Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: ermete    23/02/2015    3 recensioni
Questa sarà una raccolta di diversi tipi di flash fic: le prime 3 sono reaction-fic alla terza stagione, mentre le altre saranno storielle scemine ispiratemi da gif e fanart varie. Sarà spessissimo presente il tema degli animali (Sherlock gatto per la maggiore XD). Accetto eventuali prompt! Nel capitolo 1 sposterò l'indice :3
Note: johnlock e tomcroft forever
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU, Raccolta, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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***Ciao bimbe! Innanzitutto ringrazio la mia adorata Marsallero (Cracked_Actress, actually XD) per il betaggio! Ora, velocissima premessa: è una AU in cui John si è sposato con una Mary a caso (non incinta, non assassina e non c'è stato il casino di Magnussen) e qui inizia da qualcosa come sei mesi dopo il matrimonio. Vi consiglio caldamente di tenere a mente questa immagine mentre leggete eheheh! BACIO!!!***

 

 

Tutto è cominciato quando Mycroft l’ha convinto, non sa neanche lui come, ad accompagnarlo a metà strada tra Londra e Oxford, in un piccolo ma rinomato allevamento di bulldog inglesi.

“Mycroft,” mugugna Sherlock, ancora una volta, prima di scendere dall’auto, “dimmi nuovamente perché sono qui con te.”

“Perché ti stavi annoiando, sei triste per John e io volevo la tua compagnia.”

“Ehi, io non…” sta per obiettare Sherlock, ma prima che possa concludere la frase vede la portiera dal lato di Mycroft chiudersi e quindi è costretto ad uscire e a seguirlo.

Quando entrano nei recinti riservati ai cuccioli, Sherlock ha ancora il muso e borbotta a bassa voce.

“Parla, fratellino, dai voce al tuo dolore,” ridacchia Mycroft, a metà tra il divertito e l’ironico.

“Io non sono triste per John,” è la bugia che ringhia il minore degli Holmes “e poi si può sapere da quando vuoi un cane?”

“Sì, lo sei,” replica rapidamente il maggiore, senza alcuna inflessione nel tono della voce. Inflessione che, invece, acquisisce subito dopo, “Oh, non lo vorrei, in realtà.”

“No,” mugugna Sherlock, continuando assieme a Mycroft quella doppia conversazione come se in realtà fossero in quattro a parlare, “E per quale motivo lo prenderesti allora, di grazia?”

“Sherlock,” si ferma Mycroft e questa volta il tono è vagamente imperativo, “puoi convincere tutto il resto di questo stupido mondo che tu non ti stia struggendo per il matrimonio di John, ma sappi che potrai anche giurare col sangue in mia presenza che non è vero e io non ti crederò comunque.”

Sherlock si ferma a sua volta, ma non guarda Mycroft in faccia: ovvio che sia distrutto per il matrimonio di John e per tutte le conseguenze che ha portato con sé quel maledettissimo giorno. Innanzitutto ora lui vive di nuovo da solo e per quanto John vada spesso a trovarlo, è altrettanto palese che non sia più lo stesso. E sa anche che John si sente in colpa, nonostante la felicità che dovrebbe invece provare per aver sposato Mary, ma Sherlock, per quello, non può proprio farci nulla. Almeno quello, davvero, non può evitarlo: non può anche fingere di essere felice per lui. Fingerà una neutralità che non gli appartiene e John continuerà a fare molto, ma non abbastanza, per farlo sentire meglio. Che vita squallida. La cosa che gli fa più male è che nessuno gli ridarà più indietro quei due anni in cui, nonostante tutte le avversità passate assieme, erano solo loro due contro tutto il resto del mondo.

“Dunque,” sospira Sherlock riprendendo a camminare, “per chi è veramente il sacco di pulci? Per la mamma, forse? O, peggio, per papà?”

Mycroft lo segue e reprime un sospiro: ha visto Sherlock soffrire in molti modi diversi, ma questo è in assoluto il più doloroso tra tutti e non può che provarlo almeno in parte anche su di sé. E quel che è peggio è che non può fare nulla per risolvere la situazione: ha pensato di far sparire Mary in qualche modo, ma risulterebbe sospetto persino per lui e, per quanto gli dia fastidio ammetterlo, John non sarebbe così tanto stupido da non capirlo.

