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Autore: fmsugar    24/02/2015    1 recensioni
Daniel è un adolescente appena trasferitosi nella misteriosa città di MoonTown. Qui conoscerà nuovi amici e Marcus un ragazzo, a tratti particolare, che lo trasporterà in un vortice di emozioni. Qualcosa però potrebbe non andare per il verso giusto.
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Non sapevo dove sarei finito, continuavo a guardare il cellulare ed eravamo in viaggio ormai da ore.  Ci stavamo trasferendo da Chicago perché mia madre che aveva divorziato, da qualche mese, con mio padre. Voleva cambiare aria. Così si mise a cercare su internet case  incantevoli in cittadine sperdute. Il motivo del divorzio o meglio la goccia che aveva fatto traboccare il vaso? Sono stato io. Avevo ammesso di essere omosessuale ai miei genitori. Mio padre che non lo aveva accettato fu cacciato fuori casa da mia madre, da qualche tempo litigavano pesantemente e mamma aveva colto al volo quel motivo per lasciarlo.
-Dai tesoro sii più positivo, vedrai che ti piacerà e lì ti farai tanti nuovi amici ne sono certa.-
-Mamma, io già avevo una vita e poi tutti già conoscevano come sono veramente. Qui dovrò cominciare da capo.-
-Tranquillo non sono tutti come tuo padre. Fatti conoscere per quello che sei  e vedrai che non avrai problemi.-
Passò un'altra ora di totale silenzio, mia madre all’improvviso mi strillò nelle orecchie.
-Guarda! Eccola! Ha un nome così misterioso.-
Passammo di fronte all’ingresso della città, dove c’era scritto su un cartello di legno ammuffito: “Benvenuti a MoonTown”. Oddio, speriamo che almeno qui ci abitino quelli della mia età, pensai. Continuammo per una stradina che costeggiava un lago enorme dove grandi anatre galleggiavano eleganti su quello specchio d’acqua, poi prendemmo una salita che ci avrebbe portato nel centro abitato.
-Eccola! È quella lì, è proprio come nella foto.- Gridò mia madre.
E la vidi, una villetta di legno verniciato di blu e le imposte viola, ma che razza di posto era quello, sembrava una casa delle streghe, e pensare che quella sarebbe diventata la mia casa. Quando entrammo rimasi di stucco, era così bella,  nuova, lucida. Andai di sopra e mi appropriai della camera più bella. Dopo  aver dato una pulita, disfai le mie cose, e aiutai mia madre a disfare gli scatoloni. Dopo un po’ sulla soglia di casa si presentò una ragazza della mia età con un cesto di dolci. Aveva i capelli rossi, gli occhi verdi e le lentiggini sul viso, era magra, carina.
-Salve, mi chiamo Sarah Bennet, mia madre mi ha chiesto di portarvi questo e darvi il benvenuto.- Disse con un sorriso così sincero.
-Grazie cara. Ringrazia anche tua madre e dille che qualche volta mi piacerebbe avervi a cena da noi-. Le disse mia madre andandole incontro per abbracciarla. –Daniel perché non la accompagni magari fai amicizia, così domani a scuola avrai un volto  conosciuto-.
Posai lo scatolone, mi alzai in piedi e le andai in contro.
-Ciao! Sono Daniel, ti va di farmi vedere un po’ l’ambiente?-
-Io sono Sarah. Certo, andiamo ti mostro il posto.- Disse rivolgendosi a me con un tono molto amichevole, che mi incoraggiò ad assecondarla e a seguirla.
Camminammo circa un venti minuti e arrivammo subito alla piazza principale della città. Era una piazza circolare con un padiglione al centro e del prato verde attorno. Sarah mi condusse verso un gruppo di quattro ragazzi di circa la nostra età. Una volta raggiunti, dopo che ebbero salutato Sarah mi accolsero con un sorriso e ci stringemmo la mano. Conobbi Davis Thomas un ragazzo molto simpatico, era più alto di me aveva i capelli castani e gli occhi dello stesso colore, spalle larghe magro e con un fisico asciutto, poi c’era Jack Brown anch’egli era più alto di me aveva i capelli di un castano chiaro, gli occhi verdi, lui era più atletico rispetto a Davis probabilmente faceva sport, erano presenti anche due ragazze una era Becky Bennet la cugina di Sarah, era magra molto carina anche lei ma non come la cugina, alta più o meno come me, con i capelli biondi e corti, Tess Sunders invece era la più bassa di tutti era castana e formosa. Ci conoscemmo meglio, parlammo un po’ di noi, mi chiesero il motivo del mio trasferimento e io gli raccontai parte della mia storia. Non ero pronto, ancora, per dire tutto di me. Io ero appoggiato alla balaustra del padiglione, il mio sguardo rivolto ai ragazzi dava sulla stradina. Dopo un po’ mi accorsi di una persona, un ragazzo che il lontananza mi fissava, stava bevendo dell’acqua da una borraccia intanto mi guardava. Il mio cure fece un po’ di fracasso, incominciò a battere forte e lo fissai a mia volta. Era molto alto, muscoloso, grosso, indossava una tuta grigia che, anche se era larga, aderiva alle cosce grosse. Aveva la barba, una barba scura, nera, come i suoi capelli leggermente rasati sui lati e al centro più lunghi quasi come una cresta. Anche se era lontano riuscì a vedere i suoi occhi blu notte. Terminò di bere, si asciugò la bocca con il dorso della mano, il tutto fissandomi ancora. Poi prese una rincorsa. Intanto mi ero spostato avevo fatto tre passi senza accorgermene, gli altri mi fissavano ma non m’ importava, io guardavo lui. Dopo aver preso la rincorsa scattò e corse verso di me per poi deviare verso una stradina che si inoltrava tra gli alberi. Il profumo che mi investi quasi mi fece chiudere gli occhi, un odore di bosco, muschio e sudore, maschio, virile e mi piaceva.
