PROLOGO
All’interno del tempio, regnava un’oscurità quasi totale.
L’unica fonte di
luce in quell’immenso androne, la cui volta, stupendamente affrescata, era
sorretta da dodici, possenti colonne, incise fino a sembrare dei giganteschi
papiri, era fornita da grandi bracieri che, appesi a delle aste d’oro sporgenti
dai muri, anch’essi pieni di dipinti e geroglifici, ardevano incessantemente.
Un gran numero di
persone, tutti uomini, tutti coperti quasi completamente da lunghe tuniche
marroni e voluminosi copricapo simili a cappucci, restava in piedi a sguardo
basso, pronunciando senza sosta una strana litania, molto probabilmente
un’antica preghiera risalente agli albori della storia.
Quella massa
vociante formava una specie di corridoio naturale che, dal grande portone di
bronzo decorato, ora chiuso, conduceva sino alla statua di Nepthys, la dea
alata guardiana del mondo dei morti, divinità protettrice della tribù; ai piedi
di questa vi era un grande altare di pietra, al cui centro era conficcata, fino
a metà della lama, leggermente ricurva, una spada bellissima, fatta interamente
d’oro, con l’elsa tempestata di pietre preziose e un’incisione finemente
decorata raffigurante l’Occhio di Ujat.
Accanto
all’altare, alto, imponente, stava un uomo, un uomo anziano, a giudicare dalla
folta barba grigio perla che spuntava dal cappuccio; la sua tunica, a
differenza di quelle degli altri sacerdoti, era di un colore bianco
sfavillante, in netto contrasto con la sua pelle scura.
Ad un cenno
solenne dell’anziano, i battenti della porta cominciarono lentamente ad
aprirsi, emettendo un forte cigolio, solo in parte represso dal continuo
salmodiare. Passarono alcuni secondi, poi, dall’oscurità della stanza attigua,
uscì un giovane, un ragazzo di forse diciassette anni; vestiva come un soldato
dell’antico Egitto, con una sorta di gonnellino bianco di lino ricamato d’oro,
una veste leggera che gli copriva il busto, il torace e le spalle, due strisce
di tessuto blu che si intersecavano all’altezza del torace, un paio di
raffinati sandali in cuoio e, per finire, un lungo mantello bianco.
La sua pelle era
scura, ma non quanto quella degli altri presenti, che tendeva quasi ad un color
terra; i capelli, piuttosto lunghi, e leggermente scompigliati, erano più neri
dell’ala di un corvo. Neri erano anche i suoi occhi; aveva un’espressione
fiera, austera, che lasciava trasparire sicurezza e coraggio.
Appena le porte si
richiusero alle sue spalle, il ragazzo prese a camminare lentamente verso
l’altare, fermandosi subito prima dei due gradini che permettevano di
raggiungere il punto in questione, situato sopra una terrazzetta.
«Giovane
guerriero!» disse il vecchio con voce roca, affaticata, ma anche profonda e
autoritaria «Dimmi il tuo nome!»
«Mi chiamo
Toshio.» rispose lui dopo qualche secondo «Principe Ereditario della Tribù di
Nepthys.»
«Questa spada sarà
il tuo giudice. Se sei davvero degno di impugnala, e di assolvere al compito
che il cielo ha voluto affidarti, non rifiuterà di essere estratta da te».
Il ragazzo allora
salì gli ultimi gradini, fermandosi davanti all’altare, e nel tempio calò il
più assoluto silenzio; l’unico rumore percettibile era il crepitare del fuoco
sui bracieri. Attese qualche istante, poi, apparentemente senza traccia alcuna
di dubbio o insicurezza, afferrò saldamente l’impugnatura della spada,
tirandola verso l’alto; l’arma scivolò via dalla fessura senza alcuna
difficoltà, e quando fu completamente estratta la sua lama, illuminata dal
fuoco, brillava più del sole.
«Gli dèi hanno
deciso.» proseguì il vecchio «Tu sarai il nostro difensore al prossimo torneo.»
«Onorerò fino alla
morte l’incarico che mi è stato affidato.»