“Mamma e papà? Oh, cielo no,” è la risposta evasiva di Mycroft: deve confessare qualcosa al fratello, ma sarà tutto fuorché facile farlo.

“Dunque? Perché devi prenderti un cane se non lo vuoi?”

“Non è che non lo voglia.”

“Mycroft…” a Sherlock sta per scoppiare un bel mal di testa.

“Guarda!” esclama Mycroft ed egli stesso non può credere alla nota entusiasta che ha assunto il suo tono di voce. Ma non ha tempo di pensarci, perché è impegnato a trascinare Sherlock verso un angolo del recinto in cui si sono isolati due cuccioli di bulldog inglesi.

Mycroft si china ed inizia ad ispezionarli toccandoli il meno possibile, più per abitudine che per altro. Sherlock, invece, quando si china, allunga entrambe le mani verso i musetti dei due cuccioli: un sorriso nasce spontaneo quando i piccoli moncherini delle due code si agitano felicemente scuotendo i sederotti rotondi dei due cani.

“Ehi, qualcuno qui ha trovato due nuovi amici,” Mycroft arriva addirittura a sorridere apertamente, poi, finalmente, avvicina la mancina al più piccolo dei due, “Uno, però, serve a me, Sherl.”

“Sherlock,” lo corregge il minore degli Holmes, “e non ho intenzione di prendermi quello che scarterai tu. Ti sembro il tipo di persona che riesce a prendersi cura di un cane?”

“No,” sorride Mycroft, e lo fa pure affettuosamente questa volta, “ma questo piccoletto mi sembra il tipo di cane che riesce a prendersi cura di te.”

Sherlock sospira,“Non posso, Mycroft. Non posso.”

“Non puoi pensare già a quando lo perderai, Sherlock.”

“Chi sei tu e cosa ne hai fatto dell’uomo che dice di non coinvolgersi sentimentalmente?”

“Quell’uomo…” inizia Mycroft, ma non riesce a finire la frase ad alta voce.

Tuttavia, lo fa Sherlock “...si è coinvolto sentimentalmente. E il cane è un regalo per…?”

Mycroft annuisce.

“Hai trovato un pesce rosso.”

“Oh,” protesta Mycroft, “è molto più di un pesce rosso. Questo è uno di quei pesci che sta sulla Barriera Corallina. Di quelli belli e colorati. E intelligenti. E…”

“Sono contento per te, Myc.” E lo è sul serio, Sherlock: non è invidioso, non potrebbe mai esserlo a discapito di suo fratello, nonostante i battibecchi e tutto il resto.

Il grazie di Mycroft è implicito nello sguardo che, da Sherlock, si muove ora e torna verso il cucciolo, “Questo è il mio modo di chiedergli di venire a vivere da me.”

“Bastardo,” ride Sherlock, “lo compri così? Come si può dire di no a questi cosi tutti rughe, saliva e occhioni supplicanti.”

“Beh, è quella la strategia,” confessa Mycroft, per poi toccare leggermente la spalla di Sherlock con la propria, “Senti, la verità è che sapevo già che ci sarebbero stati due cagnolini della stessa cucciolata oggi. Ho chiesto all’allevatrice di tenerci da parte questi due fratellini perché ho pensato sul serio che potessimo prenderne uno a testa. Credo ti farebbe bene avere un cucciolo con te.”

“Due fratelli?” Sherlock sospira e prende in braccio il cucciolo rimasto, “Oggi giochi proprio sporco, Mycroft.”

“Che ne dici di chiamarli Orville e Wilbur?”

“Come i fratelli Wright?”

“Visto che sei d’accordo, allora andiamo a parlare con l’allevatrice.”

“Ehi,” è la breve protesta di Sherlock.

“Ehi, tu,” Mycroft si alza, portando con sé il piccolo Orville, “non vorrai mica separare due fratelli.”

Sherlock sospira e si alza con il cucciolo in braccio, “Suppongo di no. Andiamo, Wilbur.”

Perché, oggettivamente, come avrebbe potuto dire di no, Sherlock, al proprio fratello che non vedeva sorridere in quel modo da anni e al piccolo cucciolo che gli masticava già la sua preziosa sciarpa blu in segno d’affetto?

