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Autore: kissenlove    22/02/2015    2 recensioni
Sequel di “Dirci Addio”.
Sai Honoka..
Da quando te ne sei andata dall’altra parte del mondo, non ho fatto altro che pensare a ciò che mi hai detto, a quelle parole che non riuscivano a uscire dalle tue labbra, lo sfogo di un dolore immenso che tu hai dovuto combattere da sola. Mi sono sentita vuota, imperfetta, ho capito che in questi mesi che avevi più bisogno di me, io non ho fatto altro che girarti le spalle. Dio, mi sento così stupida ed egoista anche!
Ma sai Honoka..
[…]
sono successe tante cose da quando sei andata via. Hikari se ne è andata, mepple non vive più con me, e io ho rischiato la vita.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Honoka Yukishiro/Cure White, Nagisa Misumi/Cure Black, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Salve popolo meraviglioso sempre buono con me di Efp, oggi è ufficialmente finito il primo quadrimestre della scuola e sono un pochino libera, ma giusto per ora, quindi ho deciso di dedicarmi a questa storia che spero vi appassioni sempre di più. Come ho già spiegato, questa storia riguarderà i nuovi protagonisti, ovvero quelli della foto, ma cerchiamo di conoscerli meglio, e più da vicino. 
Innanzitutto, parliamo di Usui Yukishiro, abbiamo già avuto modo di conoscerlo nel precedente capitolo. Il ragazzo è nato dall’unione di Honoka Yukishiro, ovvero la nostra Cure White e il ragazzo delle tenebre dagli occhi di ghiaccio e i capelli verde scuro, Kiriya Arisaya; è un ragazzo buono, inteliggente come la madre, ed estremamente affascinante. Per quanto riguarda la ragazza, la protagonista indiscussa della storia è Kazumi Fujimura, nata da Nagisa Misumi alias Cure Black, e il chirurgo Shogo Fujimura, la conoscerete meglio in questo capitolo, e avrete modo di sapere in che modo la vita di questa ragazzina di soli quindici anni si intreccerà inevitabilmente con quella di Usui. Vi lascio al capitolo, ma spero anche in qualche recensione in più. 
Love.
N.b - la foto l’ho fatta io, se la copiate, mettetene la fonte o vi segnalo - ma dai scherzo, comunque mettete la fonte. - 


***

                      
                                                                      

And I was made for You

Sequel di “Dirci Addio”



Tutte queste rughe sul mio viso, ti raccontano la storia di chi sono..
Tutte le storie di dove sono stata, i posti che ho visitato in una sola volta e una sola notte, sospesa tra un mare oscuro e la luce eterna.
E di come sono diventata ciò che sono, ma queste storie non significano niente, sono banali ricordi che condividi con te stessa dall’alto di una galleria, intrappolata in un vetro infrangibile, inerme davanti alla mia morte e ai visi sconfitti di coloro che come me assistono come spettatori a un film drammatico.... ma questo non è un film, è semplicemente la mia storia, ma inutile se non ho nessuno a cui raccontarla, perché nessuno è in grado di vedermi, ci sono ma è come se non ci fossi, e in queste ore ho quasi l’impressione di essere già morta, dubito che dopo potrò più tornare indietro. E’ vero, e io sono stata fatta per appartenermi e per appartenerti. 
Vedo il ragazzo accanto a me. Ha il volto stanco, di cui combatte per stare sveglio, e gli occhi talmente rossi e gonfi, che hanno ormai consumato tutte le lacrime; guarda la scena, vicino a me, ma non sente la mia presenza, sono un fantasma mi chiedo..

In una notte ho fatto il giro del mondo. Mi sono ritrovata in più posti, e ho guardato ogni scorcio del mio passato.
Mi sono ritrovata a scalare le montagne più alte, o a camminare in una bufera di neve.
Attraversato a nuoto l’oceano, e può essere ridicolo, anche senza nuotare sono arrivata.
Ho superato tutti i limiti consentiti, e ho lottato ogni giorno contro mostri di ogni genere, con la paura costante di essere sconfitta, di non guardare più al futuro in un mondo di sole tenebre, ho infranto ogni regola, eppure a cosa è servito? 
