo» disse Tetsuya senza guardarlo. Era da quando si erano seduti sul suo letto che non smetteva di accarezzare e di guardare quel cagnolino.
«Passo» per un attimo nella stanza cadde il silenzio. «Sono belli questi poster» Kuroko sorrise.
«Mi fa piacere sentirtelo dire, Kagami-kun.»
«Ma qui in Giappone non è difficile trovarli?» disse Taiga, stiracchiandosi. «Ora che ci penso, in America ne ho trovati un sacco.»
«America?» nonostante Kuroko sembrasse sorpreso, Kagami trovò fastidioso il fatto che prestasse attenzione solo a quel cane.
«Ho vissuto in America fino alle superiori, poi sono tornato qui in Giappone.»
«Ed è bella l’America?»
«Abbastanza, sì.»
«Mi piacerebbe andarci prima o poi.»
«Un giorno ti porterò lì con me» disse sorridendo e notò che anche sul volto di Kuroko era spuntato un sorriso. Stava per dire ad alta voce qualcosa di stupido come “che bel sorriso”, quando la madre di Tetsuya li chiamò per andare a tavola.
-
Si sentiva come un ragazzino delle elementari a casa del suo compagno di giochi mentre Kuroko lo guidava fino alla cucina e si sentì davvero catapultato nel passato quando si rese conto che ogni piatto era decorato con cuoricini o altra roba del genere. Erano così carini che gli dispiaceva mangiarli.
Stranamente la tavola era silenziosa, ognuno mangiava senza dire una parola, ma comunque sentiva lo sguardo della madre di Kuroko addosso. Quando alzò lo sguardo, stava guardando suo figlio con aria dubbiosa e quando si girò verso di lui, notando che Taiga la stava guardando, gli fece l’occhiolino e riprese a mangiare in silenzio, pensando a qualcosa. Per il resto, Tetsuya, seduto di fronte a lui, stava mangiando – sembrava abbastanza irritato – mentre il signor Kuroko sembrava depresso.
Le pietanze si susseguirono una dopo l’altra e, per quanto fosse abituato a mangiare più del normale, lentamente sentiva che lo spazio nel suo stomaco stava per esaurirsi – soprattutto perché quando avanzava del cibo, Eiko-chan lo metteva tutto nel suo piatto. Dall’altro lato, Kuroko sembrava stesse già per morire, con la faccia spiaccicata sul tavolo, cercando di respirare per quanto il suo stomaco pieno glielo permettesse.
«E adesso, il dolce!» urlò Eiko-chan. Si chiese come avesse potuto preparare tutta quella roba. Poggiò sul tavolo una torta interamente ricoperta di cioccolato, uscendo poi dal frigo una torta fatta apposta per Nigou. Era la seconda volta che vedeva una torta per cani, la prima era stata al Boss delle Torte e aveva preferito cambiare canale per non avere degli incubi la notte stessa.
Kuroko si era limitato a dirle, con quella poca forza che gli rimaneva, che si sarebbe portato un pezzo a casa, e, nonostante Kagami avesse adottato la stessa strategia del suo vicino di casa, la donna si era limitata a dirgli “zitto, che sei grande e grosso”, mettendogli una porzione fin troppo grande nel piatto. Il padre di Kuroko invece si era alzato poco prima che servisse il dolce, forse già consapevole del fatto che, se fosse rimasto ancora lì, la fuga sarebbe stata impossibile.
«Oh dannazione» disse Eiko-chan guardando l’orologio. «È tardi e rischio di perdermi quel programma che mi piace tanto. Taiga-chan, non ti dispiace se vado di là, vero?» che gli avesse fatto di nuovo l’occhiolino? Kagami non lo sapeva, voleva far finta di no, forse così non avrebbe patito le conseguenze.
Non appena la donna scomparve nell’altra stanza, Kagami posò la forchetta sul piatto, ancora metà fetta lo aspettava.
«Non ce la faccio più» disse portandosi le mani sulla pancia. Dopo tutto quel cibo, gli addominali che si era fatto con così tanta fatica sarebbero diventati presto grasso.
«Se vuoi ti posso aiutare» disse Kuroko con voce flebile. Sembrava stesse per vomitare.
«Se non ce la fai non sforzarti, non vorrei vedere del vomito sul pavimento» Tetsuya prese una forchetta e cercò di portare un pezzo di torta alla bocca, prima che potesse gustarla si accasciò sul tavolo dicendo “non ce la faccio”. Taiga rise, scompigliandogli i capelli.
«Grazie lo stesso.»
-
Finalmente era arrivato il momento di andarsene, nonostante Eiko-chan gli avesse proposto di fare un gioco da tavolo, aveva preferito rispondere subito prima che qualcos’altro li trattenesse.
Taiga aveva insistito perché Kuroko salisse in macchina mentre lui posava tutte le buste di cibo per cani nel cofano della macchina. Quel nanetto dai  capelli azzurri aveva un aspetto terribile e non voleva affaticarlo, anche se a mali estremi avrebbe vomitato nel suo giardino e non nella macchina di Tatsuya.
Stava per salire in macchina quando Eiko-chan si avvicinò al suo orecchio ssurrandogli: «per favore, prenditi cura di Tetsu-chan.»
Non sapeva esattamente cosa volesse dire e, quando cercò una risposta nello sguardo della donna, quella era già andata a salutare il figlio.
La sveglia di Takao era suonata da più di un’ora ormai, ma non aveva né la forza, né la voglia di alzarsi dal letto. Ringraziò il cielo perché quella mattina non aveva lezioni o le avrebbe perse tutte, senza alcun rimpianto. Quegli ultimi giorni erano stati semplicemente distruttivi e sperava con tutto se stesso che qualche gatto alieno stesse pianificando di rapirlo per portarlo sul suo pianeta pieno di quelle creature soffici.