«Terrò alto il
nome della mia gente, assolvendo a questo sacro compito con fede e dedizione.»
«Il nome
dell’autorità conferitami dal cielo, io ti nomino Difensore di Nepthys. Il
nostro popolo ti saluta e ti onora. Tu sei il nostro guerriero. In te riposano
le nostre speranze.»
«Sono onorato
dalle vostre parole.» rispose Toshio con un leggero inchino
«Ascoltami con
attenzione, figlio mio. La spada che ora stringi con forza nella tua mano per
secoli ha vegliato sui tuoi predecessori. Essa, come saprai, può essere
impugnata solo per una giusta causa, e solo da un cuore forte. Semmai un giorno
il tuo spirito dovesse vacillare, i tuoi ideali crollare, il tuo spirito
convertirsi all’oscurità, la spada ti abbandonerebbe.
Non permettere mai
al seme del dubbio di germogliare nella tua anima. Tu e i tuoi compagni siete i
custodi di questo mondo, è vostro dovere confrontarvi nel nome della giustizia
e dell’onore.»
«Lo terrò sempre a
mente, padre. Le Vostre parole mi accompagneranno da qui alla fine dei miei
giorni.»
«Vai allora,
figlio mio. Il tuo viaggio è appena iniziato».
Domenica 27 Luglio
Città di Uminari
Ore 08:03
Keita Ichinosuke si era svegliato quella mattina con il
morale alle stelle; era talmente euforico che, una volta ogni tanto, non fu
necessario alcun richiamo da parte della madre o della sorellina Sayuri per
riuscire a farlo alzare.
Del resto, ormai
era quasi fatta.
Ancora un giorno,
e finalmente sarebbero cominciate le vacanze estive.
Canticchiando e
fischiettando come un bambino al suo primo giorno d’asilo, il ragazzo saltò giù
dal letto e corse immediatamente in bagno, tirandosi a lucido da capo a piedi.
Il suo era un viso
gentile, amichevole, arricchito da una folta capigliatura castano scura e
ingentilito da due grandi occhi di un marrone tendente quasi al rosso.
Non era mai stato
uno scansafatiche, anzi aveva fama di essere un gran lavoratore, ma da sempre
aveva trovato la vita scolastica alquanto stretta. Non che fosse uno spirito
libero o uno scatenato di prim’ordine; semplicemente, non si trovava a suo agio
a scuola, forse a causa del suo ottimo rendimento, che gli era valso numerosi
nemici, invidiosi dei privilegi che potevano venire dall’essere il secondo
studente col più alto livello d’intelligenza.
Indossata la
divisa scolastica, limitata naturalmente, causa un caldo asfissiante, ai
calzoni neri e alla camicia bianca a maniche corte, Keita scese velocemente in
cucina; sua madre Kimiko, come al solito, si prodigava al fornelli, la
sorellina invece era già uscita; quel pomeriggio, alla sua scuola elementare,
si sarebbe tenuto l’annuale festival della cultura, quindi era necessario
andare via prima per ultimare i preparativi.
Il ragazzo aveva
fatto così in fretta a prepararsi che poté concedersi il lusso di sedersi e
fare colazione in tutta calma, quando invece di solito, proprio a causa della
sua proverbiale pigrizia, finiva sempre per mangiare una fetta di pane tostato
mentre correva come un pazzo per le strade della sua città.
«Oggi vi
consegneranno le pagelline, vero?» domandò la madre passandogli una ciotola di
riso
«Sì, esatto. Ce le
consegnerà alla quinta ora il professor Fujitaka.»
«Hai dei programmi
per il pomeriggio?»
«Pensavo di andare
a fare un giro con Shinji e Nadeshiko.»
«Ricordati di
essere alla scuola di Sayuri entro le sette. Sì è impegnata tanto per il suo
concerto.»
«Sta tranquilla, ci
sarò. Promesso».
A colazione
conclusa Keita recuperò la sua cartella, riposta sulla sedia accanto
all’ingresso già la sera prima, quindi uscì.