Ma quando stavo per abbandonarmi ho pensato “è servito a qualcosa. Se non ci fosse stato questo domani, non avrei provato l’emozione intensa di vedere attraverso un foglio bianco e nero il bambino che stavo crescendo con le mie sole forze, non avrei mai potuto sentirlo crescere, muoversi dentro di me, e nascere sotto ai miei occhi emozionati. Però, diventata Cure Black, io sono arrivata al mio obiettivo: diventare una mamma, proteggere mia figlia, proteggerla dalla morte, da tutto ciò che può ferirla. Ma visto come è andata, ho fallito.”
Non riesco ancora a capire perché sono ancora qui, in questa galleria, di fronte alla scena della mia morte, e non sono ancora morta; se fossi stata sola, se non avessi avuto una personcina dentro di me, mi sarei già arresa? Probabilmente sì. 
Mia figlia... la gioia della mia vita mi ha dato la forza di continuare a essere sospesa, solo perché anche quando non avevo la felicità a portata di mano, tu piccola mia mi facevi sentire la donna più felice del mondo e io sono stata fatta per te, e io sono tua madre. 
Vedi il mio sorriso sulle labbra? 
Sta nascondendo le parole che vorrei dire a questa persona vicino a me, con il viso sbarrato di amarezza, con le braccia incrociate, in atteggiamento contrariato, mentre osserva il lavoro confusionario dei medici, che stanno perdendo di vista la cosa più importante: salvarmi la vita, o meglio, salvare prima la bambina. Che cosa sarei senza quella bambina? 
Se mi salvassi, uscissi definitivamente da questa situazione, a cosa sarebbe servito vivere senza la mia vita? 
Rina e Shiho, quando ho annunciato di essere incinta, mi credevano molto fortunata... dicevano che finalmente la mia vita girava nel modo giusto, ero sposata, avevo un marito fantastico e che mi amava alla follia, oltretutto un trasloco andato per il meglio, e un bambino in arrivo, poteva essere la perfetta immagine di una donna già realizzata... ma adesso, tutti mi credono fortunata, non sanno che la mia testa è un pasticcio, dopo l’incidente non sto capendo più niente, so solo che voglio vivere, ma voglio che anche la mia bimba stia bene, senza credo che morirei senza aspettare altro tempo. Loro non sanno che non sono addormentata, la mia mente soffre, ragione e naviga nel mio passato, un passato che mostra chi sono veramente, da dove vengo, e perché sono in questo mondo. Lo so solo io, e io voglio vedere mia figlia crescere, aiutarla nei disagi della vita, e soprattutto vederla realizzata come ho fatto io, non può finire così no!
Tutte le abrasioni che ho ricevuto nell’impatto, raccontano una storia, una storia terribile fatta dei miei errori..
Tutte le storie hanno un lieto fine, la principessa alla fine si sveglierà e il principe romperà con un bacio il sogno che la tiene prigioniera, ma in questo non so se succederà, non so se finirà bene, ho paura di non farcela, vedo il casino nella sala operatoria e mi chiedo che fine faremo entrambe: almeno la mia vita posso dirla di averla vissuta, ma non posso permettere alla mia bimba di volare in un paradiso, quando non ha potuto nemmeno vedere la bellezza dei fiori, il tepore della luce o la limpidità del mare. Io non posso, non posso vedere la sua fine, quando non ha potuto nemmeno abbracciarla per dare inizio alla sua vita. 
Ma ciò che sto dicendo non vale nulla, perché io non valgo niente, sono aria, e aria resterò fino alla fine..
La speranza è l’ultima a dormire, ah sì è vero sono meno drastica, ma adesso la speranza non serve a nulla. 
Il luogo che prima è silenzio si riempie di un rumore assordante, il mio cuore sta cedendo, la mia mente si svuota, il mio corpo perde consistenza, e la mia vita scivola via come l’acqua dal palmo delle mani...


La decisione era presa non si torna indietro
, si disse una ormai matura Honoka Yukishiro.