Ripercorrendo il filo dei suoi pensieri, si era reso conto che tutti i suoi problemi erano stati causati da quel dannato del suo vicino di casa. All’improvviso si era messo in testa di diventargli amico o, comunque, di stargli attaccato come una cozza su uno scoglio e non capiva il perché. Per quale motivo un soggetto con un gradiente di sociopatia non indifferente come Midorima Shintaro voleva avvicinarsi a lui di punto in bianco?
Si sentiva lo stronzo della situazione, il suo vicino di casa stava cercando di costruire un’amicizia e lui lo stava respingendo. Le cose però non stavano affatto così, lo stronzo non era sicuramente lui e Shintaro avrebbe fatto bene a metterselo in testa e a realizzare al più presto il concetto. Kazunari si era decisamente stancato.
Si rotolò sul letto quando il suo naso si scontrò con il muso del suo gatto. Istintivamente allungò la mano sul suo pelo e cominciò ad accarezzarlo mentre l’animale lo deliziava con le sue fusa.
Pensare alla ramanzina che gli aveva fatto il giorno prima Midorima lo mandava in bestia, a dir la verità, e sentirsi chiamare maleducato da uno del genere gli dava non poco fastidio. Era vero che Midorima non era nessuno per chiamare Kazunari maleducato, ma Takao doveva comunque ammettere che il suo comportamento non era stato corretto. Diventare maleducati a causa un individuo del genere non era proprio il caso, decisamente no.
“Se c’è una cosa che ho imparato dai tuoi continui tentativi di approcciarti a me, è che non bisogna mai lasciar perdere qualcuno.”
Le parole di Shintaro gli rimbombarono in mente chiare e limpide, come se le avesse pronunciate in quel preciso momento. Non appena le aveva sentite, Takao aveva percepito un senso di malessere, come se al posto dello stomaco si fosse aperto un buco nero pronto a risucchiarlo dal suo interno. Si portò una mano sugli occhi, mentre un sorriso si faceva spazio sul suo viso. Una cosa che sopportava ancora meno del suo vicino di casa era il fatto che quelle parole lo avessero reso così felice. Eppure gli aveva risposto che aveva ricevuto il messaggio sbagliato e si sentiva stupido perché era vero, lui aveva questa brutto vizio: non voler lasciar perdere le persone, a qualunque costo, perché sapeva che gli altri non avrebbero mai messo così tanto impegno per non farlo andare via. Quindi la storia si ripeteva sempre, che fossero amici o fidanzati, lui si impegnava troppo e gli altri troppo poco e nonostante tutto, lui non li voleva mai lasciare andare, non riusciva ad allentare la presa, fino a quando non erano gli altri a recidere ogni legame.
Forse si sentiva così male perché aveva realizzato che aveva sbagliato la persona da lasciare perdere, perché Shintaro era stato l’unico che gli aveva dimostrato qualcosa di concreto, mettendosi in ridicolo davanti alla sua porta.
A quel punto, il ricordo di Moriyama gli balzò in mente come se fosse stato lì da tanto tempo, nascosto, nell’attesa di uscire fuori perché anche se cercava di distrarsi pensando a Midorima e a quello che era successo ieri, il ricordo della loro rottura era sempre lì.
Questa volta però, non era stata la stessa storia. Il dolore era stato solo momentaneo, forse per lo shock di essere lasciato, ancora, ma ogni volta che ci ripensava provava solo un certo disagio, perché quella relazione non poteva neanche definirsi tale. Non aveva un senso o un suo perché, persino il motivo per cui si erano messi insieme era stato stupido: entrambi si erano lasciati da poco e avevano voglia di ricominciare, ed eccoli lì, ad atteggiarsi come una coppia di fidanzati che non erano. Quello che Moriyama provava nei suoi confronti era solo un senso di possesso, forse in fondo c’era dell’affetto, ma non poteva essere chiamato amore. Giocava a fare il fidanzato geloso e Takao cercava di trattenersi dal non mollargli un pugno solo perché si rendeva conto che se se ne fosse andato anche lui sarebbe rimasto irrimediabilmente solo. In qualche modo Moriyama voleva che lo mettesse sempre al primo posto, anche se l’altro non metteva certo davanti ai suoi bisogni gli interessi e il bene di Kazunari e la loro storia era finita come tutte le altre. Una storia a senso unico, dove anche questa volta l’unico a metterci impegno era stato Takao. Però non poteva negare che in parte era stata colpa sua: era tutto iniziato con l’arrivo di Midorima, ironia della sorte. Non poteva negare di essersi preso una sorta di cotta per il nuovo arrivato e si era sentito anche in colpa perché, dopotutto, era fidanzato, sempre se quella potesse essere considerata una relazione. Non sapeva se l’avesse fatto per il senso di colpa o perché non sapeva che argomenti tirar fuori per una conversazione, fatto sta che spesso e volentieri la maggior parte dei discorsi di Takao erano incentrati su quel nuovo vicino di casa che continuava a salutare ma che non ricambiava mai. Moriyama probabilmente cercò di sopportare per quanto potè, fino a quando non minacciò Kazunari di lasciarlo. Come al solito, Takao preferì tacere anziché rimanere da solo. Aveva continuato a salutare Midorima, ma più quello si ostinava a non rispondergli, più la cotta di Takao andava affievolendosi e più saliva l’irritazione nei confronti di quel tizio con i capelli verdi. Poi però si era presentato con quel gatto in mano, cercando consigli, e quando aveva cercato di baciarlo solo quel briciolo di buon senso che gli era rimasto gli aveva fatto afferrare prontamente il suo gatto per proteggersi dalle labbra dell’altro. E a quel punto l’argomento Shintaro Midorima era ritornato sulle labbra di Kazunari ogni volta che i due fidanzati non sapevano di cosa parlare, quindi Moriyama aveva deciso di mettere da parte le parole per passare ai fatti, lasciando Takao.