La città di
Uminari, situata sulla costa orientale del Giappone, un centinaio di chilometri
a nord di Tokyo, si presentava quella mattina in pieno fermento; i lavori per
l’allestimento della festa dell’estate erano ormai quasi ultimati, e la
domenica successiva le strade si sarebbero colorate della luce di decine di
lampade.
Keita era
abbastanza in anticipo da potersi permettere di camminare in tutta calma,
guardandosi piacevolmente attorno mentre percorreva la strada pedonale
acciottolata che tagliando in due il vecchio centro cittadino arrivava fino al
suo liceo.
Persino il
professore addetto al controllo degli studenti al cancello della scuola, il
burbero professor Kogure, rimase senza parole nel vederlo arrivare così di
buon’ora, tanto che per un attimo pensò di stare sognando; era una situazione
decisamente troppo anormale.
Keita aveva appena
passato il cancello, quando, distrattosi per salutare un gruppo di amici che
giocavano a calcio, urtò inavvertitamente uno studente che stava fermo davanti
a lui, cadendo a terra.
«Scusa, mi
dispiace.» disse immediatamente.
Rialzato lo
sguardo, si trovò a tu per tu con Takeru Minamoto, la leggenda del Club di
Kendo, pluridecorato campione studentesco.
Fra tutti gli
studenti, era certamente quello che poteva vantare uno dei più folti gruppi di
ammiratrici, questo per via sia del suo aspetto per nulla trascurabile sia per
la sua incorruttibile fama da “duro”.
Alto quasi un
metro e ottanta, vestiva sempre e comunque con la divisa intera, completa anche
di giacca, e più di una volta Keita si era domandato come facesse a resistere
al caldo asfissiante. A dispetto della stragrande maggioranza dei suoi compagni
aveva una pigmentazione della pelle piuttosto scura, ma non c’era da restarne
sorpresi, visto che era originario di Okinawa, dove aveva sede la famosa
compagnia del padre, specializzata nel trasporto marittimo.
Quando Keita, pur
assoggettato da quel gigante, gli rivolse un secondo ringraziamento, lui non
rispose, limitandosi a fissarlo coi suoi occhi neri più taglienti di una spada;
anche i capelli erano neri, portati a spazzola.
«Fa più
attenzione.» disse tornando sui suoi passi.
Keita restò un
momento ad osservarlo, poi, riavutosi dal senso di gelo lasciatogli da quello
sguardo, si rialzò da terra, raggiungendo rapidamente l’atrio della scuola.
La stessa,
identica reazione del professor Kogure la ebbero i pochi studenti presenti
nella sua classe nel momento in cui il ragazzo aprì una delle due porte
d’ingresso augurando il buongiorno.
Fra coloro che
risposero al suo saluto c’era una ragazza, la cui sola espressione sorridente
fu che sufficiente per far arrossire Keita come un anguria.
I capelli, di un
castano chiaro, arrivavano fino alla base del collo, con lunghe frange che
coprivano quasi interamente la fronte e le orecchie.
Gli occhi erano di
un verde smeraldo che lasciava abbagliati, e il suo sorriso gentile avrebbe
sciolto qualunque cuore.
Indossava la
regolare uniforme scolastica, e al collo portava un pendente circolare, forse
di legno, su cui erano raffigurate otto lunghe linee rosse, quattro per lato,
simili alle ali spiegate di un angelo.
«Buongiorno,
Keita.»
«B… buongiorno,
Nadeshiko…».
Si sedettero ai
propri posti, uno di fronte all’altra, e dopo poco venne loro incontro un altro
ragazzo; aveva un’aria molto sbarazzina, capelli biondi corti e arruffati che
andavano in tutte le direzioni e occhi azzurri, nascosti dietro ad un curioso
paio di occhiali da vista rettangolari.
«Ehilà, gente.
Come butta?»
«Salve, Shinji.»
«Keita. È raro
vederti qui a quest’ora. Devo presupporre che il mondo stia finendo».
Nadeshiko, che
forse era l’unica a trovare divertenti le battute di Shinji, rise leggermente,
approvando la sua idea.