*

Convincere la signora Hudson a tenere Wilbur non è certamente stato un problema: quel cucciolo è così docile e carino che neanche Moriarty oserebbe alzare un dito su di lui. Lo circuirebbe e lo renderebbe il suo temibile mastino infernale, magari, ma sempre con amore e uccidendo chiunque lo sfiorasse.

E Sherlock ha scoperto in fretta che tutti quei luoghi comuni sugli animali domestici che rendono la vita più bella e meno triste sono tutti veri. Se lui è triste, basta che Wilbur lo guardi e scodinzoli per farlo sorridere. Se Wilbur guaisce per qualsivoglia motivo, Sherlock lo prende in braccio e lo accudisce con dolcezza.

Per la prima volta dopo tanto tempo, Sherlock sente di essere amato da qualcuno, anche se quel qualcuno è “solo” un cucciolo di bulldog inglese con pelle e saliva in abbondanza.

*

La prima volta che John va al 221B dopo l’arrivo di Wilbur, trova Sherlock sdraiato sul divano, supino, con il cucciolo adagiato tra torace e addome, le quattro zampe divaricate, pancia contro pancia. Dormono entrambi.

John reclina il capo verso la spalla destra e sorride teneramente per quell’immagine che trasmette tutti i sentimenti positivi che possano esistere al mondo: vede la quiete, sente la dolcezza, percepisce l’innocenza. Carpisce tutto ciò che di Sherlock ha sempre avuto la fortuna di vedere e che pochi altri, al mondo, si sono sforzati di voler cercare: vede tutto ciò che di buono c’è in lui.

Si avvicina lentamente e non resiste all’impulso di scattare qualche foto col cellulare prima di togliersi la giacca ed avvicinarsi ulteriormente: si inginocchia ai piedi del divano ed alza la mano, per poi fermarla. Per un attimo è indeciso su chi desideri accarezzare, in effetti. La normalità suggerirebbe che accarezzare un cucciolo di bulldog inglese sia la cosa più giusta da fare, per principio, in assoluto. Ma John sa di non essere del tutto normale, così si sofferma ad osservare il viso di Sherlock che, dopo tanti mesi, è appena appena meno tirato del solito -merito del cucciolo, pensa, la pet therapy fa miracoli, è risaputo- ma non può comunque non sentirsi in colpa. Nei confronti di Sherlock, di se stesso e di entrambi. Perché se è vero che ama Mary, come mai si sente così vuoto quando non è al 221B assieme a Sherlock? E perché l’idea di stare ferendo Sherlock è più dolorosa dell’eventuale pensiero di poter rompere con Mary? E perché, infine, non si sente in colpa come dovrebbe all’idea di lasciarla? Perché lui, che è sempre stato così tanto coraggioso, ora si sente un codardo? Non si sente più se stesso?

I perché di John sono molti e decisamente rumorosi, tanto da svegliare Sherlock che non interrompe quel flusso di pensieri per poter godere ancora della vicinanza del suo dottore.

John, d’altro canto, mette finalmente a fuoco ciò che ha di fronte e si accorge di aver interrotto il sonno dell’altro, “Sherlock,” sorride amabilmente e dissimula i propri movimenti adagiando la propria mano sulla testolina del cucciolo “non sapevo ti fossi trovato un nuovo amico.”

“L’altro mio unico amico è stato impegnato recentemente,” il tono è più triste che accusatorio, Sherlock non riesce ad evitarlo. La voce è un sussurro leggero ma facilmente udibile data la vicinanza di John.

“Vuoi proprio farmi sentire in colpa,” prova a scherzare John, ma la verità è che quella situazione pesa anche a lui. Prova tuttavia a cambiare discorso, “Dunque, com’è successo…?”

“Wilbur.”

“Wilbur? Che carino,” sorride John e si lascia annusare e leccare dal cucciolo che nel frattempo si è svegliato, “Dunque, come sei capitato nella vita di Sherlock, eh?” domanda al cucciolo.

“Mycroft ha pensato che ne avessi bisogno,” ammette Sherlock in un altro sussurro mentre osserva Wilbur che pare apprezzare alquanto John: e chi non lo farebbe? A quale pazzo al mondo potrebbe non piacere John?