«Tu sarai l’unico Shintaro della mia vita, te lo giuro» si ritrovò a sussurrare, coccolando il suo gatto e mettendosi seduto. Il gatto si accoccolò tra le sue gambe. «Tu cosa ne pensi? Non sono io lo stronzo, vero?» il gatto si limitò a miagolare e Takao alzò gli occhi al cielo. «Capisco che essere gentili non mi costava nulla però… lui non merita la mia gentilezza. Andiamo, l’ho salutato per così tanto tempo e lui niente. È venuto solo perché serviva a lui» il gatto rimase in silenzio, fissandolo.«Scommetto che l’hai fatto apposta, ad andare da lui» prese il gatto in braccio. «Ma hai fatto male i conti, caro mio. Non ho più una cotta per quel tipo» Shintaro allungò una zampetta per toccare il naso di Takao. «Ah, ma chi voglio prendere in giro?!» si ritrovò ad urlare buttandosi sul letto.  «Come faccio ad autoconvincermi che non ho più una cotta per lui se sono stato lasciato proprio perché parlavo sempre di lui?» il suo gatto era seduto a pochi centimetri da lui e continuava a fissarlo, come se volesse dire “questi umani sono stupidi” e Kazunari si sentì davvero un idiota, stava pure parlando con il suo gatto dei suoi problemi, come se si aspettasse delle vere risposte. «Non ho una cotta per Midorima, non ce l’ho. Quindi non guardarmi con quella faccia, se parlo di lui è perché lo odio e il detto “dove c’è odio c’è amore” è una grandissima stronzata. Intesi?» il gatto si limitò a miagolare e Takao pensò che lo aveva addestrato davvero bene.
-
Dato che non riusciva a mettere in ordine i suoi pensieri e temeva che il suo cervello potesse sciogliersi e colare giù dalle sue orecchie, aveva deciso di tirar fuori il pallone dall’armadio e di andare a fare due tiri nel campetto lì vicino. Era ormai quasi un anno che non giocava più a basket, nonostante fosse una delle sue più grandi passioni e nonostate si fosse ripromesso di continuare a giocarci, malgrado l’università. Purtroppo, gli impegni erano troppi e quando aveva del tempo libero preferiva passarlo a poltrire sul divano.
Facendo rimbalzare il pallone, stava per entrare nel campetto da basket quando una presenza familiare lo fece bloccare con il pallone in mano e lo spinse a nascondersi dietro una siepe. Cosa diavolo ci faceva quel soggetto del suo vicino di casa in quel campetto? Probabilmente il dio-gatto aveva deciso di punirlo perché si era sentito stupido a parlare con il suo animale domestico, non c’era altra spiegazione.
Si prese la testa fra le mani, cosa doveva fare? Andarsene? Aspettare che fosse l’altro ad andar via? Si sporse un attimo, giusto in tempo per ammirare il tiro di Midorima, sempre se tiro si potesse definire. La palla aveva percorso tutto il campetto fino ad arrivare al canestro. Non si sarebbe stupito se fosse riuscito a far arrivare la palla fino al suo balcone.  Ormai tornarsene a casa e giocare a basket con il suo gatto al posto della palla e la sua cuccia al posto del canestro sembrava l’opzione migliore. Era pronto a strisciare via quando vide un’ombra coprirlo del tutto, non aveva via di scampo. Alzò la testa stiracchiando le labbra in un sorriso forzato.
«Buongiorno» Takao si rimise in piedi. «Stavo per andare» disse indicando l’uscita. Midorima alzò un sopracciglio.
«E allora perché ti sei nascosto dietro a quella siepe?»
«Sono inciampato» si ritrovò a dire. «Sì, esatto, ero qui di passaggio e sono inciampato.»
«E perché hai una palla da basket con te?»
«Ah, parli di questa?» Kazunari non sapeva più cosa inventarsi. «Ah! Questa! E da quanto tempo è qui? Chi lo sa, io non l’ho mai vista» calciò il pallone via e Shintaro sbuffò.
«Vedi che ti ho visto entrare palleggiando, è inutile che ti inventi queste scuse. Se vuoi andartene, vai» Takao si grattò la guancia imbarazzato, in qualche modo lo faceva sempre passare per lo stronzo.
«Non volevo disturbarti, sembri così concentrato mentre tiri» scrollò le spalle. «Ero venuto solo per fare qualche tiro, quindi posso anche passare più tardi.»
«Ti va di fare un one-on-one?» Takao rimase lì immobile. Aveva sentito bene? Lui, contro un mostro del genere? Proprio no.
«Contro di te? Non se ne parla proprio» Midorima scrollò le spalle.
«Se non sai giocare fa niente» Kazunari si massaggiò la radice del naso, il peso poggiato su un solo piede. Quella mattina era andato al campetto di basket per scaricare lo stress e quell’idiota non stava facendo altro che irritarlo più del dovuto. Ignorando la sua palla, che era rotolata qualche metro più in là, afferrò quella di Shintaro.