Quei tre avevano
un grado di affiatamento che aveva del prodigioso; si conoscevano da diversi
anni, Keita e Shinji addirittura dalla prima elementare, e in tutto quel tempo
erano rimasti sempre insieme.
Nessuno sapeva
bene quale fosse il collante che li teneva uniti; forse il loro carattere
gentile e spontaneo, che pur risultando un’ottima qualità veniva talvolta
considerato da alcuni semplice ingenuità.
Di certo, non
avevano interessi in comune; Nadeshiko era iscritta da due anni al club di
letteratura, e aveva già avuto modo di farsi conoscere pubblicando alcuni
racconti di argomentazione fantasy che tanto si rifacevano a quella cultura
favolistica europea che tanto amava, Shinji invece da un anno faceva parte
della squadra di karate ed era conosciuto soprattutto per i suoi micidiali
calci, tanto da guadagnarsi il soprannome di “gamba d’acciaio”.
E Keita… beh,
Keita non aveva interessi in particolare, anche se già da qualche tempo aveva
cominciato ad interessarsi al mondo della scherma, questo forse grazie anche a
suo padre, un famoso archeologo specializzato nella raccolta e nella
catalogazione di armi antiche.
D’un tratto, pochi
minuti prima che suonasse la campanella, la porta si aprì nuovamente, e in
classe entrò un ragazzo dall’aria tenebrosa coi capelli argentei, occhi blu
profondi come l’oceano e un’espressione seri,a composta; la sua sola vista fu
più che sufficiente a mandare in visibilio tutte le ragazze, tranne Nadeshiko,
che si limitò semplicemente a rivolgergli un cenno di saluto.
Il suo nome era
Johan Von Karma, il solo studente in grado di superare Keita in fatto di
rendimento; considerato la punta di diamante della scuola, aveva un quoziente
intellettivo pari a duecento, oltre ad una straordinaria predisposizione a
qualunque tipo di attività fisica.
Ciò nonostante,
era considerato unanimemente una persona del tutto inavvicinabile, con un
carattere freddo come il ghiaccio che nulla sembrava in grado di scalfire.
Parlava
pochissimo, stando sempre per conto suo, e non intrecciava rapporti con
nessuno.
Come suggeriva il
suo cognome era straniero, per la precisione era il secondogenito
dell’illustrissima famiglia tedesca dei Von Karma, che annoverava tra i suoi
antenati uomini e donne di grande rilevanza per la storia europea e che anche
dopo più di sette secoli di storia ancora riusciva ad imporsi sul panorama
politico ed economico del vecchio continente.
Appena entrato
Johan andò a sedersi al proprio posto, ignorando totalmente gli sguardi
sognanti e le moine di tutte le ragazze della classe, che svenivano ogni
qualvolta lui le guardava anche solo per caso.
Dopo poco suonò la
campanella della prima ora, e da quel momento Keita cominciò a contare
febbrilmente i minuti che lo separavano dalle tanto agognate vacanze; solo
sette ore, poi tutto sarebbe finalmente finito.
Alle cinque precise, alla chiusura delle attività
extrascolastiche, presero finalmente il via le vacanze estive; gli studenti cominciarono
a lasciare in massa la scuola, augurandosi rispettivamente buone vacanze e
promettendo di tenersi in contatto per organizzare serate al karaoke o allegre
giornate in spiaggia.
La maggior parte
degli studenti sapeva che in ogni caso si sarebbero quasi sicuramente
rincontrati nella festa d’estate che ci sarebbe stata di lì a qualche giorno,
altri invece, coloro che potevano permetterselo, sarebbero invece
immediatamente partiti per le località di villeggiatura.
Keita, Nadeshiko e
Shinji uscirono tutti insieme, come facevano sempre, dirigendosi al bar gestito
dalla famiglia della ragazza per concedersi un tè freddo prima di separarsi;
Nadeshiko sarebbe rimasta al locale per dare una mano, Shinji aveva la lezione
di arti marziali e Keita lo spettacolo della sorella.
Passando davanti
all’ingresso per la famosa strada pedonale, lungo la quale stava il bar
obiettivo della loro passeggiata, i tre amici videro che proprio lì accanto era
stato allestito il banchetto di una lotteria promossa proprio dall’associazione
dei commercianti che avevano i loro negozi lungo quella via.