Parigi era stata per lei una delle città più belle esistenti al mondo, tutti i turisti ne parlavano bene una volta tornati dai propri cari, definendola la città degli spettacoli notturni con le luci gialli e brillanti che illuminavano la Tour Effeil, che si stagliavano nel cielo e creavano un piacevole contrasto con il blu notte della sera parigina; proprio qui è nato il primo cabaret, dove gli uomini aristocratici potevano bere e divertirsi con la piacevole compagnia delle soubrette che si improvvisavano spogliarelliste, ma Parigi era anche la città degli amori perduti, delle storie impossibile, dei piacevoli incontri romantici sulle panchine che costeggiavano la Senna, dove potevi vedere giovani coppiette, innamorate, scambiarsi timidi baci oppure lasciarsi andare alla passione amoreggiando, forse per questo che ai primi tempi Honoka preferiva starsene nella sua camera, con la scusa di non sentirsi bene o di dover ripassare un argomento per l’università, anche se l’università l’aveva finita già da parecchio. Ciò la confuse ulteriormente, facendole ogni giorno rimpiangere la decisione che aveva preso di allontanarsi per un periodo indeterminato dalla sua amata terra mai dimenticata. 
Il soggiorno a Parigi era stato difficile per certi aspetti. Quando l’aereo stava per decollare, Honoka si era sentita male, che stava quasi per abbandonare l’iniziativa se non fosse stato per sua madre che, stando con lei nel bagno e alzandole i capelli mentre lei vomitava, l’aveva convinta ad andare con loro. Il volo era stato piacevole per Aya e Taro, ma non per la scienziata, lo stomaco era ancora sottosopra, era come se l’aereo si fosse capovolto, anche se questo stava perfettamente volando oltreoceano in posizione corretta. 
Ciò non meravigliò la corvina, quelle nausee che le costavano il dover precipitarsi in bagno ad ogni scalo non erano per il viaggio, ma per la gravidanza che gravava sulle sue spalle come un macigno, che lei nascose alla madre finché poté, e finché la sua pancia rimané piatta.
Nascondere un pancino a malapena visibile alla madre fu abbastanza semplice, con l’ausilio di cappotti pesanti che ingrassavano la persona, dato che quando arrivò lei nella capitale dell’amore era novembre, e lei era al quarto mese. Quando doveva andare a sottoporsi alle solite visite ginecologiche del mese creava un diversivo con i suoi, inventandosi la scusa di voler andare a far shopping avendo visto degli abitini carini in vetrina, che per il momento le andavano ancora. Così i suoi la facevano uscire. 
La dottoressa che la seguiva si trovava appena fuori da Parigi.
Era una donna in gamba, che conosceva bene il suo lavoro e che aveva ben in mente che la prima cosa da fare in una gravidanza era “controllare la crescita del bambino e la salute della madre, in modo che la gestazione vada a buon fine” poi a Honoka serviva una persona di cui si potesse fidare ciecamente, aveva bisogno di qualcuno che le desse un po’ di incoraggiamento per i mesi seguenti. 
Aveva affrontato già quattro visite, e la dottoressa le aveva assicurato che tutto stava andando bene, ma che doveva non abusare troppo della panciera, altrimenti questo avrebbe causato delle conseguenze per il bambino; Honoka aveva deciso di adottare la copertura della panciera ogni giorno per nascondere la grandezza della pancia, ma tutte le strategie furono sventate dalla madre Aya. 
Aya Yukishiro aveva capito dal primo momento che la figlia nascondesse qualcosa, prima le nausee, poi quei giri mensili, e infine la panciera, così aveva messo alle strette la figlia per farla parlare, e dopo tanti giri di parole, un po’ di lacrime, la questione della gravidanza era scivolata fuori dalle labbra della corvina, che infine era precipitata in un baratro di tristezza. 
Aya consolò Honoka dicendole che non doveva più pensare al padre del bambino che l’aveva abbandonata, non doveva guardarsi indietro, doveva andare avanti perché la sua priorità per il momento era la vita che cresceva dentro di sé, doveva pensare esclusivamente a lui.
Così fece la corvina, pensò esclusivamente a godersi serena il momento della gravidanza, e a prepararsi psicologicamente al parto. 