Per quanto apprezzi farsi coccolare dal cucciolo, John si volta verso Sherlock: lo vede stanco nonostante il sorriso sia meno tirato. Sente la voce bassa e calma e non può che percepirla triste, “Stai bene? Sembri fiacco. Hai mangiato? Hai la febbre?”

“John,” sorride Sherlock e, non sa come, non riesce a frenare il proprio braccio la cui mano, alzandosi, ricade morbidamente nell’incavo tra la spalla e il collo di John “stai sfoggiando il dottore che c’è in te.”

John alza la mancina e la ricongiunge alla mano destra di Sherlock stringendola un poco, lì, vicino alla sua guancia, “Rispondi alle mie domande, per favore.”

Sherlock ricambia la stretta e deglutisce un lungo sospiro, “Sto bene, lo sai che quando mi sveglio fatico un po’ a carburare.”

“Okay,” concede John e non accenna a voler spostare la propria mano dalla comoda presa in cui è avvolta, “che ne dici se ti preparo qualcosa? I pancakes, magari, che ti piacciono tanto.”

“Mmh,” annuisce Sherlock, “Wilbur però non può mangiarli.”

“A lui daremo la sua pappa. Ne hai ancora?”

“Ovviamente.”

John si china in avanti e gli sussurra sorridente, come se stessero condividendo un enorme segreto, “Scommetto che in questa casa c’è più pappa per cani che cibo per umani, vero?”

Sherlock ride appena e fa di tutto per scontrare delicatamente la propria fronte con quella di John, “Si vede che mi conosci bene.”

Anche John ride e Wilbur, sentendosi escluso, si unisce con un piccolo guaito. Il dottore lo accarezza con la mano libera e, sempre guardando il cucciolo, parla in verità a Sherlock, “Mi manca vivere con te.”

“Con me o con Wilbur?” scherza Sherlock per sdrammatizzare, e sentendo John ridere appena, gli stringe la mano che ha ancora nella propria, “Torna.”

“Non è così semplice.”

“Perché?”

Già. Perché? Se è vero che John non si sente più lo stesso da quando non vive con Sherlock, la soluzione più semplice non sarebbe tornare?

“Perché non ci siamo più solo tu ed io,” John prova a convincere anche se stesso con quella risposta.

Il tono di voce di Sherlock continua a rimanere basso, come se la mancanza di John influisse anche sulla propria potenza vocale, “Per me ci siamo sempre stati solo tu ed io. E sempre lo saremo. Sempre.”

“Non è così semplice,” ripete John prima di alzarsi e dirigersi in cucina.

Per quel giorno, il discorso è da considerarsi chiuso.

*

Mycroft è seduto nel patio di una piccola ma elegante caffetteria assieme ad uomo leggermente più giovane di lui, altrettanto elegante e oggettivamente più bello di lui, quando riceve un sms.

Vedo che hai convinto il tuo pesce rosso a venire a vivere con te. E vedo che Orville cresce bene come suo fratello Wilbur. SH

Mycroft alza lo sguardo per cercare il viso di Sherlock nelle vicinanze ma, non trovandolo, si limita a rispondergli in un momento in cui l’uomo che lo accompagna si assicura che il guinzaglio di Orville sia ancora legato alla gamba del tavolo.

Che ne dici di raggiungerci, fratellino? Qui fanno un’ottima Victoria Cake. MH

Non vorrei disturbare la colazione del pesce rosso e del suo compagno. SH

Vorrebbe conoscerti, in verità. E scommetto che a Orville farebbe piacere rivedere Wilbur. MH

Come fai a sapere che Wilbur è con me? SH

Orville, notoriamente molto pigro, sta annusando l’aria come un forsennato. MH

Va bene. Ordinami un pezzo di torta, nel frattempo. SH

Sarà fatto. Ah, Sherlock? MH

Sì? SH

Ti sarei grato se non lo chiamassi “pesce rosso” in sua presenza. MH

“Va bene,” risponde la voce di Sherlock alle spalle di Mycroft.

Mycroft si alza, mentre l’uomo che è con lui è indeciso se osservare i due bulldog inglesi fare le feste l’uno all’altro o Sherlock, che lo sta studiando proprio come il suo compagno ha fatto con lui la prima volta che si sono incontrati.