A giudicare dalla
gran folla che si era riunita tutto intorno il premio in palio doveva essere
davvero appetibile.
«Che sta
succedendo laggiù?» domandò Keita
«Sembra una
lotteria.» rispose Shinji «Che ne dite, tentiamo la sorte? Dopotutto» disse
poggiando amichevolmente la mano sulla testa di Nadeshiko «Abbiamo qui la
grande dea della fortuna».
Eh già.
Perché, fra le
altre cose, Nadeshiko si era guadagnata la fama di persona incredibilmente
fortunata; più di una volta aveva dato prova del suo “dono”, se così lo si
voleva chiamare, indovinando le pagine dei compiti a sorpresa semplicemente
aprendo a caso il libro o riuscendo a prevedere anzitempo i risultati delle
partite di calcio o baseball più in bilico.
Non appena
riuscirono, a forza di sudori e spintoni, a farsi largo tra la marea di gente, non
ebbero problemi a poter guadagnare per primi il diritto di girare l’urna;
infatti, era usanza molto comune in quel tipo di lotterie di mandare avanti a sé
quante più persone possibile, in modo da far esaurire velocemente il numero di
biglie di ferro ed avere così più possibilità di imbroccare quella giusta.
«Venite, venite!»
diceva uno dei quattro addetti «Tentate la fortuna alla nostra lotteria!».
Ogni giocata
costava trecento yen, così Keita e gli altri decisero in comune accordo di
metterne cento ciascuno e poi lasciare tutto nelle mani di Nadeshiko.
«Scusate, che cosa
si vince?» chiese Shinji
«All’interno dell’urna
ci sono quattro biglie d’oro. Ognuna di esse permette di vincere un biglietto
per un fantastico viaggio di due settimane attraverso l’Europa».
Nel sentir
pronunciare il nome Europa Nadeshiko sembrò cadere dalle nuvole, e i suoi occhi
già brillanti si fecero più luminosi di due pietre preziose.
L’Europa: fin da
bambina non aveva mai desiderato altro che poter vedere quella terra
straordinaria, ricca di storia e di tradizioni; molte volte aveva cercato coi
suoi genitori, che condividevano il suo stesso sogno, di provare ad organizzare
un viaggio, anche di piccola portata, ma con un bar da mandare avanti e due
figlie da mantenere era dura riuscire a mettere da parte i soldi per una simile
impresa.
Ora le si
prospettava l’occasione per realizzare il suo sogno, e mai come in quel momento
pregò di essere davvero, almeno un po’, quella dea della fortuna che molti
ritenevano che fosse.
Avvicinatasi all’urna,
afferrò leggermente la manovella, e un istante prima che iniziasse a farla
girare Keita ebbe come l’impressione di vedere il monile della ragazza
illuminarsi leggermente di una luce rosata.
Tutto intorno calò
il più assoluto silenzio, con il rumore delle biglie che giravano
vorticosamente nell’urna a fare da contorno a quella situazione carica di
tensione.
Nadeshiko girò
molto a lungo, poi, quando sentì che era giunto il momento, si fermò, lasciando
che il fato facesse il suo corso.
Una, due, tre,
quattro; e nella zona sembrò essere passato un vento glaciale.
I dipendenti della
lotteria erano forse i primi a non credere ai loro occhi; che scusa avrebbero
inventato con gli sponsor per giustificare il fatto di essere stati costretti a
chiudere baracca e burattini prima ancora di poter rientrare nelle spese?
Tutte e quattro le
biglie d’oro erano lì, sul piatto, in bella mostra.
«Non…» disse Keita
«Non ci credo… Ma…»
«Hai…» disse
Shinji
«Ho…».
Poi, un boato
assordante scosse l’intera strada; tutti esultavano, anche chi non aveva vinto.
Come si poteva non essere felici, o quantomeno allibiti, davanti ad una simile
manifestazione di buona sorte?