«Dammi qua, ti faccio vedere chi non sa giocare» disse correndo verso il centro del campo, mentre gli si formava un ghigno sul viso. Si girò verso Midorima, che dal canto suo stavo sorridendo soddisfatto. «La sola idea di smerdarti non mi alletta abbastanza per dare il massimo» disse Kazunari stiracchiandosi. «Che dici se chi vince può dare un pugno all’altro, eh, Shin-chan?» Midorima sbatté le palpebre.
«Shin-chan?» disse alzandosi gli occhiali sul naso.
«Non ti piace come soprannome?»
«Mi prendi in giro?» a Takao scappò una risata.
«Allora, ti va bene ricevere un pugno?» Midorima scrollò le spalle.
«Fai come vuoi.»
-
Entrambi erano stesi per terra, sudati fradici. Kazunari non aveva la minima idea di poter sudare così tanto senza morire disidratato. Nonostante questo, era ancora incredulo per la sua vittoria: poco prima di iniziare la partita si era reso conto di quanto fosse stato stupido da parte sua proporre di dare un pugno allo sconfitto, dato che con ogni probabilità sarebbe stato lui quello a perdere. Fortunatamente, da quando avevano iniziato la partita Shintaro gli sembrava decisamente distratto e alla fine, per un pelo, era riuscito a guadagnarsi la vittoria. Se quel gigante fosse stato nel pieno delle sue facoltà l’avrebbe battuto senza esitazione.
Si asciugò il sudore che aveva in fronte con la maglia, il respiro non era ancora regolare. Midorima invece sembrava essersi ripreso e gli stava porgendo una mano per alzarsi.
«Come mai non hai quelle ridicole fasciature sulla mano?» disse, tirandosi all’indietro i capelli. Shintaro si guardò un attimo la mano.
«Quando gioco a basket le tolgo e le rimetto quando finisco. È un’abitudine che mi porto dietro da anni.»
«Certo che sei strano» disse, lanciandogli un’altra occhiata. «Allora» si stava scrocciando le nocche. «Sei pronto per ricevere il tuo pugno?» Midorima spalancò gli occhi, che se lo fosse scordato? O forse non lo aveva preso sul serio?
«Pugno?» disse, cercando di sembrare il più composto possibile, tirandosi su gli occhiali.
«Pensavi stessi scherzando?» Kazunari aveva un sopracciglio alzato e ghignava, forse un po’ troppo divertito. «O forse il piccolo Shin-chan non ha mai ricevuto un pugno in vita sua?» disse sfiorandogli la guancia. «Vediamo… dove dovrei colpirti? Sul naso?» Midorima sembrava scioccato e spaventato allo stesso tempo e Takao si stava divertendo un mondo a prenderlo in giro. «Dai, sto scherzando!»
«Quindi non mi darai più un pugno?»
«No, scherzavo sul darti un pugno sul naso.»
«Ah.»
«Sei pronto?» non sapeva perché non gli stesse semplicemente dicendo “invece del pugno mi farò offrire il pranzo” ma stesse continuando a prenderlo in giro. Forse il pugno voleva darglielo davvero, come risarcimento per tutte le volte che non aveva ricambiato il suo saluto e per averlo fatto lasciare con il suo ragazzo. In fondo aveva bisogno di sfogarsi usando quell’idiota del suo vicino di casa, un’occasione del genere non gli sarebbe capitata di nuovo. Stava guardando le sue dita chiuse in un pugno e quando alzò lo sguardo, trovò quello stupido di Midorima con gli occhi e i pugni chiusi, rigido; le palpebre gli tremavano. “Che idiota” pensò Kazunari, e gli venne da sorridere. Nonostante avesse una gran voglia di lanciargli un pugno dritto nello stomaco, guardarlo immobile e terrorizzato mentre aspettava di ricevere un pugno in faccia lo faceva sorridere. Un essere così irritante poteva essere allo stesso tempo così adorabile? Kazunari sospirò.
«Sta arrivando, sei pronto?» disse in un sussurro. Midorima sussultò ma annuì, gli occhi ancora chiusi. Takao non sapeva cosa stesse facendo esattamente, voleva semplicemente farlo e non pensarci più, avrebbe chiarito con se stesso e non avrebbe avuto più ripensamenti. Pur di fare chiarezza nella sua mente era disposto a fare una cosa del genere. Chiuse gli occhi e appoggiò le mani sulle spalle dell’altro, facendolo sussultare. Si alzò sulle punte dei piedi e unì le sue labbra a quelle dell’altro. Era stato un contatto leggero, le loro labbra si erano toccate per qualche secondo e quando aprì gli occhi si ritrovò addosso lo sguardo di Shintaro. La sua espressione era indecifrabile, probabilmente si stava chiedendo che diamine gli fosse saltato in mente. Quando Kazunari posò l’intera pianta del piede a terra si rese conto del grande, grandissimo errore commesso.
«Oh merda» si era ritrovato a sussurrare ed era scappato via, come se fosse stato inseguito da un serial killer. Aveva il viso bollente, si sentiva male. Perché prima che facesse un atto così sconsiderato quella gli era sembrata un’idea così brillante mentre adesso si rendeva conto di quanto fosse stata una cazzata? Se la sua intenzione era stata quella di mettere chiarezza nei suoi sentimenti, aveva sicuramente scelto il momento e il modo sbagliato. Sentì Midorima chiamare il suo nome.  Questa volta ne era certo: nel suo stomaco si era davvero aperto un buco nero.
-
«Sono un idiota!» si ritrovò a piagnucolare in un angolo della stanza con il suo gatto in braccio. «Perché l’ho baciato?» in tutta risposta, Shintaro gli diede un colpetto in testa con la zampa.