Dopo due o tre mesi Honoka prese la decisione definitiva di lasciarsi tutto il dolore alle spalle: salutò i suoi genitori, informandoli che il bambino, - aveva scoperto che era maschio, - li avrebbe conosciuti e voluti bene come “nonni materni” e inoltre aggiunse che non sarebbe andata a vivere lontana da loro, si sarebbe trovata una camera in un hotel e così se le sarebbe successo qualcosa non sarebbe stato poi così difficile per loro raggiungerla e soccorrerla. Intanto che le ricerche per l’albergo continuavano, Honoka teneva un rapporto epistolare con la sua migliore amica Nagisa, si scrivevano molto, anche due volte al giorno per raccontarsi ciò che succedeva, non potevano telefonarsi, non avevano alcuna intenzione di sentirsi in un modo diverso da quello già accreditato da entrambe, altrimenti sarebbero ricadute nella nostalgia dei bei vecchi tempi e in quei mesi nessuna delle due poteva viaggiare, soprattutto Nagisa prossima al parto, anche se mancava ancora un mese scarso. 
La ricerca disperata si concluse, lei trovò una camera non molto costosa, e lì si sistemò per attendere anche lei il parto. Lì ricevette la telefonata dal marito di Nagisa, il suo amico dall’infanzia, che la informava che Nagisa aveva fatto un incidente, e a giudicare dalla voce, le cose non stavano andando proprio bene, visto che lei era in coma, la bambina a rischio, e l’unica scelta era operarla. 
Chiuse la telefonata, e si stese a dormire, precipitando in un sonno profondo..

La finestra rimasta aperta lasciava entrare un piacevole venticello, mentre la ragazza dormiva, di lato, con i capelli corvini sparsi sul cuscino, e le coperte che le si modellavano addosso. Il suo viso era disteso e rilassato, immerso nei sogni più fanciulleschi, la sua pelle era profumata come la rosa, delicata come una piuma, e bianca come la luna che maestosa si innalzava in quella notte di per sé tempestosa, per le persone in Giappone, che su un filo di tensione, attendevano qualche notizia. 
Erano l’una e qualcosa quando il telefonino, rimasto sullo scrittoio, squillò una chiamata. Honoka si ridestò dal suo sonno improvvisamente, saltando ma ovviamente goffamente a causa del pancione, e andò a rispondere credendo fosse Shogo, con delle notizie positive, sperando. Ma non appena si portò la cornetta all’orecchio, rispose la dolce voce di sua madre e la ragazza sospirò, un po’ delusa.
-Ah, ciao mamma. - 
- Honoka, tutto apposto tesoro. Mi sembri delusa dalla mia chiamata, forse stavi dormendo ancora? - chiese la signora Yukishiro dall’altra parte della cornetta, alla figlia che si era appena seduta alla scrivania. 
- Sì stavo dormendo. - rispose lei, - Aspettavo che mi chiamasse un’altra persona. - 
- Chi, cara? - 
Honoka ci pensò un po’ prima di darle una risposta. - Shogo. - 
Aya rimase in silenzio, come se stesse pensando a ciò che le aveva appena detto la figlia. 
-Cosa è successo a Shogo? - 
Honoka notò uno strano interessamento nella voce di Aya, era come se alla mamma importasse molto del suo amico. Non l’aveva notato, ma adesso che ci faceva un certo caso, loro erano cresciuti insieme, fianco a fianco, non lasciandosi mai; sempre insieme, sempre uniti come fratello e sorella in un certo senso, ma poi diventando grandi Shogo si era trasferito e lei era rimasta nella sua vecchia casa. 
- A quanto pare sua moglie ha avuto un incidente, è in gravi condizioni, e rischia di perdere il bambino. - 
- Oh santo cielo! Hai il suo numero? -
- Perché lo vuoi? - 
- Per fargli una telefonata. - rispose sbrigativa, mentre la figlia recuperava un foglietto dove aveva scritto il numero che era comparso sul display dopo l’ultima chiamata effettuata a mezzanotte. Si sentì un tonfo e delle voci lontane, poi Aya ritornò alla cornetta con in mano un foglietto e una penna, pronta ad annotare il numero che le stava per dettare la corvina. 
- Lo posso chiamare? - 
- Non lo so... - 
- Allora, lo chiamo, ti faccio sapere. Torna a dormire tesoro, buona notte. - e riattaccò. 
Honoka rimase con la cornetta, sospesa come in trance mentre faceva un veloce ragionamento sul comportamento ambiguo della madre, quando gli squilli a vuoto la facero tornare nel mondo reale, lei chiuse e si alzò.