Nadeshiko corse
immediatamente al bar per mostrare i biglietti alla sua famiglia, ma nel tempo
che lei e gli altri impiegarono ad arrivare lì la notizia si era già sparsa a
macchia d’olio.
Tuttavia, prima
ancora che potesse cercare di fare un qualche progetto su come spendere al
meglio quell’incredibile colpo di fortuna, i suoi genitori misero
immediatamente i puntini sulle i; erano stati loro tre a mettere insieme i
soldi per la lotteria, quindi era giusto che fossero loro a godere di quel
premio.
Shinji e Keita
protestarono, dissero che era più giusto che in Europa ci andassero Nadeshiko e
la sua famiglia, ma alla fine vennero convinti, così, sedutisi ad uno dei
tavolini all’esterno del locale, presero a fantasticare sull’incredibile
viaggio che li attendeva.
«Sarà una vacanza
magnifica.» disse Keita «Tu sognavi da anni di vedere l’Europa, o sbaglio?»
«Sì, hai ragione. Coltivo
questo sogno da quando era bambina. I miei genitori ci sono stati in luna di
miele, e io ho sempre desiderato di poterci andare, un giorno.»
«Beh, dea della
fortuna.» disse Shinji sorseggiando il suo tè «A quanto pare i tuoi sogni si
sono avverati.»
«Però, ora che ci
penso.» intervenne nuovamente Keita «Noi siamo in tre, e i biglietti sono
quattro. Chi portiamo con noi?»
«Questa è una
bella domanda. Che ne dici di Sakamoto? O Matsuida?».
Sfortunatamente,
qualcuno aveva in mente ben altri progetti.
Non tutti quelli
che avevano assistito alla vittoria dei tre ragazzi avevano erano stati
contenti per loro; fra questi c’era un povero studente universitario che per
poter fare colpo sulla ragazza dei suoi sogni regalandole quel viaggio da
favola non aveva esitato a spendere una vera fortuna in biglietti della
lotteria, biglietti che di colpo erano diventati completamente inutili.
Tuttavia, questo
non era bastato a farlo arrendere; in un modo o nell’altro avrebbe ottenuto
quel premio. Proprio per questo aveva seguito Keita e gli altri fino al bar,
senza mai perdere di vista la cartella di Nadeshiko, all’interno della quale c’erano
i biglietti di viaggio e tutti i documenti necessari.
La cartella in
questione era ora appoggiata su una sedia, e loro erano distratti; se fosse
stato rapido e preciso non si sarebbero neanche accorti di nulla e lui l’avrebbe
fatta franca sotto al loro naso.
Alzatosi dalla
panchina al quale era seduto, e cercando di essere il più disinvolto possibile,
si avvicinò con estrema cautela al tavolo, poi, quando fu proprio accanto alla
sedia, nell’istante in cui tutti e tre i ragazzi avevano lo sguardo rivolto
altrove, afferrò saldamente la maniglia della cartella.
La foga del
momento purtroppo finì per tradirlo, e quando fece per allontanarsi colpì accidentalmente
la gamba della sedia, facendola cadere; subito Nadeshiko e i suoi amici si
accorsero della sua presenza, e lui, che tutto voleva fare fuorché rinunciare a
qualcosa che considerava suo, partì a razzo, portandosi via il suo tesoro.
«Ehi tu, fermo!»
gridò Keita andandogli dietro, seguito in breve anche da Nadeshiko e Shinji.
Ne nacque un
inseguimento furioso, ostacolato e reso ancor più faticoso dalla marea di
persone che a quell’ora cominciavano a riversarsi nella strada pedonale per
fare un po’ di shopping o per concedersi semplicemente un po’ di riposo dopo le
fatiche del lavoro.
I tre ragazzi
correvano a più non posso, gridando con tutto il fiato che avevano per attirare
l’attenzione.
«Fermatelo! Mi ha
rubato la cartella!».
Il ladro però si
faceva sempre più lontano, e se fosse riuscito ad uscire dalla zona pedonale si
sarebbe disperso nel traffico serale, diventando imprendibile.
