Note
dell’autrice.
Salve
a tutti. Voglio premettere una cosa prima di tutto. Questo capitolo
è un
capitolo di introduzione, Robert entrerà in scena nel
prossimo capitolo (che è
quasi completato e posterò presto). Sono contenta che il
prologo sia piaciuto,
spero davvero di non deludervi con il primo capitolo. Nel secondo ci
sarà
azione… si si…
Volevo ringrazi ere le persone che anno recensito:
Merion: Grazie mille! Spero di non averti delusa e spero che leggerai
anche io
secondo capitolo! A presto!
ElfoMikey: honey! Sono contenta di sapere che ti piaccia! Spero di non
deluderti con questo! Alto fino al cielo e grande quanto il mare!
Luinil: ciao! Grazie per i complimenti, grazie davvero bella! Spero ti
piacerà
questo! Fammi sapere!
Kriscullen_: Ciao! Sono contenta che ti sia piaciuto il prologo! Questo
capitolo, come ho già detto, è solo
un’introduzione che spero comunque ti
piaccia. XD A
presto!
Ed ora… enjoy!
CAPITOLO I
“Audry?”
La voce di mia madre mi riportò alla realtà. Mi
voltai a
guardarlo distogliendo lo guardo dal libro che avevo sulle gambe.
“Domani
non ci sarò.” Non risposi, oramai era un rituale.
“Quanto
tempo?” Chiesi fredda.
“Credo…
un paio di settimane.” Ritornai a fissare il libro. Senza
rispondere.
“Tesoro… è per lavoro.
Tornerò il più presto possibile.” Con
la mano mi
accarezzò i capelli ramati. Alzai lo sguardo fissandola
negli occhi, poi, con
mio grande sforzo, sorrisi.
“Tranquilla
mamma. Voglio solo che tu sia felice.” Cercavo di essere il
più
convincente e il più credibile possibile. Il suo viso si
illuminò di un
sorriso. Sorprendente come mia madre credesse a tutti i miei sorrisi, a
tutte
le mie espressioni. Ma erano tutte finte, tutte costruite e mai
sen’era
accorta, in un certo senso era positivo. Ma a volte, avrei voluto se ne
rendesse conto.
“Quando
parti?” Aggiunsi chiudendo il libro e poggiandolo sulla
poltrona
accanto al divano.
“Domattina
presto.” Abbassò lo sguardo.
“E’ stato tutto improvviso. Scusami
piccola.” Sussurrò. Sapevo che non lo faceva di
proposito.
“Tranquilla
mamma. Oramai ho diciannove anni. So badare a me stessa.”
Dissi
cercando di sorridere, mentendo, in un certo qual modo.
Sospirò e, baciandomi
la fronte, si diresse verso il piano superiore.
Amavo mia
madre, era la donna più bella del mondo, sia dentro che
fuori.
Lavorava per una casa di moda e fu per questo che, quando avevo sei
anni ci
trasferimmo da un paesino sperduto della Francia in California. Ero
piccola e
ambientarmi fu abbastanza facile. Ma mia madre non c’era mai
e passavo i miei
giorni da sola o dalla vicina che aveva settantadue anni. Almeno fino
ai
quindici anni quando finalmente imparai a badare a me stessa. Arrivata
ai
diciannove anni, oramai, lasciarmi sola per mia madre non era un
più una
preoccupazione o un problema e, a me, infondo piaceva starmene per
conto mio.
Salì
anch’io in camera. La finestra era aperta e il sole del tardo
pomeriggio riscaldava
la stanza tingendo ogni cosa d’arancione. Riposi il libro sul
letto e mi ci
stesi sopra con un tonfo. Sospirai guardando il soffitto bianco.
Avrei
presto iniziato il college. Il solo pensiero di frequentare biologia mi
faceva venire i brividi, ma, infondo era la scelta giusta, mi piaceva.
Sarei
stata per conto mio, lontano da mia madre, dal suo continuo tentativo
di
volersi far perdonare della vita che aveva scelto.
Le mie
giornate in quella ultima settimana di settembre erano piuttosto
noiose.
Le mie mattinate erano fatte di lunghe dormite e i miei pomeriggi di
lunghe
camminate sulla spiaggia. La sera, bè, di locale in locale
con la mia unica
amica, l’unica che riusciva a sopportare i miei idioti sbalzi
d’umore. L’unica
che avrebbe fatto di tutto per vedermi felice, e le dovevo tutto.