 

 
Shintaro sapeva di essere il gatto più bello del mondo e si sentì offeso quando il suo padrone sottolineò il fatto che sarebbe stato l’unico Shintaro della sua vita. Non era ovvio? Di sicuro quella sorta di zucchina del loro vicino di casa non aveva una coda morbida come la sua o delle orecchie adorabilmente pelose. Non a caso, i croccantini che il suo padrone gli dava erano gli ideali per mantenere la lucentezza del suo pelo. “Ah, quanto sono bello”, pensò, “eppure continua a parlare di quella sottospecie di pisello surgelato e scaduto”. «Scommetto che l’hai fatto apposta, ad andare da lui» disse poi prendendolo in braccio. A volte il suo padrone gli sembrava stupido, come tutti gli umani d’altronde. Talmente ingenui da farsi soggiogare da delle fusa e delle code soffici. Presto la loro razza sarebbe diventata il capo dell’universo ma loro continuavano a trattarli come delle creaturine graziose. Quando sarebbe diventato il nuovo capo del Giappone, avrebbe provveduto a sterminarli tutti. «Ma hai fatto male i conti, caro mio. Non ho più una cotta per quel tipo» Non sapeva neanche di cosa stesse parlando oramai, tanto era preso dalla sua bellezza. Che fortuna aveva avuto, per nascere gatto. Niente stress, niente preoccupazioni. Era solo una creatura talmente perfetta che pagavano anche per accudire. Shintaro allungò una zampetta per toccare il naso di Takao, “per quest’oggi, ti concedo il piacere di nutrirmi, plebeo”.