Un dolore però che si arradiò nella parte bassa, la piegò per terra e le impedì ogni movimento verso il letto; i tratti del volto tirati in un espressione di pura sofferenza, mentre si abbracciava la pancia come per proteggere il bambino dentro di lei. Provò a rialzarsi, non erano le solite contrazioni uterine che sentiva di tanto in tanto, erano dei dolori peggiori, che non le lasciavano tregua e le tagliavano il fiato ogni cinque minuti, possibile che il travaglio si fosse così velocizzato, in fondo era soltanto al settimo mese. 
Si sdraiò a terra, raggomitolandosi, non poteva nemmeno prendere il telefono, perché non riusciva a muoversi. 
Che cosa stava succedendo al bambino? Stava male, doveva fare qualcosa, doveva impedire che succedesse qualcosa al suo piccolo, il pensiero che lui potesse soffrire, strozzato dal cordone ombelicale le faceva venire le lacrime agli occhi. Fece di tutto per prendere il suo telefonino, rimasto sullo scrittoio, e facendo appello a tutte le forze che le erano rimaste, digitò il 911. 
Quando arrivò al pronto soccorso non riuscì a capire più nulla, tra il dolore, il chiacchierio dei medici, e la corsa d’urgenza in sala parto.
Non fu addormentata, scelse di rimanere sveglia e di fare l’epidurale, voleva vedere il suo bambino venire alla luce del mondo, così successe, mentre lei percepiva i medici fare del suo corpo tutto ciò che volevano, con la paura che fosse troppo tardi, consolata dalle poche infermiere che le stavano vicino, lei sentì la musica più bella, il canto angelico, il pianto della vita che voleva significare che il suo piccolo stava bene; lei riuscì a tenerlo in braccio per una manciata di secondi, in cui fu contenta che il bimbo avesse gli occhi blu come i suoi, e fosse di una leggerezza e di una delicatezza quando quello di una piccola nuvola spuntata in cielo, ma poi i dottori glielo strapparono di mano, e lei si sentì così vuota non avendolo accanto a sé. 
Si separò da lui solo per alcuni mesi in cui dovette stare nell’incubatrice, poi insieme tornarono a casa dei suoi genitori, dove fu accolta con una grande festa familiare, e da quel giorno non ebbe più notizia di Nagisa. Cercò sul computer qualcosa che riguardasse la sua migliore amica, sperando di non trovare un elogio funebre, perché l’attesa era atroce, le scrisse due lettere in cui le raccontò della nascita del suo piccolo, che aveva deciso di chiamare Usui, perché significava pozzo, perché quel bambino di natura era sempre stato il primo della classe, e aveva sempre costituito un vanto per i maestri. Usui aveva imparato a essere gentile, a essere un bambino prodigio già a quattro anni, quando cadde giù dalle scale e non si fece neanche un graffio, ma al tempo stesso suo figlio era dolce, romantico e molto legato a lei, non era mammone, ma sapeva di dover molto a sua madre, che lo aveva messo al mondo e cresciuto senza un padre.
Non faceva molte domande Usui sul conto del padre, di lui aveva soltanto ereditato i capelli, e la pelle di porcellana, a quindici anni Usui chiese alla madre per quale motivo l’aveva lasciata, e Honoka rispose che suo padre non era un essere come tutti gli altri. 
Honoka non volle mai discutere con Usui della sua vita passata da Pretty Cure, quindi Usui non conosceva nemmeno l’esistenza di Dotzuku, nè di Mipple, né del Giardino della Luce e di tutte le battaglie della madre, perché la corvina preferì che vivesse la sua vita da ragazzo normale, e così fu per almeno tutto il tempo trascorso a Parigi..
Adesso stavano tornando, Usui era molto felice della decisione, aveva sentito e respirato dai racconti della madre fin da quando era nato del meraviglioso fiume che scorreva nei pressi della casa di Honoka, aveva immaginato di viverci e di conoscere la zia Nagisa, lo zio Shogo, e tutte le persone che sua madre gli descriveva, era così emozionato di tornare in Giappone, ma era un pochino confuso del fatto che sua madre lo volesse a studiare proprio alla Verone Accademy, la scuola che aveva frequentato lei da giovane. 
-Usui hai preso tutto, vero? - chiese Honoka, mentre scendeva dal taxi, al figlio che portava in mano le due borse capienti.
- Sì, mamma. Tutto - le rispose, pagando ciò che doveva al taxista, che se ne andò molto soddisfatto della mancia.