Tutta la
mia vita era un sogno, un sogno noioso. Era così che la
consideravo.
Lentamente
sentì il mio respiro farsi più pesante, regolare
e tranquillo.
Quando riaprì gli occhi il sole illuminava flebile la
stanza. Mi misi a sedere
con un forte emicrania. Mi portai un mano sulla fronte e mi resi conto
che mi
era addormentata. Non avevo le scarpe e un lenzuolo mi copriva. Guardai
la
radiosveglia.
Le sette
del mattino?
Avevo
dormito all’incirca dodici ore. Mi misi in piedi
stiracchiandomi. Mi
sentivo riposata, il colmo sarebbe stato non esserlo. Mi madre
sicuramente la
notte precedente era venuta a controllare che tutto fosse a posto, e,
vedendomi
dormire, mi coprì con il lenzuolo chiudendo la finestra.
Scesi
rumorosamente le scale, come mio solito, e mi diressi in cucina.
“Mamma?”
Nessuna risposta.
“Cèline?”
Chiamai ancora. Quando varcai la soglia della cucina notai un
biglietto piegato con cura sul tavolo.
Tornerò presto te lo prometto.
Ti voglio bene piccola mia. Ti chiamerò appena l’aereo atterra.
Dimenticavo di dirti che sono in Florida.
Mamma.
Era
la scrittura di mia madre. Impossibile confonderla.
“Florida?” Sussurrai scettica. “Vicino
eh?” Poggia il foglio su tavolo e mi
diressi verso il frigo. Avevo bisogno di succo d’arancia: il
mio preferito.
Mia madre si era dimenticata di dirmi dove andava. Non era la prima
volta,
capitava spesso soprattutto perché le sua partenze erano
improvvise. Non volevo
deprimermi quella mattina pensando a mia madre e alle pochi attenzioni
che
durante l’infanzia mi aveva dedicato. Decisi così
che era meglio uscire.
Magari sarei potuta passare dal negozio di tatoo dove Stephanie
lavorava prima
che iniziassimo insieme il college. Le avrei fatto un saluto.
Più tardi sarei
andata a controllare gli aerei per il college che si trovava nello
stato di
Wisconsin.
Feci colazione in fretta e mi vestì con straordinaria
lentezza perché mi resi
conto che erano soltanto le sette e mezza. Un’ora dopo dovevo
ancora scegliere
la maglia da mettere. Non ero una ragazza che curava particolarmente
l’estetica,
ma quella mattina andare lentamente era un obbligo.
Mi sporsi dalla finestra guardando il mare. Ebbene sì,
vivevo davanti al mare e
cosa più assurda… non sapevo nuotare. Pochi lo
sapevano, era piuttosto
imbarazzante. Dopo esserci trasferite qui Cèline
cercò, molto spesso, di
insegnarmi a nuotare, ovviamente, senza successo. Proprio non ci
riuscivo e
odiato il mare, era così... così…
bagnato.
Riuscì a mettermi le scarpe e lavarmi i denti
contemporaneamente senza rompermi
l’osso del collo. Mezz’ora dopo ero sulle strade
affollate di Long Beach.
“Stephanie?” Chiesi entrando nel locale, facendo
suonare il campanello sopra di
esso. Quel suono era parecchio irritante.
“Chi mi cerca?” Sentì la sua voce ma non
capì da dove venisse visto che nel
piccolo locale non c’era nessuno.
“Audry. Ma dove sei?” Chiesi dirigendomi verso il
laboratorio. Ad un tratto la
vidi scattare in piedi da dietro il bancone facendomi sobbalzare. La
fulminai
con lo sguardo.
“Sembri mia nonna. Ti spaventi per tutto.” Mi disse
infilandosi gli occhiali.
Scossi il capo.
“Se tu esci, così, senza preavviso è
normale.” Risposi in mia difesa. “ E poi
tua nonna è…”
“Strana?” Annuì.
“Più simili di così.” La
guardai torva e lei alzò gli occhi al
cielo, poi prese un catalogo e me lo mise sotto il naso.
“Fatti un tatuaggio. Tingi la tua pelle, come faccio io, mia
cara.” Feci una
smorfia storcendo il naso.
“Non credo sia una buona idea. Ago fobia, ricordi?”
Le dissi restituendole il
catalogo. Rabbrividì al solo pensiero.
“Ah, giusto. Avevo dimenticato.” Ripose il tutto su
uno scaffale.
