Il
più solido piacere
Se
ne era andato.
Non
volevo accettarlo, non riuscivo proprio a capacitarmene, ma era
così. Continuai
a chiamarlo altre dieci, forse venti volte, strillando il suo nome
nell’oscurità,
ma nulla: a rispondermi c’era solo la mia eco, beffarda.
Pioveva già da un po’, quando iniziammo a
litigare: io, lui ed Harry. Ron era
infastidito perché si sentiva escluso dalle nostre
conversazioni, e lo capivo, ed
era preoccupato per le sorti della sua famiglia, ma sospettavo che in
realtà
molto dipendesse dal fatto che indossava l’Horcrux da giorni.
Avevamo deciso di
portare al collo quel brutto e pesante medaglione a turno, per evitare
che
esercitasse troppo a lungo le sue influenze negative su ciascuno di
noi. “Togliti il medaglione,
Ron”, gli avevo
detto, “non parleresti
così se non l’avessi
tenuto addosso tutto il giorno”. Ma le mie parole
non avevano sortito l’effetto
desiderato. O meglio, il medaglione alla fine l’aveva tolto,
gettandolo su una
sedia, ma ci aveva pure abbandonati. “Tu
cosa fai?” , aveva chiesto, rivolto a me. In quei
pochi secondi, lo
ammetto, avevo pensato seriamente di seguirlo, di andarmene con lui
fino in
capo al mondo, lontana da tutto e da tutti: da tutta quella violenza e
sopraffazione, da una realtà troppo crudele e disumana per
accettarla così com’era.
Sarebbe stato stupendo poter fuggire, no? Sposarsi, costruirsi una
famiglia,
senza pensare a null’altro se non a noi due.
Stupendo
e facile.
Troppo
facile.
Ripensai
alle parole di Silente al quarto anno, dopo la morte di Cedric:
“Ricordatevi
di Cedric. Quando
e se per voi dovesse venire il momento di scegliere tra ciò
che è giusto e ciò
che è facile, ricordate cos’è accaduto
a un ragazzo che era buono, e gentile, e
coraggioso, per aver attraversato il cammino di Voldemort. Ricordatevi
di
Cedric Diggory”
Abbandonare
Harry … come avrei potuto farlo? Con quale coraggio avrei
potuto abbandonare il
mio migliore amico e tutto il mondo magico, per un’utopia
egoistica? Non
potevo, appunto. Non potevo arrendermi e darla vinta a Voldemort e a
tutti i
suoi seguaci, i Mangiamorte, folli purosangue imbevuti di una
concezione
totalmente arretrata e dissennata della realtà. Fanatici, li avrebbe definiti Voltaire. “Sì …
Sì, io resto, Ron”, avevo dichiarato
alla fine, ferendo più
me stessa che lui. Salvo poi inseguirlo lungo la foresta, gridando il
suo nome
al vento – un urlo soffocato dal frastuono della pioggia - ,
senza ottenere
risposta alcuna.
Ero
letteralmente inzuppata, quando rientrai in tenda.
<<
E’ … an-an-andato! Si è
smaterializzato! >> dissi ad Harry, in preda alle
lacrime.
Mi
gettai sulla sedia più vicina, raggomitolandomi su me
stessa, e piansi. O, se
piansi. Quella notte versai più lacrime che in tutta la mia
vita, non potrò mai
scordarlo. Harry, da parte sua, più che addolorato sembrava
sconvolto,
incredulo di quanto accaduto. Prese una coperta di lana dal letto di
Ron e me
la gettò sulle spalle, per poi stendersi sul suo di letto.
Quel suo gesto così
affettuoso e carico di premura mi colpì, ma non
poté che peggiorare la
situazione; con addosso la coperta di Ron, potevo sentire il suo
inconfondibile
profumo, che mi attraversava, ad ogni inspirazione, le narici,
penetrando nei
miei polmoni, nel mio corpo. E tenendomi compagnia, nella lunga notte
che
trascorse.