Mancavano solo
cento metri alla fine dell’acciottolato, quando quel poveraccio ebbe la
sfortuna di capitare sulla strada di Takeru, che tornava in quel momento dall’allenamento
serale.
Il ragazzo,
attirato dalle urla di Nadeshiko, si girò, e con una forza a dir poco erculea
colpì il ladro allo stomaco con la sua spada da kendo, facendogli tanto di quel
male che, abbandonato il suo bottino, dovette allontanarsi da lì gattonando.
Keita, Nadeshiko e
Shinji arrivarono dopo pochi secondi, trovando Takeru con in mano la cartella
della ragazza.
«Takeru!?» disse Nadeshiko
cercando di riprendere fiato
Lui aggrottò
leggermente le sopracciglia, quindi restituì il maltolto alla proprietaria.
«Gra… grazie.»
«Stai attenta la
prossima volta.»
«Lo… lo faro…» rispose
lei con vocina da formica; dopotutto, quel bestione era alto almeno trenta
centimetri più di lei
«Ehi.» disse
sottovoce Shinji all’orecchio di Keita «Ma quello non è Minamoto della quarta
sezione?»
«È proprio lui».
Takeru, conclusi i
propri obblighi, fece per andarsene, ma appena ebbe mosso il secondo passo
Nadeshiko lo richiamò.
«Takeru, aspetta».
La ragazza esitò a
lungo, poi, messa una mano nella cartella, ne prese fuori uno dei quattro
biglietti.
«Ecco… per
ringraziarti… vorresti accettare questo?»
«Che cos’è?»
«È un biglietto
per un viaggio in Europa.» disse con il suo solito, innocente sorriso «Se a te
fa piacere, vorrei invitarti a venire con noi».
Shinji e Keita
erano visibilmente sorpresi; certamente non si aspettavano che la situazione
potesse prendere una piega simile, ma cercarono di tornare sobri quando la loro
amica si rivolse a loro.
«Per voi non è un
problema, vero?»
«No, no.»
risposero insieme «Nessun problema. Anzi, sarebbe un piacere».
Lui non rispose, né
commentò, lasciando come al solito che fosse il silenzio a parlare per lui;
poi, proprio quando Nadeshiko stava per ritirare la mano, lui afferrò il
biglietto, mettendoselo in tasca.
«Sono con voi.»
«Ne sono felice.»
disse la ragazza riacquistando il sorriso «E grazie ancora».
Takeru fece un
cenno, forse addirittura accennò un sorriso, poi girò i tacchi e se ne andò,
stavolta definitivamente.
Così, in un modo
del tutto imprevisto, la squadra era creata.
Quella sera,
ognuno dei tre amici si addormentò pensando con ansia e gioia crescenti a tutte
le incredibili meraviglie che li attendevano dall’altra parte del mondo, in
quella terra verdeggiante chiamata Europa, coi suoi castelli, le sue chiese, le
sue piazze, e i suoi misteri.
Nota dell’Autore.
Salve a tutti!
Eccomi qua con un’altra
delle mie storie strampalate.
Questa storia, come i
miei lettori più appassionati avranno notato, costituisce una rielaborazione
del primo episodio della saga Millennium War, iniziata come fan fiction ispirata
ad un anime/manga e ora rivisitata in chiave completamente fantasy, con nuovi
personaggi, nuove vicende e nuove ambientazioni.
Inoltre, giusto per
togliermi uno sfizio che coltivavo da tempo, ho deciso di trasformare questo
episodio, ma anche tutti i successivi, in un grande Crossover in cui
appariranno personaggi provenienti dai contesti più svariati (anime e manga, ma
anche libri celebri e videogiochi), inseriti però in un contesto completamente
diverso, e nella maggior parte dei casi anche con un carattere diverso.
Non si tratta
solamente, per la verità, di un semplice sfizio, ma i motivi reali di questa
scelta verranno chiariti più avanti.
Qualcuno forse avrà
già notato delle somiglianze o dei nomi alquanto famigliari.
Bene, ho parlato
anche troppo.
Spero di aver
catturato il vostro interesse, e mi raccomando, fatemi sapere!
A presto!^_^
Carlos Olivera