“E poi non hai proprio tinto la tua pelle. Dovresti dire che
l’hai macchiata.”
Uscì da dietro il bancone e mi mostro la rosa sulla
caviglia. Poi si avviò a un
grande stereo, riposto con cura in un angolo della stanza.
“E’ tinta.”
“E’ macchiata.” Bofonchiai.
“Allora, hai fatto le valigie?” Cercò di
cambiare discorso o saremmo andate
avanti così per tutto il giorno. Inarcai un sopracciglio.
“Ma se partiamo fra poco più di due
settimane.” Dissi ovvia. Lentamente si giro
a guardarmi aggrottando la fronte.
“Audry… le due settimane sono passate. Audry,
partiamo domani, ricordi?”
Sgranai gli occhi nel sentire quelle parole e mi irrigidì.
“Domani? No! Partiamo il venticinque! Me lo ricordo
bene!” Dissi con voce
strozzata. Si alzò lentamente venendomi incontro e
poggiandomi una mano sulla
spalla.
“Oggi e ventiquattro.” Sgranai gli occhi e,
inevitabilmente, mi feci prendere,
come al solito, dal panico.
“Domani?” La voce mie era rimasta in gola.
Stephanie annuì. Mi voltai di scatto
e corsi via ignorando la sua voce che dalla soglia del locale gridava
il mio
nome.
C’era una questione urgente: avevo poche ore per preparare i
bagagli. Un’impresa
impossibile, ma non avevo alternativa. Afferrai il mio cellulare dalla
tasca
anteriore dei miei jeans scoloriti e composi il numero di mi madre,
sperando
che non fosse già salita sull’aereo. Dopo quattro
squilli la chiamata fu
aperta.
“Audry?”
“Mamma! Domani parto per il college!” Strillai.
“Lo so, tesoro.” La sua voce calma mi
sbigottì talmente tanto che mi bloccai al
centro della strada all’istante.
“Cosa?”
“Si tesoro. Non lo ricordavi? Guarda che è tutto
pronto, tutti i documenti sono
in camera. Me ne sono occupata io la settimana scorsa. I bagagli gli
hai fatti,
no? Di che ti preoccupi?” Sgranai gli occhi sorpresa.
Mia madre che organizza tutto?
Strabuzzai gli occhi qualche volta.
“E’ già tutto pronto?”
“Certo piccola!”
“Come ci arrivo nel Wisconsin?” Una cosa che
sicuramente non aveva pensato. La
sentì sospirare.
“Audry… hai l’aereo con Stephanie
domattina alle atto.” Nella sua voce c’era
rammarico. “Cosa ti succede?” Rimasi a fissar con
sguardo vuoto il la strada
grigia, resa ancora più chiara dal sole mattutino.
“Nulla, mamma.” Fu tutto quella che
riuscì a dire con voce piatta.
“Non è da te dimenticare certe cose. Sei sicura
che sia la scelta giusta?”
Nulla era certo nella mia giovane vita, ma di sicuro, lo stato di
Wisconsin era
ciò che desideravo. Una delle poche certezze che allora
avevo. Forse l’unica.
Probabilmente era anche la cura all’apatia.
“Si, è ciò che voglio. Ti richiamo
mamma. Ciao.” La sentì farfugliare qualcosa
che sembrava un saluto e chiusi la comunicazione.
Consapevole di dover solo riporre i miei pochi abiti dentro una valigia
rallentai i passo infilandomi le mani in tasca. Ero talmente tanto
presa dalla
routine, dalla noiosità delle mie giornate da aver
totalmente perso la
cognizione del tempo. Ero troppo occupata a compatire me stessa da aver
scordato che giorno fosse.
Non era mai successo.
Ma presto, tutto, sarebbe cambiato.
Quando la
mattina successiva mi alzai, realizzai per davvero ciò che
mi stava
succedendo: entro poche ore gran parte della mai vita sarebbe cambiata.
Il
college.
Mi alzai
lentamente dopo aver visto che la radio sveglia sarebbe suonata due
minuti dopo. La disattivai. Odiavo quel suono.
Mi lavai
vesti e feci colazione aspettando che Stephanie e sua madre passare a
prendermi.
Le
valigie erano poste con cura accanto alla porta di ingresso. Il clacson
suonò e mi fiondai in macchina.
Ma chi
mai avrebbe immaginato che, lì, in
un’università come tante, avrei
incontrato il mio peggior, e miglior, incubo?