“Sherlock,” inizia il maggiore degli Holmes, “ti presento Tom, il mio compagno. Tom, ti presento mio fratello Sherlock.”

Sherlock osserva prima il volto fiero e felice di Mycroft, quindi allunga una mano verso Tom, sorridendo piano, ma sinceramente, “È un vero piacere.”

*

Non riesco a smettere di guardare le foto. JW

Quali foto? SH

Ti ho fatto delle foto la prima volta che ti ho visto con Wilbur. Quando sono arrivato a casa stavate dormendo. JW

Non è giusto. Io non ho foto tue. SH

Non mi hai nel tuo palazzo mentale? JW

Tu SEI il mio palazzo mentale. SH

Non capisco cosa significhi. JW

Comunque, se tu abitassi qui non ci sarebbe bisogno di avere delle foto. SH
Torna. SH

Sherlock, sono sposato ora. JW

Non è qualcosa di irreversibile. Non è come tagliarsi via un braccio o una gamba. Puoi cambiare quello status. SH

Non è semplice come schioccare le dita. JW

Allora smettila di comportarti come se ti dispiacesse. SH

Ma mi dispiace. JW

Non abbastanza. SH

*

Prima o poi doveva succedere e quella era la conferma. Prima o poi doveva succedere che non fosse abbastanza bravo da riuscire a prendersi cura di Wilbur: è questo ciò di cui Sherlock si sta incolpando ora, nella sala d’attesa dello studio veterinario più vicino a Baker Street, mentre cammina avanti e indietro con lo sguardo rivolto alla porta che conduce alla stanza in cui il dottor Smith sta visitando il suo adorato bulldog inglese.

Quando una porta si apre, Sherlock scatta in avanti, non accorgendosi subito che, in realtà, è entrato qualcuno dall’ingresso principale e non da quell’uscio che lo divide ancora dal suo amico a quattro zampe. Quindi si volta nella direzione opposta ed è stupito di vedere John.

“Cosa ci fai qui?”

John riprende fiato dalla corsa che ha evidentemente fatto ed alza la mancina per indicare le sale visita della clinica veterinaria.

“Si sa qualcosa? Come sta Wilbur?”

“Cosa ci fai qui?” ripete Sherlock e questa volta alza la voce, nervoso e preoccupato.

John inspira forte per recuperare l’ultimo sorso di ossigeno che gli mancava per tornare a respirare regolarmente, quindi fa spallucce, “Mi ha chiamato Greg, mi ha detto cosa è successo.” Scrolla poi il capo, ancora incredulo su quel punto, “Perché hai chiamato Greg? Perché non hai chiamato me? Sono io il tuo migliore amico.”

Ma se John è incredulo in un verso, Sherlock lo è nell’altro, “Hai veramente voglia di discuterne ora?” ringhia quasi, “Non ho bisogno anche di te, ora.”

“Anche di me?”

“Non ho bisogno di stare male anche per te, adesso.” sbotta Sherlock perché non può avere la pazienza anche per affrontare John, ora. No davvero. “Ora è chiaro, John? Vattene.”

E ora John si sente incredibilmente stupido. E stronzo. Ma per quanto stupido e stronzo, non abbandonerà Sherlock in quella situazione. Anche a costo di prendersi un pugno in faccia. Gli si avvicina dunque, nonostante lo senta mugolare in dissenso e lo veda crollare sulla sedia e piegarsi in avanti per nascondere il viso tra un intreccio di braccia, gambe e riccioli scuri a nascondere ciò che rimane scoperto della fronte. John gli si inginocchia davanti e gli cattura la parte superiore del busto tra le braccia: stringe forte, perché non lo vuole lasciare andare: che lo insulti pure, se vuole, lui non si muoverà.

Ma Sherlock non protesta, anzi, sembra arrendersi: è così stanco di trattenere tutto ciò che ha dentro. Trattenere, poi, per cosa? Ormai anche i muri conoscono i suoi sentimenti per John, quindi perché sforzarsi di negare? Ora saranno affari di John, starà a lui decidere come comportarsi: cosa accettare e cosa rifiutare. E se a Sherlock non andrà più bene, beh, il mondo è piccolo, si dice, ma lui sa bene come sparire.