Il mattino seguente ebbi la certezza assoluta che il tutto non era
stato uno
spiacevole incubo: Ron non c’era, quando mi alzai. Doveva
essere prestissimo,
forse le sei, o poco più tardi. Sapevo che il miglior modo
per non pensarci
fosse tenermi impegnata, mentalmente o fisicamente. Scelsi la seconda
opzione,
e mi dedicai alla preparazione della colazione. Dopo qualche minuto si
alzò
Harry, dandomi il buongiorno. Non risposi, e distolsi rapidamente lo
sguardo:
non volevo che mi vedesse in quelle condizioni. Da quando mi ero
alzata, avevo
rifiutato di guardarmi allo specchio, ben consapevole del mio mostruoso
aspetto;
e l’espressione del mio amico, quando gli versai le salsicce
nel piatto, me ne
diede la conferma. Occhi gonfi e rossi, capelli arruffati e occhiaie
blu-violacee erano ben evidenti, riflesse sugli occhi di Harry. Facemmo
colazione nel più totale silenzio. Harry insistette per
lavare i piatti,
convinto di farmi un favore, ma in realtà mi diede solo del
tempo in più per
pensare a Ron; guardando fuori dalla finestra, non feci che sperare
che, tra
gli alberi, comparissero i suoi capelli rosso fiammante da un momento
all’altro.
Cosa che non accadde. Persi più di un’ora per
preparare la mia valigia, rifiutando
di ricorrere a qualsiasi incantesimo; sapevo perfettamente che, una
volta
abbandonata quella postazione in riva al fiume, Ron non sarebbe
più riuscito a
trovarci. E mi faceva male, terribilmente male. Alla fine ci
Smaterializzammo,
minacciati dal fiume fangoso in piena, e ci trasferimmo in un nuovo
rifugio, in
cima ad un colle coperto d’erica. Una volta lì,
non riuscii a trattenere le
lacrime, che mi bagnarono il volto per quasi tutto il resto della
giornata,
impedendomi anche solo di proferire parola. Fu Harry ad occuparsi degli
incantesimi di protezione, nonché della cena, quella sera.
Sospettavo che si
sentisse in colpa, frustrato dai continui fallimenti dei nostri
progetti e dal
fatto che, in diversi mesi, non avevamo ottenuto nessun risultato, come
giustamente aveva esclamato Ron. Divorai i suoi wurstel bruciacchiati
come se
fossero pizza e patatine fritte, talmente ero affamata, desiderosa di
riempire,
in qualche modo, il vuoto immenso che Ron aveva lasciato dentro di me.
<<
Non pensavo che ti sarebbero piaciuti >>
commentò Harry, meravigliato.
Probabilmente
pensava di aver fatto un buon lavoro con la cucina, perché
nei giorni
successivi si offrì spesso di preparare da mangiare per me,
senza molto
successo.
***********************************************
Sette.
Erano ormai sette giorni che Ron se ne era andato, quando tirai fuori
dalla mia
borsetta il ritratto di Phineas Nigellus, alla ricerca disperata di una
compagnia diversa da quella di Harry.
<<
Non parlerò fino a quando non mi avrete tolto questa
maledetta benda dagli
occhi! >> si ribellò Phineas, da dentro il
quadro.
<<
Come le ho già detto, è una precauzione
necessaria, signor Nigellus >>
gli dissi, leggermente rallegrata.
Non
potevo negare che quell’uomo fosse bizzarro e divertente,
nonostante la sua
discutibile passione per i Serpeverde e per Piton.
<<
Lurida Mezzosangue … Fortunatamente, ad Hogwarts il
magnifico professor Piton
sta cambiando le cose. Rigore e disciplina, prima di tutto
>>.
<<
Cosa? Cosa ha fatto Piton? >> intervenne Harry,
visibilmente preoccupato.
<<
Ragazzo, le cose sono cambiate, ormai. Quell’uomo
è un genio. Ha reintegrato i
vecchi provvedimenti della Umbridge: niente riunioni di tre o
più studenti!
>> esclamò Phineas, con aria trionfante.