 
Ciao a tutti ragazzi ೖ(⑅σ̑ᴗσ̑)ೖ
Mi scuso di nuovo per il ritardo ma lo sappiamo tutti che l'ispirazione è una escort che va e viene e non si ferma mai ლ(ಠ益ಠლ)

L'ho scritto mentre avevo le mestruazioni e la febbre a 38 quindi non so esattamente che razza di aborto sia venuto fuori quindi, per favore, lasciatemi un commento. Ci tengo davvero tanto ༼;´༎ຶ ۝ ༎ຶ༽

Tante novità in questo capitolo, eh? (⌐■_■)
Cosa ne pensate di questo cambio di punto di vista? Ero molto indecisa se farlo o no ma ehi, oramai è scritto e anche se vi fa schifo dovete accettarlo lo stesso

Ancora tanto angst sul fronte Aokise. Gli darò mai una tregua? Saranno mai felici? Riuscirò mai a non far soffrire i miei personaggi?
Lo scoprirete nel prossimo capitolo. (Spoiler: no).
Spero di avervi comunque sollevato un po' il morale con la Kagakuro. Kagami è sempre un idiota e io mi son trovata nel panico una volta che ho iniziato a scrivere dal suo punto di vista.
(╯°□°)╯︵ ┻━┻
Spero amiate la famiglia di Kuroko quanto la amo io. Voglio vivere con Eiko-chan per sempre. (;´༎ຶД༎ຶ`)
La Midotaka sta decollando.
ALLELUJA.
Sì perché le loro parti sono le più difficili perché li adoro e tutto ciò che scrivo su di loro deve essere bello bellissimo (per quanto ne sono capace).

└[∵┌]└[ ∵ ]┘[┐∵]┘
Inoltre, cosa ne pensate del  bacio? Di Takao che tra poco ha una sincope? Di Midorima che è un gran menomato e che tra poco non capisce nemmeno come si chiama? (σ̑˽σ̑)

La parte del gatto è un po' un grande disagio ma sono stata costretta a metterla, spero l'abbiate apprezzata e che vi abbia fatto dimenticare tutto quell'angst che si nasconde tra le righe di questo capitolo し(*・∀・)/♡

Ne approfitto per ringrazie Marta (che mi ha fatto da beta), Mariantonia e Nora (che mi aiutano quando mi mancano le idee). Vvb.
Ringrazio inoltre chi mi ha lasciato recensioni finora, siete davvero dolcini e vi ringrazio dal profondo del cuore. Senza il vostro supporto non avrei continuato a scrivere.
(°̥̥̥̥̥̥̥̥ᴗ°̥̥̥̥̥̥̥̥ )♥♥♥♥

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e ci terrei a leggere un vostro parare(●⌃ٹ⌃)
A presto (´∀`)♡
  
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