John lo chiama a bassa voce e non vedendo alcuna apparente protesta, prova seppur con qualche difficoltà ad alzargli il viso: quando ci riesce, gli tira i capelli all’indietro per scoprirgli il viso “Eccolo qui il mio Sherlock,” sussurra e continua quei movimenti che via via si trasformano sempre più in piccole carezze, “dai, dimmi cosa è successo al piccolo Wilbur.”

Sherlock alterna lo sguardo tra la porta e il viso di John, “Non so di preciso, ha ingerito qualcosa, è colpa mia.”

“Magari non è nulla di irreparabile,” lo incoraggia John, “nulla che non si possa espellere in modo naturale.”

“È così piccolo.”

“Quindi più adatto a guarire da certi tipi di problemi.”

“Non è un osso rotto, John.”

“Lo so, Sherlock,” sussurra il dottore “lo so. Ma non è detto che sia finita.”

“John, tu…” inizia Sherlock, poggiando la fronte su quella di John.

“Cosa?”

“Nulla.”

John sta per obiettare, ma a quel punto la porta della sala visite si apre e il veterinario ha un sorriso incoraggiante disegnato sul volto. Sherlock si alza di scatto e John lo segue subito dopo.

“Wilbur sta bene, signor Holmes,” lo rassicura prima di tutto “era solo una monetina. A volte capita che gli animali domestici le mangino, ma siccome Wilbur è ancora piuttosto piccolo, ha avuto bisogno di una mano per poterla espellere in modo naturale.”

Sherlock è così sollevato che inizia un lungo sproloquio a bassa voce il cui interlocutore altri non è se non se stesso, così è John a rispondere alle domande del dottor Smith e a guidare l’amico all’interno della sala visita tenendolo per mano.

“Portiamolo a casa,” dice poi John e Sherlock annuisce in silenzio, cullando un dormiente Wilbur tra le braccia, come se fosse un neonato.

*

Una volta arrivati a Baker Street, Sherlock non ha voluto lasciare Wilbur neanche per un istante, così John si è occupato della cena, di apparecchiare tavola e anche di rassettare un po’ in giro per cercare, quanto meno, di diminuire le probabilità che altri incidenti come quelli di quel giorno possano ripetersi.

Solo dopo cena, Sherlock si fida ad appoggiare un ancora dormiente Wilbur sulla sua cuccia: si accascia sulla propria poltrona, poi, sfibrato da quella lunga giornata.

John lo imita, sedendosi sulla propria e sporgendosi un poco in avanti per riuscire a toccare il ginocchio di Sherlock. “Dai, alla fine è andato tutto bene. Wilbur sta bene, puoi rilassarti.”

Sherlock annuisce, “Sì. Infatti ora puoi anche andare…” si morde il labbro, poi aggiunge “Grazie.”

Lo stupore di John è palpabile e lo stempera con una piccolissima risata, “Posso rimanere ancora un po’.”

“Ma come? Non hai una moglie da cui tornare? Sei sposato ora, l’hai detto così tante volte,” Sherlock guarda altrove, ma arriccia con forza le dita delle mani sui braccioli della poltrona, “se non fossi così stanco sono sicuro che riuscirei a ricordare velocemente tutte le volte che l’hai detto e fare un rapido calcolo.”

“Sherlock…”

“Vai via, John. Non ti ho cercato io, oggi.”

“Perché vuoi che me ne vada?”

“Perché se non te ne vai ora, potresti pentirtene.”

John reclina il capo di lato, ma non accenna a spostare la propria mano dal suo ginocchio, “Perché?”

Sherlock, d’altro canto, scatta in avanti e gli afferra la mano “Perché io ora proverò a baciarti.” Ringhia: è la sua ultima cartuccia, “E se tu lo accetterai, il tuo matrimonio sarà finito per sempre, mentre se lo rifiuterai, sarà la nostra amicizia ad essere finita.”