Decisi
di lasciare quei due da soli: nonostante fossi stata io a tirare il
ritratto di
Nigellus fuori dalla borsetta, non avevo più voglia di
sentirlo parlare di
ingiustizie e violenze sulle quali non potevamo intervenire in alcun modo. Impugnai “Le Fiabe di Beda il Bardo” e
il
dizionario runico e mi lasciai
cadere
sul letto, mettendomi a leggere. Era così da quando ero
bambina: leggere era l’unico
modo per non pensare, per “spegnere il cervello e accendere
il cuore”, come
diceva mio padre. Alle “Mille e una
notte”,
però, si era ormai sostituita quella raccolta di favole del
Mondo Magico, che
Silente mi aveva lasciato in eredità. Aprii una pagina a
caso, e mi si presentò
davanti una storia dal titolo “La
fonte
della buona sorte”. Iniziai a leggerla, trovandola
sin da subito magnifica.
Narrava le vicissitudini di tre streghe, Asha,
Altheda e Amata,
e di un cavaliere, diretti ad una Fonte miracolosa, la “Fonte della Buona Sorte”,
capace di
lenire le loro sofferenze. Il cavaliere si chiamava Messer Senza-
qualcosa,
senza … Diedi un’occhiata al dizionario runico: Senzafortuna. Lessi la storia tutta
d’un fiato, rivedendomi nel
personaggio di Amata, sofferente perché abbandonata
dall’amore della sua vita. La
morale del racconto mi colpì: arrivati alla Fonte, le tre
streghe si
capacitarono di non averne bisogno, mentre il messere si
bagnò nelle sue acque,
convinto di poterne trarre guarigione. E ne uscì innamorato
di Amata, alla
quale chiese la mano, ottenendo risposta positiva. Era chiaro: la Fonte
non
aveva alcun potere, erano stati loro e tutta la gente ad insignirla di
una
capacità di cui essa era totalmente priva. Anche in quel
racconto, Silente
aveva voluto lasciare un commento, appena abbozzato con la sua esile
scrittura
a fondo pagina:
“Quando
ero ancora insegnante
di Trasfigurazione, si tentò di inscenare la storia in una
recita scolastica,
ad Hogwarts, ma senza successo. Ero ignaro, ahimè,
dell’esistenza di un
triangolo sentimentale tra tre dei protagonisti, e la cosa
decretò il
fallimento della rappresentazione scenica. Oltre al fatto che il
serpente che
usammo per la recita, durante la serata, si rivelò essere un
pericoloso
Ashwinder, incendiando tutta la sala e ferendo diversi studenti e
professori.
Fu inoltre l’origine dell’ inimicizia, ancora
accesa, con Lucius Malfoy ”.
Malfoy
…. Chiaro che non gli piacesse quella storia: Amata era una
nata Babbana, e
quando mai si era visto, a quei tempi, che un siffatto essere inferiore
sposasse un Mago?
Chiusi
il libro e mi misi a pensare. Pensai a molte cose:
all’infelicità di Amata,
abbandonata dal suo amore come io lo ero stata da Ron, e soprattutto a
quanto
potente sia l’illusione.
Ma certo, l’illusione
che qualcosa sia vero quando in realtà non lo è.
L’illusione di riuscire a
sconfiggere Voldemort, per esempio, distruggendo tutti gli Horcrux;
l’illusione
di farcela a sopravvivere altri mesi, anni forse, in quelle condizioni.
L’illusione,
soprattutto, di rivedere Ron, e magari di baciarlo, per la prima volta,
unendo
i nostri corpi in un caldo abbraccio, e magari anche di sposarlo e di
avere
figli. Riconobbi a me stessa di amarlo: amavo tutto di quel ragazzo,
dai
capelli rosso fuoco all’andatura incerta e buffa. Amavo
persino i suoi vestiti,
vecchi e logori– ma sempre puliti - , e addirittura amavo
quel suo modo spesso
sgrammaticato di parlare, che mi faceva terribilmente infuriare. Potevo
illudermi di rivederlo? Di avere un futuro con lui, nonostante tutto
quello che
era successo e che ancora ci aspettava? Di amarlo persino nei suoi
momenti di
maggiore debolezza, in cui a un tempo lo detestavo? Mi venne in mente
una frase
di Giacomo Leopardi, un poeta italiano: “Il
più solido piacere di questa vita, è il piacere
vano delle illusioni”.
Ma
sì, mi dissi. E’ così bello lasciarsi
andare alle illusioni, “spegnere la mente
e accendere il cuore”.
E
passai il resto della giornata a pensare a Ron, illudendomi che anche
lui, da
qualche parte, fosse intento a fare la stessa cosa.