-Daniel tutto ok?- La voce di Sarah mi riportò alla realtà. Ma cosa mi era preso.
-Chi era quello.- Dissi quasi balbettando accorgendomi di avere la gola un po’ secca.
-Quello lì era Marcus Clumb, ma perché ti interessa? Nessuno gli parla, è sempre isolato, esce solo per le sue corse.- Intervenne Becky.
-Oh nulla, mi era sembrato un tipo strano.- Risposi ritornando da loro. -Sarah, ragazzi, è stato un piacere, adesso devo proprio tornare a casa. Mia madre ha bisogno di me.-
Mi salutarono tutti, un po’ dubbiosi per quello che era successo, ma in modo amichevole. Camminando verso casa continuai a pensare a quel ragazzo, Marcus. Era così bello e quei suoi occhi mi avevano quasi ipnotizzato. Se non fosse stato per quei ragazzi in mia compagnia gli sarei corso dietro. Com’era possibile che il suo sguardo mi aveva fatto quell’ effetto, non potevo capire il significato di quella sensazione, non ero mai stato innamorato. Fermandomi a guardare l’orario, mi accorsi che erano le diciotto, la luce del sole era ormai svanita al di là dell’orizzonte. Mi guardai attorno e le case che avevo di fronte non le ricordavo, capì che mi ero perso. Tirai fuori il cellulare per chiedere aiuto a mia madre. Non c’era campo. La strada era deserta, e non avevo il coraggio di bussare ad una porta e chiedere informazioni. Non sapevo cosa fare, continuavo a guardarmi attorno in cerca di un punto di riferimento, non potevo nemmeno tornare indietro perché non ricordavo da dove ero venuto. Niente panico pensai. Mi sedetti sul marciapiede e mi portai le mani al viso, non sapevo cosa fare, era buio e avevo paura. Quel posto metteva i brividi.
-Non dovresti essere fuori a quest’ora.- Una voce profonda squarciò quel silenzio. Non avevo il coraggio di alzare gli occhi e di guardare, ma lo feci, ed era lui. Aveva cambiato abiti, indossava una t-shirt aderente nera a mezze maniche che metteva in risalto i suoi muscoli tesi, notai che aveva un braccio completamente tatuato di tribali, un gilet di jeans, un pantalone largo verde militare e sotto calzava degli anfibi neri.  Non riuscivo a rispondere, il cuore aveva ricominciato a battere forte, non sapevo cosa mi era preso. Poi riuscì a mettere insieme qualcosa.
-Stavo cercando di tornare a casa e ad un tratto ho capito di essermi perso.- Distolsi lo sguardo, cercai di guardare altrove, evitai di guardarlo in quegli occhi così magnetici. Erano di un blu profondo.
-Dov’è che abiti.- Chiese profondamente, quasi come un ruggito, ma non potevo rispondergli, come facevo a sapere che non era un criminale. Ma alla fine risposi, era l’unico modo per tornare a casa.
-E’ una casa viola, ma non ricordo dov’è, i cellulari qui non prendono. Sono disorientato.-
-Avete preso la casa dei Winwar quindi, dai seguimi. Non aver paura.- Si avvicinò porgendomi la mano per aiutarmi ad alzarmi. Esitai per un istante, ma poi gli diedi la mia mano. Scoppiò qualcosa, era calda e quel calore si diffuse prima in tutto il braccio, poi in tutto il corpo. Mi alzai e tirai di scatto la mano, notai quello che sembrava essere l’ombra di un sorriso. Ci avviammo per una stradina deserta, priva di case, dominata solo da alberi spaventosi. Ed io ero lì proprio con lui, dovevo farmi accompagnare a casa da Sarah.
-Come ti chiami?- Mi chiese volgendomi lo sguardo.
-Daniel, mi sono trasferito oggi.- Dissi continuando la nostra camminata.
-Immaginavo. Dobbiamo fare in fretta, è tardi non ti rimane molto tempo.- Disse afferrandomi la mano e aumentando il passo, per poco non inciampai sulla radice di un albero.
 – Ecco quella è la tua casa.- Mi mise le mani sulle spalle e mi guardò fisso negli occhi. – Non uscire più di casa fino a tarda ora, qui non è come nelle altre città. Di giorno c’è gente, si può uscire, ma di notte è meglio rimanere in casa. Lo dico per te, non voglio che ti accada qualcosa. Adesso va’ avremo modo di conoscerci meglio un’altra volta.- Mi lascio le spalle e si allontanò indicandomi la casa con un cenno del capo, cosa voleva dire. Mi recai di corsa verso casa, ero troppo spaventato.
Aprì la porta, sentì un rumore in cucina, forse mia madre cucinava, la raggiunsi.
- Tesoro, ci hai messo tanto. Devi esserti proprio divertito. Sto preparando la cena.-
-Si mamma, insomma.-
Dopo aver cenato salì in camera e mi precipitai sul letto, che strana giornata pensai.  Ma cosa volevano dire le sue parole, perché dovevo rientrare prima che faceva buio, perché non voleva che mi accadesse qualcosa, cosa poteva accadermi, e perché si preoccupava per me nemmeno mi conosceva. Troppe domande a cui non riuscivo a dare una risposta. Mi aveva parlato quasi come se la fuori stesse per scoppiare un rivolta con armi da fuoco. Continuai a pensarci per altre ore fin quando non sentì gli occhi pesanti. Il giorno dopo sarei dovuto andare a scuola, avevo paura anche di quello.
   
 
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