John chiude gli occhi e, dopo molto tempo, finalmente sente una scarica elettrica scuoterlo: sente risvegliare una parte di coscienza che era da tempo sopita, nascosta e che fremeva per poter uscire. Riapre gli occhi, allora, e lo fa in tempo per riuscire a vedere il viso di Sherlock avvicinarsi al proprio. Apre leggermente le labbra e respira un soffio d’aria direttamente dalla bocca di Sherlock, ma lo ferma prima che il vero contatto avvenga.

“Aspetta.”

Sherlock chiude gli occhi ed inspira, sconfitto. Sente John alzarsi e può distinguere il frusciare delle maniche della giacca quando rivestono le sue braccia da ex soldato. Ma, più di ogni altra cosa, sente il mondo crollare.

John, invece, si muove con più sicurezza ed è per questo che riesce a capire quale pensiero stia attraversando la mente di Sherlock, quindi si china di fronte a lui, riempiendo quel posto rimasto vuoto.

“Le cose vanno fatte bene, Sherlock,” gli bacia la fronte e lo stringe con una forza nuova e al tempo stesso vecchia, con un vigore ritrovato, “non voglio essere il codardo che tradisce sua moglie irrispettosamente.”

Sherlock riapre gli occhi e lo guarda da vicino e gli pare di riconoscere qualcuno che ha conosciuto molto tempo prima: un ex soldato pieno di problemi, ma fiero e pronto a rimettersi in gioco.

“Quindi ora vado al mio appartamento,” parla lentamente, John, come se stesse suggellando un patto importante, “parlo con Mary,” gli accarezza le occhiaie coi pollici, “faccio la valigia,” un altro bacio sulla fronte, “e ritorno qui, a casa. Il posto a cui appartengo, dalla persona che amo veramente, okay?”

“John,” il respiro di Sherlock accelera inevitabilmente.

“Fammi fare le cose bene, come avrei fatto un tempo, quando eri tu a guidarmi.”

“Vai. E fai in fretta,” lo sprona Sherlock, strattonandolo con tutta la forza che ha in corpo, “perché prima concludi questa faccenda, prima potrai tornare nel posto a cui appartieni, dalla persona che ti ama veramente.” Usa le sue stesse parole: un voto, una promessa.

Anche John lo strattona prima di liberarsi dalla sua presa: gli sorride, poi si volta e corre giù per le scale, quindi per strada, verso la via che lo aiuterà a concludere la ricerca della vera essenza di sé.

Per quanto riguarda Sherlock, ora non può fare altro che attendere, a mani intrecciate, con la gamba destra che balla un tip tap nervoso sul vecchio pavimento del 221B di Baker Street.

*

Sono quasi le cinque del mattino quando Sherlock, ancora seduto sulla poltrona del soggiorno, si sveglia a causa di qualche leggero rumore: fuori dalla finestra si sentono gli ammortizzatori dei Double Decker sfiatare alle pensiline delle fermate, le frenate dei camioncini dei fornitori che consegnano i latticini freschi alle caffetterie e i tonfi dei quotidiani lanciati dai fattorini contro le porte.

Ma sono i suoni che percepisce all’interno dell’appartamento quelli che lo incuriosiscono maggiormente: sente il leggero russare di Wilbur e, ancor più bello, sente qualche tintinnio proveniente dalla cucina. Mette a fuoco, allora, e dopo aver individuato un vecchio borsone militare davanti alla porta dell’ingresso, vede John, il suo John, preparare la colazione nonostante l’orario decisamente mattutino. Che l’abbia fatto apposta per svegliarlo? A Sherlock va bene così.

Va bene, perché si alza dalla poltrona e con la grazia di un gatto si avvicina a John, di spalle, in tempo per chiuderlo in una presa possessiva e probabilmente anche un po’ scomoda.

Le spalle di John scricchiolano un poco, ma al dottore non sembra dar fastidio più di tanto. “Sono riuscito a far finta di non volerti svegliare, dunque.”

Sherlock dondola leggermente, facendo barcollare inevitabilmente anche John del quale ignora completamente le parole, “Sei tornato?”

“Tu che dici?”

“Sei tornato?” insiste Sherlock: ha bisogno di sentirlo dire.

John capisce ed annuisce paziente, “Sì, sono tornato.”

“Sei tornato per restare?”

“Per sempre.”

Sherlock modifica la propria presa, ma non la smorza di molto, “Conosci le mie intenzioni, ora.”