- Allora, tesoro sei contento che torniamo in Giappone? - 
- Sì, mamma. Sinceramente le ragazze francesine non sono poi un granché.. - Honoka diede un buffetto al figlio, mentre oltrepassavano le porte scorrevoli dell’aereoporto internazionale, da dove poi sarebbe partito il loro volo di dodici ore. 
-Mamma, dai non trattarmi da bambino! - 
- Ma tu sei il mio bambino. - rise la corvina, fermandosi all’accettazione per chiedere spiegazioni alla signorina dietro al bancone, sulla direzione da prendere dopo aver prenotato il volo di solo andata. La signorina gentilmente diede le opportuni informazioni, mentre faceva gli occhi dolci al figlio di Honoka, venendo fulminato dal blu notte dei suoi occhi, a contrasto con i suoi capelli verdi, e la sua pelle bianca come la porcellana che lasciava distese le francesine del suo corso. 
- Ahm, andiamo figlio mio o faremo tardi. - disse Honoka, trascinando via il figlio recandosi a fare la fila per salire sull’aereo.
- Mamma, cosa ti prende, sei per caso gelosa? - 
- No, tesoro. Cosa vai a pensare, solo che la tua bellezza è talmente inestimabile che non voglio che la sprechi.. - 
- Certo, mamma - 
Si fermarono per fare la coda, davanti a loro almeno una ventina di persone tutte sul loro volo. Honoka si trovò nuovamente a pensare al passato, a quando prima di partire Nagisa era corsa a cercarla per salutarla e per chiederle scusa, e lei le aveva rivelato che era incinta di Kiriya, ora stavo tornando da lei, implicitamente, nella sua vecchia casa sperando che fosse ancora in piedi. 
- Mamma, non salutiamo nessuno? - le chiese il figlio, lasciando le borse per riposare le mani, che si erano fatte rosse per il peso.
- I nonni ci hanno salutato ieri, i tuoi compagni ti hanno fatto una festa ieri, e poi qui non abbiamo nessuno. - 
- Credevo che nonno e nonna venissero di nuovo! - 
- Sai benissimo che a loro non piacciono gli addii. - 
Usui si sistemò meglio il ciuffo di capelli, mentre la fila iniziava a diminuire, man mano le persone mostravano il loro passaporto e entravano nella galleria diretti all’aereo. Riprese in mano le borse capienti, e fecero un altro passo, davanti a loro solo due persone che attendevano la fila, e altre venti dieci di loro. Ma tutti andavano in Giappone? 
Gli altri voli erano quasi deserti, aveva visto addirittura file inesistenti, la loro era la fila che aveva battuto il record mondiale.
Quando anche le due persone sparirono nella galleria, era arrivato il loro turno, ma Honoka era come ghiacciata sul pavimento.
- Mamma, dobbiamo andare - le ricordò il figlio, picchiettandole la scapola. 
Honoka scosse la testa, e riprese a camminare nella direzione del controllore, che visto il loro passaporto e controllato i bagagli, li fece salire sull’aereo. 
Dodidi interminabili ore di aereo prima di atterrare sul suolo giapponese.
Per tutto il tempo passato su quel mostro meccanico, Usui non faceva altro che ammirare il paesaggio innaturale oltre le nuvole, dove c’era il cielo, sereno, e le nuvole sembravano zucchero filato con cui poter giocare. Il ragazzo spostò lo sguardo dall’oblò alla madre, che indossati gli occhiali per leggere, analizzava il volantino della compagnia con aria critica, con gli occhi che viaggiavano da una riga all’altra, e si stupì di quanto sua madre fosse coraggiosa, quando lei aveva detto che non lo era per niente, ritenendo che Nagisa fosse la sua forza, e che solo per lei e per il desiderio di rincontrarla stava tornando, mantenendo ancora la speranza che fosse ancora viva. 
Usui sapeva che Nagisa stava lottando tra la vita e la morte, quando era nato lui. Fin da piccolo aveva voluto bene a quella donna che non conosceva nemmeno di persona, e spinto dalla curiosità non vedeva l’ora di incontrarla dal vivo. 
Atterrarono dopo dodici ore di puro strazio, e quando Usui scese dal mostro, capì subito di aver cambiato aria e si sentì veramente a casa..

 
   
 
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