“Rimarrai sempre il mio migliore amico.”

“Mmh,” non la risposta che Sherlock si aspettava.

John, tuttavia, sorride sicuro, “Non si lascia una moglie per un semplice amico, Sherlock.”

Sherlock mugola ancora e rinvigorisce la stretta.

John ride appena e, non sa neanche lui come, riesce a ruotare in quella stretta per poi trovarsi faccia a faccia con Sherlock. “Lo dico più chiaramente, allora. Ma solo se allenti un po’ la presa.”

Sherlock ammorbidisce i muscoli delle braccia, ma riesce comunque a tenere John stretto a sé. Ha gli occhi languidi e un leggero sorriso disegnato su quelle stesse labbra con le quali ora sfiora il viso di John.

John chiude gli occhi e appoggia le labbra su quelle di Sherlock, brevemente, come un leggero assaggio che lo prepari ad un boccone che è troppo gustoso da poter essere mangiato tutto assieme, “Ti chiedo scusa e ti ringrazio al contempo, Sherlock.” Pronuncia frasi brevi, poiché le sue labbra e quelle di Sherlock, ora che si sono assaggiate per la prima volta, non sembrano aver alcuna intenzione di stare ancora troppo lontane l’una dall’altra, “Ti chiedo scusa per essere stato così sciocco da non vedere cosa c’era veramente tra noi, facendo soffrire entrambi, ma soprattutto te.”

Sherlock mugola e nonostante sembri in uno stato di trance portato da una qualche forma di estasi, sta ascoltando attentamente le parole di John.

“E ti ringrazio, perché è grazie a te se sono riuscito a ritrovato a me stesso dopo essermi smarrito. Non posso stare lontano da te, Sherlock, non posso e non voglio, ne va della mia vita.”

“John…”

John alza le proprie braccia quanto può, stringendo Sherlock all’altezza dei fianchi, “E ti ringrazio per avermi dato un’altra possibilità quando non l’avrei certamente meritata.”

Sherlock ripete il nome di John come un mantra e continua a baciarlo delicatamente, quasi come se stesse chiedendo il permesso.

“Ti amo,” conclude John, “e farò tutto ciò che in mio potere per darti la felicità che meriti.”

Sherlock sorride, finalmente, e lo fa a piene labbra, felice e grato per le parole che John gli ha appena regalato. Non era contemplata l’opzione di non perdonarlo, così, a mente calda, ma è sicuro che in un momento più tranquillo riascolterà quelle parole più e più volte e rinnoverà la certezza di aver fatto la scelta giusta a concedere a John un’altra possibilità.

Si incontrano a metà strada per un bacio più lungo, più approfondito, con le braccia che prima si ammorbidiscono attorno agli altrui colli e che dopo rafforzano nuovamente quegli abbracci, mossi da un altro tipo di urgenza che diminuisce al suono di un guaito.

Entrambi abbassano lo sguardo e vedono un gioioso e rinvigorito Wilbur provare ad attirare la loro attenzione con un esagerato scodinzolio e un accenno di guaito.

“Oh,” John si china per prenderlo in braccio e porgerlo a Sherlock, “visto? Il piccolo Wilbur sta bene.”

“Oggi è un giorno fortunato,” sussurra Sherlock tenendo Wilbur con un braccio e le spalle di John con l’altro, “John?”

“Sì?”

“Oggi possiamo stare tutto il giorno insieme? Tu, io e Wilbur?”

John sorride ed alza il viso per baciare la guancia di Sherlock, “Certo.”

“Sdraiati? Sul divano o sul letto?”

“Sì, Sherlock.”

Sherlock sorride felice e anche Wilbur si unisce alla sua gioia leccandogli la mano, “Sta accadendo sul serio, John?”

John si fa strada tra le braccia di Sherlock con attenzione e, dopo avergli baciato le labbra a lungo e dolcemente, annuisce appena, “Sì, è tutto vero. Stiamo insieme, Sherlock. Siamo di nuovo tu ed io...”

“...e Wilbur...”

John ride, “Siamo tu, io e Wilbur contro il resto del mondo. Senti come suona bene?”

Sherlock sospira, ed è un anelito bello, sereno e soddisfatto. “Suona perfettamente.”

   
 
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